Leggendo delle condizioni di salute di Zdeněk “Sdengo” Zeman, e incrociando le dita per lui, mi piace raccontarvi un episodio che riguarda la mia gioventù. Anni ’70, Palermo, Istituto Gonzaga, gesuiti coi quali ho sempre avuto un rapporto difficile seppur con qualche piacevole sorpresa. La scuola ha una buona squadra di pallamano, la Generali Gonzaga, nelle cui fila io bazzico: sono uno dei più piccoli, il mio talento è pressoché insignificante, intorno a me ci sono giocatori di talento, io sono solo uno che corre veloce e leggero ma che ha un tiro scarso. La mia esperienza rimarrà infatti solo un (bel) ricordo tra mille altri episodi di gioventù attiva, militante, divertente, cazzuta.

L’allenatore è un boemo di cui sappiamo pochissimo, tranne che è uno che lo sport ce l’ha nel sangue: ha giocato a pallanuoto nella Calidarium Palermo e ovunque c’è una palla da portare in rete è un maestro di creatività e innovazione.
Si chiama Zeman, che per noi ragazzini è già un nome complicato, anche se scopriremo solo anni dopo che è un cognome. Molti lo chiamano Sdengo e questo avrebbe dovuto farci sorgere un sospetto, ma figuriamoci: da giovani non si va troppo per le lunghe quando c’è da divertirsi, e divertirsi a certe latitudini della vita significa soprattutto faticare.

Zeman è (anche) allenatore di quella squadra di pallamano. Di lui ricordo le pochissime parole e le frasi lapidarie per spiegare gli schemi di gioco: “Tu ci dai la palla a lui, lui ci dà palla a lui, lui tira”. E poi le sigarette. Zeman fuma anche tra una sigaretta e l’altra e non apre mai una discussione. Lui parla, gli altri ascoltano. E corrono: ricordo gli allenamenti più massacranti della mia vita. Alla base di tutto per lo Zeman che ho conosciuto (quindi lontano dai tatticismi di quando diventerà un importante allenatore di calcio) c’è la corsa, c’è lo scatto, ci sono gambe e polmoni, al cervello pensa lui. Lui è il nostro cervello.

Una sera d’inverno accade qualcosa di inaspettato. Dal cavalcavia sopra il nostro campo di gioco alcuni teppisti cominciano a tirare pietre. Molte pietre, pericolose, alcune ci mancano di poco. Siamo spaventati, anche per la posizione di sfavore: all’aperto, sottostanti al fuoco, unici illuminati dai riflettori, loro invece sono al buio.
Zeman ci ordina con lo sguardo di arretrare in modo da essere più distanti dal cavalcavia. Resta solo, davanti a tutti noi. Raccoglie le pietre che ci hanno lanciato e dal basso risponde al fuoco con movimenti brevi e secchi. Un fucile di precisione che rimanda indietro i proiettili. Sentiamo il soffio delle sue braccia che fendono l’aria fredda con una rapidità che a pensarci oggi mi pare leggendaria. Soprattutto sentiamo il rumore delle pietre che colpiscono il metallo dell’inferriata che sta lassù e poi le esclamazioni di sorpresa dei teppisti: ahi! Ouch! Azz!
Poi il silenzio.
Si sono dati alla fuga.
Rimaniamo impietriti da quella rapida sequenza di avvenimenti e solo la voce monocorde del mister ci riporta alla realtà: “Ue’, vuoi dormire? Serie di scatti, dieci. Forza!”

Di Gery Palazzotto

Uno che scrive. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

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