A cosa è disposto a credere il popolo (americano)? La domanda, attualissima, è il nostro punto di partenza e in qualche modo quello di arrivo. La parentesi, attualissima, è una mia libertà narrativa, per tentare di dare un respiro universale alla storia di cui vi parlo.
“Zero Day”, miniserie su Netflix, è il potentissimo enzima che catalizza la reazione di un ragionamento sulla verità. Attenzione! Se scrivo “verità” non sbadigliate, non vi distraete come quando si parla di qualcosa che ritenete lontano, alto, che non vi riguarda perché i cazzi vostri hanno un perimetro che include tinello, camera da letto, cesso e, al limite, sgabuzzino (per chi ha pochi armadi e scheletri che avanzano).

La miniserie – in questo post niente spoiler – narra di un tragico attacco di hacker all’America e di un ex presidente anziano, chiamato a presiedere una commissione con poteri straordinari, che ha il compito di stanare i responsabili e blindare il Paese. Liquido subito la citazione d’obbligo per il protagonista, Robert De Niro, giacché questa non è una critica cinematografica, ma qualcos’altro (almeno spero). Qui De Niro è un gigante coi suoi silenzi, la sua ferocia di espressione, la sua incertezza che parla attraverso le rughe del volto e dell’anima; da solo potrebbe reggere tutta la monumentale sceneggiatura, semplice e sorprendente come (solo?) gli americani sanno fare.

Quel che conta è il ragionamento che la serie impone: “La verità è la verità, ma non sempre è la cosa più importante”, si dice a un certo punto (resto vago per non incorrere nelle ire più che giustificate di chi non ha ancora visto la miniserie di Netflix). Ed è lì che nasce questa nuova Pastorale Americana con l’incognita dello sconosciuto che può nascondersi in noi: perché gli affetti spesso sono salti nel buio più di quanto siamo disposti a credere e perché l’America dei giorni nostri sta costruendo il tempio perfetto in cui immolare i suoi residui valori migliori (non che in passato abbia brillato in tal senso, ma da qualche mese si è messa d’impegno per farci rimpiangere anche il peggiore parente ubriacone dello Zio Sam).

Insomma, “Zero Day” è un prodotto molto cinematografico e soprattutto molto americano nella sua incantevole esibizione di tensione con un Paese che riesce a dare grandi soddisfazioni mettendo in scena le sue delusioni, a far luce esplorando il buio della ragione umana e di Stato, a inquietare persino nelle sue panoramiche più consolanti.
Mi accollo la responsabilità di scrivere che con questa serie l’anziano De Niro sfiora il capolavoro e con lui gli ideatori del progetto televisivo Noah Oppenheimer e Michael Schmidt e lo sceneggiatore Eric Newman. Piaccia o no – i gusti sono come i guai, ognuno ha i suoi ed è vietato recensirli  – “Zero Day” è un moderno manualetto su come si scrive oggi una storia per la tv, mettendoci dentro tutto quello di cui vorremmo che ci parlassero ma che non abbiamo il coraggio di ascoltare senza parlare. Si guarda il silenzio, rispettandone i tempi perfetti. E da noi in Italia, possibilmente, si prendono appunti.

Di Gery Palazzotto

Uno che scrive. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

1 commento su ““Zero Day” e il dilemma della verità”

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