L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.
Gli assassini di mafia in permesso premio sono un alibi troppo fragile per caricare a pallottole di indignazione le nostre armi di polemica. È ovvio che notizie così dirompenti tendano a indebolire quel che resta del nostro senso di giustizia in un’Italia complicata e sofferente. Però c’è una ragione che ci deve illuminare soprattutto nei momenti più bui, che è la ragione del diritto. Non è facile, ma è necessario.
I benefici ai detenuti, gli sconti ai collaboratori di giustizia sono tra i tasselli più spigolosi della nostra visione di comunità. Non servono una laurea in giurisprudenza, né una conoscenza enciclopedica del sistema mafioso per diluire il fastidio dinanzi a un criminale acclarato che usufruisce di un vantaggio che manco sotto tortura vorremmo elargirgli. Un assassino è un assassino e come tale deve essere trattato. Ebbene, il nostro sistema di civiltà ritiene che egli a certe condizioni possa godere di un’agevolazione. È l’antico dualismo tra ciò che è lecito e ciò che è giusto: tra legge e ragione, tra giudizio dei codici e sussuro della storia. Alcuni dei provvedimenti che consentono sconti e franchigie ai detenuti furono voluti proprio da chi quei criminali li incarcerò: Falcone, primo tra tutti.
È il contesto che ammazza la narrazione plausibile dell’indigesto. In un’Italia in cui pur di far valere la forza del diritto ci si arrabatta per garantire un permesso premio a un assassino, è dura assistere allo smodato incremento di pene e sanzioni generalizzate per ribadire quella stessa forza. Diamo benefici dovuti e spesso fastidiosi, mentre al contempo alziamo l’asticella per chi potrebbe usufruirne meno.
Uno Stato dispari.