Quelli che dicono “radical chic”

Quando si usa la definizione “radical chic” in senso dispregiativo o con una precisa denotazione politica (tipica dei conservatori quando pensano che i progressisti debbano mangiare per forza tutti pane e mortadella e vestire di merda) si dovrebbe tenere conto di un paio di cose. Una che riguarda l’Italia, un’altra che riguarda gli Usa.
Cominciamo con quella d’oltreoceano. E qui mi aiuta il Post.

L’introduzione della definizione di “radical chic” viene attribuita storicamente allo scrittore e giornalista americano Tom Wolfe che sul New York Magazine del giugno 1970 pubblicò un lunghissimo articolo intitolato “Radical Chic, That Party at Lenny’s”. Wolfe fece un resoconto del ricevimento che qualche mese prima Felicia Bernstein, moglie del compositore e direttore d’orchestra Leonard, organizzò per raccogliere fondi a sostegno del gruppo rivoluzionario delle «Pantere nere». La festa si svolse a casa dei Bernstein, in un attico su Park Avenue, a Manhattan. Erano presenti molte personalità che provenivano dal mondo della cultura e dello spettacolo newyorchese e i camerieri in livrea (camerieri bianchi per non offendere gli ospiti afroamericani) servivano tartine al Roquefort.
Dopo una breve introduzione, la prima parte del racconto di Tom Wolfe inizia così: «Mmmmmmmmmmmmmmmm». Sedici lettere, un’onomatopea per esprimere l’aria di appagamento che circolava in quella serata, ma anche che cosa Wolfe intendesse per “radical chic”: una specie di corrente, di moda, di milieu, un matrimonio pubblico molto ridicolo tra la buona coscienza progressista delle classi più ricche e la politica di strada, un corto circuito in cui alcuni rischiavano davvero, per le loro idee, e altri invece non rischiavano niente e in cui c’era l’illusione di una collaborazione e contaminazione tra diversi mondi e diverse classi sociali. La serata fu molto criticata: un editoriale del New York Times sostenne che aveva offeso e arrecato danno a quei neri e a quei bianchi che «lavorano seriamente per la completa uguaglianza e la giustizia sociale», Felicia Bernstein rispose pubblicamente difendendo la sua festa. Fatto sta che il termine usato da Wolfe per descrivere l’atteggiamento dei Bernstein si diffuse ben presto in tutto il mondo, e in Italia si radicò ancora più che altrove e prese a indicare, in maniera inesatta, una persona o un atteggiamento, diventando anche aggettivo.

Andando alle cose italiane, l’espressione “radical chic” ha subito grandi mutazioni, direi anzi imbarbarimento, negli ultimi anni. Soprattutto sui social, accoppiata a “comunisti col Rolex” o “rivoluzionari col cachemire” (questa è più rara forse perché cachemire è più difficile da digitare), viene usata come precisa offesa quando qualcuno non di sinistra vuole dare del cretino a qualcuno indicato o identificato come di sinistra.
C’è in questa pratica una strisciante dose di intolleranza verso il ragionamento complesso (la sinistra è cresciuta scansando le, spesso giustificate, accuse di intellettualismo) che è in fondo la vera innovazione politica dell’ultimo ventennio. La rozzezza e l’ignoranza al potere sono gli auspici dei partiti in ascesa in Italia, con l’eccezione del Movimento 5 stelle che è in caduta libera ma che sui luoghi comuni più selvatici ha costruito un successo non comune.
È la mancanza di argomenti che ci porta alle scorciatoie come quella del “radical chic”. La sinistra che non è più proletariato puro, l’orribile campagna “Parlateci di Bibbiano”, la coerenza che si chiede agli altri per evitare che sia un intoppo nostro. C’è tantissimo dietro un’offesa che non è vestita da offesa. In fondo “radical chic” è un insulto come un altro, solo più vigliacco.

Pubblicato da

Gery Palazzotto

Palermo. Classe 1963. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

Un commento su “Quelli che dicono “radical chic””

  1. Qui vale la pena di raccontare un fatto – lascio al lettore il compito di valutare se e quanto l’etichetta “radical chic” (o una delle sue generalizzazioni) si possa applicare alle persone in oggetto.
    In una città – Palermo – in cui, per vedere una sala del cinema piena, o anche mediamente piena, occorre aspettare che si levino lo scudo di Captain America o la bacchetta magica di Harry Potter, c’è un noto cinema che è riuscito a realizzare l’impossibile.
    Ha scelto un giorno della settimana e, sotto l’egida di una “sigla” un po’ roboante e di un competente direttore artistico, l’ha reso appuntamento fisso per il cinema d’autore (frequentemente, è il caso di dirlo, ottimo cinema d’autore).
    Da anni, puntualmente, quel giorno della settimana la sala si riempie fino all’orlo; chi fosse presente, tuttavia, noterebbe una certa omogeneità – demografica e non soltanto – degli spettatori. Quasi tutti rampolli – dai 20 ai 40 anni, grosso modo – della migliore borghesia palermitana. E a ben vedere, più o meno sempre le stesse persone. Qualcuno, non c’è dubbio, sinceramente incuriosito; su qualcun altro pende come una sciabola il sospetto che ci sia più per farsi vedere che per vedere.
    Sicuramente tutto ciò è più un bene che un male. Resta solo da chiedersi dove siano tutti questi “giovani di belle speranze” quando, in altri giorni, in altri orari, in altri cinema della città, passano autentici capolavori (perché anche questo accade) e tutto ciò che è dato vedere in sala è qualche rada testa bianca.

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