Da Estella a Los Arcos.

In una indimenticabile sequenza de “L’attimo fuggente” si riprende una vecchia frase di Robert Frost  – “Due strade trovai nel bosco e io scelsi quella meno battuta, ed è per questo che sono diverso” – alla quale pensavo stamattina davanti a una fonte dalla quale sgorgava vino. Si proprio così, vino. Davanti alla fonte del monastero di Irache, una delle tappe più caratteristiche del Cammino Francese, combattuto tra bere e sopravvivere, pensavo che ero lì proprio in virtù di una piccola deviazione dal percorso. Ma la mia diversità è stata sancita dalla scelta di non assaggiare quel vino mattutino, dall’aroma non proprio accattivante: resto in fiducia e apprezzo l’iniziativa pittoresca.

Che era giornata particolare si era capito sin dal primo tuono a tradimento. Il tempo da queste parti è così: sole, caldo, un istante dopo tuono e nuvola che ti prende alle spalle generalmente con pioggia da idrante dei pompieri; manco apri lo zaino e tiri fuori il presunto impermeabile (un mantello che persino il gobbo di Notre-Dame giudicherebbe antiestetico) che il sole riappare e ti spara 40 gradi sulla nuca. Trovato riparo nell’unica struttura edilizia nel raggio di 10 chilometri – il resto erano vigne e terra aspirante fango – ho aspettato che scampasse, rannicchiato come un incursore di “Salvate il soldato Ryan”. Solo che qui appena mettevi la testa fuori non erano pallottole, ma raffiche della pompa del Padreterno. 

Rimessomi in cammino, lungo una discesa che pareva una pista di bob, mi sono visto affiancare da una figura ballonzolante. “Stesso zaino, eh”. La frase mi ha dato un brivido. Non può essere, mi sono detto come se fossi il personaggio di un racconto di Stephen King. Era il giovane ungherese di qualche giorno fa che non solo mostrava di non aver riconosciuto il poveraccio a cui aveva rotto i coglioni per sei chilometri di salita, ma tradiva una certa serialità nell’approccio. Stavolta non mi sono fatto fregare e con un “eh” multilingue ho tirato dritto, lasciandolo passare. Un quarto d’ora dopo l’abbordatore era fermo con un’incolpevole ragazza che pur non avendo il suo stesso zaino era finita nella sua tela logorroica. 

La mia “strada meno battuta” mi ha portato nel posto da cui scrivo, nel nulla di una periferia di un non centro, non paese. Di fatto trascorrerò la notte in una pompa di benzina, attorno alla quale l’ingegnoso proprietario ha costruito un hotel, un piccolo supermercato dove accanto al deodorante per auto trovi la birra in offerta e i panini preconfezionati. Il concergie è lo stesso benzinaio, vestito ovviamente da benzinaio, che si divide tra il conto di una colonnina di super, lo scontrino di un bambolotto imbottito di caramelle e l’accoglienza nell’hotel. Nella sua lungimiranza – il deserto che c’è intorno è l’appiglio grazie al quale ogni minchiata può diventare idea per monetizzare – ha anche un ristorante pizzeria (dove per sette euro ti spacciano anche la prima colazione). Indeciso se vestire i panni del viaggiatore avventuroso o quelli dell’ostaggio, stasera ordinerò pizza. Senza nulla togliere all’arguzia imprenditoriale, spero solo che non sia lui a farmela con le sue manine.

6 – continua

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Di Gery Palazzotto

Uno che scrive. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

1 commento su “Vino dal nulla e hotel nel nulla”

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