La spiaggia, l’amore e il vortice dei social

Ciao Ada, ieri ti ho rivista dopo più di trent’anni. Eri sdraiata in spiaggia a Mondello e parlavi al telefono con una tua amica: ti lamentavi della tata inglese che dovrebbe insegnare le lingue ai tuoi due figli e invece se ne sta tutto il pomeriggio davanti alla tv. Come lo so? Me lo hai detto tu, anzi ce lo hai detto tu a tutti quanti, nel raggio di duecento metri, dato che il volume della tua voce non era certo da bisbiglio. Volevo avvicinarmi per salutarti ma, visto che eri impegnata, ho preferito rimanere in disparte. Tu intanto parlavi e parlavi, ma quasi nessuno ci faceva caso dato che intorno a te era tutto un coro di telefonisti belanti, una sinfonia di suonerie, un’orchestra senza direttore ma con una mezza dozzina di gestori. Io solo facevo caso alle tue parole e non perché non avessi un telefonino con cui intrattenermi, ma solo perché tu sei sempre stata il mio sogno irrealizzato. Quindi ho spento il mio cellulare e ho aspettato.
Ada, sono più di trent’anni che vorrei parlarti di persona. Non ne ho mai avuto il coraggio perché la tua bellezza mi ha sempre tolto le parole, come quando finisce la ricarica. Non ci riuscii quella volta in cui, ragazzini, ci trovammo per la prima volta faccia a faccia nell’acqua bassa di Valdesi e tu nuotasti via immergendoti nel liquido del mare tiepido di agosto. Non ci riesco adesso giacché ti osservo immersa nei cristalli liquidi del display che ti accarezza la guancia abbronzata.
Sono sincero, Ada. Non ti ho mai dimenticata e, a dire il vero, non sono capitato su questa spiaggia per caso. Sapevo che ti avrei trovata oggi, a quest’ora. No, non ti ho seguita. Almeno non fisicamente, ti ho followata con l’account di mia nipote su Facebook. Lì c’è il libro mastro di tutte le tue intenzioni. So tutto dei tuoi cocktail preferiti, della prova costume iniziata quando ancora c’era la neve su Monte Cuccio, della tua passione per gli smalti fluo, della tua insana predilezione per Emma Marrone, dei tuoi figli, di tuo marito, del tempo libero e di quello perso, delle settimane bianche e dei periodi neri, del lavoro, del sushi al venerdì sera, dell’ozio della domenica mattina, del primo caffè e dell’ultimo spettacolo. Me lo hai detto tu, anzi ce lo hai detto tu a tutti quanti, nell’infinito raggio d’azione dei social network.
Poi hai chiuso la telefonata e ho avuto un sussulto: volevo venire da te, costituirmi nonostante persino certi sentimenti cadano in prescrizione. Insomma, ti ho voluto bene, ma sino agli anni Ottanta: tipo Andreotti con la mafia.
Sono scattato in piedi dal mio loculo di pubblica battigia, ma mi sono dovuto fermare subito. Avevi sfoderato il tablet e diteggiavi forsennatamente nonostante il display reso viscido dall’olio solare. Mettendoti seduta sull’asciugamano, hai cominciato a esibirti in certe smorfie come quelle che si fanno davanti allo specchio del bagno, la mattina. Invece tu eri lì, davanti a tutti, che allungavi la bocca, spiavi i tuoi punti neri alla base del naso, censivi le rughe della fronte come se nulla fosse, confortata dalla tua intimità virtuale: se la telecamera integrata del tablet riprendeva solo te, eri autorizzata a sentirti “sola dentro la stanza e tutto il mondo fuori”. Solo che in Albachiara di Vasco Rossi l’occasione aveva un suo seducente traino sessuale (“qualche volta fai pensieri strani con una mano, una mano, ti sfiori”), qui nel settore C delle cabine di fila esterna dell’Italo Belga il gesto si diluisce in un compromesso tra l’igiene e il suo contrario: non più brivido, ma brufolo.
Cara Ada, rivederti anche se distante e indaffarata mi ha dato una grande gioia. E nulla ci fa se nel frattempo hai riagguantato con una mano il cellulare per rispondere a un sms, digitato con l’altra una raffica di emoticons su Twitter, indossato le cuffiette del riproduttore mp3, e gridato a squarciagola “e intanto dimentico tutto, dimentico tutti” della mitica Emma. Ovviamente anche stavolta nessuno degli astanti si è voltato, o meglio si è lasciato scuotere dal suo microcosmo di web cam, di agognato 3G, di “mi piace”, di “whatsappate” a tempesta.
Nella mia gioia solitaria ho catturato un’ultima immagine di te che ti scattavi una foto con le labbra a cuore.
E ho cacciato via un pensiero obliquo: quelli che oggi si chiamano selfie, un tempo si chiamavano autoscatto e alcuni finivano in apposite rubriche di giornali specializzati in un genere assai meno nobile di fai-da-te.
Ebbene sì cara Ada, anche questa volta non sono riuscito a manifestarmi. Forse un giorno ci rincontreremo, stessa spiaggia stesso social, forse riuscirò a vincere la mia timidezza, forse ti manderò un sms o un emoticon a forma di maschio nerboruto su Viber, forse userò una carrettata di cuori di Instagram per apostrofare le immagini quotidiane dei tuoi piedi. Forse me ne fregherò, e ti verrò direttamente a citofonare a casa, perché dove abiti me lo hai detto tu, anzi ce lo hai detto tu a tutti quanti, con Foursquare.
O forse ci penserò su per altri trent’anni, sperando che la vecchiaia non spenga solo le cellule a una a una, ma anche qualche cellulare.

Quest’articolo è stato pubblicato su Repubblica il 3 luglio 2014.

Pubblicato da

Gery Palazzotto

Palermo. Classe 1963. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

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