La miseria e la compassione


Se andate in giro di notte per una città italiana vi accorgerete di non accorgervi più di certi cambiamenti. Io me ne sono accorto l’altra sera.
Devo andare a cenare fuori con un amico. Lungo la strada mi fermo al primo semaforo: due immigrati si dedicano in contemporanea alla mia auto, uno come lavavetri, l’altro affibbiandomi un deodorante da appendere allo specchietto retrovisore. Stessa scena – con variante fazzolettini di carta – per altri cinque incroci. Ho il vetro pulitissimo, faccio io stesso profumo di mela verde eppure sembra che abbia sempre bisogno di qualcosa: gli immigrati sono gentili, io cerco di essere fermamente gentile nel dire no.
Arrivato davanti alla pizzeria, cerco parcheggio. Un ragazzino indigeno mi aggancia al volo e mi indica un posto. “Due euro”, spara appena metto piede a terra. L’amico che mi aspettava mi viene incontro, intuisce il genere di reazione che sto per avere e allunga una moneta. “Facciamoci una serata tranquilla”, mi esorta.
Al tavolo, prima del menu, arriva un cingalese che vende rose. Ne posa una sulla tovaglia a quadrettoni e aspetta. Noi continuiamo a parlare, lui resta lì in piedi. “Siamo due uomini, non si vede?”, gli dico dopo un paio di minuti. Se ne va perplesso.
Gli dà il cambio una ragazza cinese che si presenta con una vetrina di minuscoli elettrodomestici appesa al collo. E’ la più discreta. Al nostro diniego, abbozza un inchino e traghetta oltre.
Tra la pizza e il dolce passano altri due giovani immigrati con rose e accendini. Ognuno per conto proprio, uno remissivo e lamentoso, l’altro decisamente più spavaldo. Ci alziamo e paghiamo il conto. Mentre usciamo sta rientrando il cingalese dell’inizio cena: ci scansa con un sorrisino.
Davanti alla macchina troviamo un ragazzino che non è quello di prima. Fa il turno di guardia successivo e vuole la sua parte. “Abbiamo già pagato all’arrivo”, sibilo io. Il mio amico allunga un’altra moneta. “Chiudiamo la serata in modo tranquillo”, mi dice congedandosi.
Il rientro a casa è scandito dalle medesime tappe dell’andata. Semaforo, lavavetri. Semaforo, fazzolettini. Semaforo, lavavetri… Cambiano gli uomini, resta il servizio non richiesto.
La folla di venditori abusivi, parcheggiatori da estorsione (mai immigrati!), questuanti da tavolo, vetrine ambulanti, rose rosse di miseria nera, si espande senza ordine. Nel caos metropolitano perdiamo di vista anche la compassione che un tempo ci suscitavano un accattone, un barbone, una giovane tossica schitarrante. E, quel che è peggio, ci vergogniamo sempre meno quando manifestiamo fastidio.

Pubblicato da

Gery Palazzotto

Palermo. Classe 1963. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *