Lo Zen e l’arte della manutenzione della civiltà

L’articolo pubblicato su la Repubblica.

Che allo Zen una processione religiosa faccia l’inchino non davanti alla casa di un boss ma davanti alla caserma dei carabinieri è un fatto, è l’apertura di un sentiero alternativo rispetto alla strada battuta sinora. E che ogni forma di trionfalismo dovrebbe essere vietata per decreto è un punto di partenza imprescindibile nel cercare di ragionare su un prototipo di coscienza civile collettiva. Però qualcosa è accaduto nel quartiere dormitorio palermitano, anche se considerando l’esiguo numero di partecipanti al corteo si può tranquillamente parafrasare Neil Armstrong: un piccolo inchino per l’uomo, un discreto balzo per la comunità.

Il vero dibattito è adesso sul contesto in cui questo evento si è verificato e sulla maniera di narrarlo e/o interpretarlo. Esistono due scuole di pensiero, il cui contrasto è ancora più evidente dopo il successo del nuovo film di Franco Maresco, “La mafia non è più quella di una volta”. La crudezza dello Zen – che è la cristallizzazione della crudezza palermitana per impatto metaforico e valore simbolico – va esposta senza altri filtri che non siano quelli del linguaggio cinematografico, che è comunque un elemento di finzione, oppure esiste una narrazione che può descrivere il lato buio della luna senza per forza oscurarla tutta?

La partita sul rilancio della credibilità di una città che si specchia nel suo quartiere simbolo per degrado e divieto di speranza, si gioca non solo sui fatti ma anche su come incatenarli logicamente. Palermo ha uno strabismo narrativo di se stessa che ha pochi termini di confronto in tutto il mondo. Una visione laica dell’apparente miracolo è l’unico modo per smetterla di scolpire il pregiudizio sulla roccia di confine tra città-bene e città in abbandono.

Vita da buttafuori

Buttafuori violentiUn estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.

Ai tempi dei romani venivano chiamati ostiari e avevano il compito di sorvegliare l’entrata della chiesa. Ma sin da prima, nei meandri dei miti sumerici, c’è traccia di guardie preposte al controllo di un ingresso. Addetti pagati per filtrare gli avventori, per mettere ordine in un’umanità accalcata. Oggi nella freddezza del linguaggio burocratico, fanno parte del cosiddetto “personale di controllo”, e sono “operatori di gestione flusso e deflusso”, ma è molto più efficace chiamarli col nome composto che ne spiega l’antico e fondamentale ruolo: buttafuori.
La tragedia del Goa, con la morte del povero medico Aldo Naro, li ha strappati a quel mondo di penombra nel quale vivono, accendendo oltre alle luci della cronaca anche qualche interrogativo. Quali sono i loro limiti d’azione? Chi certifica la loro formazione? Insomma quando ci imbattiamo in questi signori, chi ci dice in che mani, anzi manone, siamo? Continua a leggere Vita da buttafuori

Saggia apostrofe a tutti i caccianti

Illustrazione di Gianni Allegra
Illustrazione di Gianni Allegra

Storie minime

di Roberto Puglisi

“Fermi! Tanto non farete mai centro.
La Bestia che cercate voi,
voi ci siete dentro”.

Giorgio Caproni

Una giovane modella è stata divorata da un organismo nemico. Le hanno amputato piedi e mani. La morte è arrivata dopo l’assalto al castello. Parabola ghiotta e morale del nostro essere infinitesimali e finibili, tra le braccia di una sorte imperscrutabile. Io conosco un’altra storia un po’ così. Solo che alla fine nessuno muore, o chissà.
Lui si chiamava Enzo e suonava il pianoforte da Dio allo Zen. Un Dio misericordioso si accorse di quel talento fiorito tra i padiglioni e si fece vivo nella persona di un munifico mecenate che volle sostenere gli studi musicali di Enzo, pagandogli il conservatorio. Il metronomo cominciò a segnare tempi diversi, giornate finalmente accordate. Lo spartito cancellò la sinfonia dello spaccio e la sostituì col quartetto di un’ignota felicità.
C’è sempre una stonatura, un organismo nemico che riporta la gioia alla sua evidenza di cenere mortale. Enzo si stancò delle dita abbandonate sulla strada dei tasti. Tornò alla droga, tornò in carcere. Lasciò il piano in cantina. Sarebbe facile dire che lo lasciò nel buio con tutti i suoi sogni. Chissà se fu davvero mai così. Ora, Enzo – così mi dicono – è uno che si sta facendo avanti allo Zen, un grosso nome. Non ha rimpianti apparenti. Forse è il nostro romanticismo inguaribile che ci spinge a condire tutto con la nostalgia. Sei sempre tu ciò che ti mangia.