Odiare una persona orribile

Mi è capitato più volte di difendere un diritto ancestrale, che è quello di odiare. Odiare non significa progettare vendetta o istigare alla violenza: significa manifestare un disprezzo netto, sancire un confine, strappare un foglio sociale. Da una parte io, dall’altra la persona odiata.

Ecco, ho letto a fatica la storia di questa Alessia Pifferi, la pseudomamma che ha lasciato morire la figlia di sete e di fame perché voleva spassarsela. E, io che non sono padre e che non lascerò traccia del mio passaggio su questa terra, ho sublimato il mio odio in questa orribile persona.

Sono certo che Dio può proteggerci dalle tentazioni più schifose e dalle pulsioni più abiette: non a caso lui è il migliore e noi siamo comunque suoi figli indegni. Ma se avesse un momento di distrazione e al suo posto prendesse il comando, tipo per le ferie, un suo vice, gli chiederei di distrarsi un attimo. Gli chiederei di affidare il caso Alessia Pifferi – ripeto donna orribile e vergogna di un’umanità senza vergogna – alle truppe più crudeli delle Guardie dell’Inferno. Magari trascinandosi appresso, e facendogli mangiare più fango possibile, anche quegli ignobili fratelli Bianchi che hanno ammazzato a calci e pugni un ragazzino dolce e inerme.

Ragionateci su.

Gli occhi

L'illustrazione è di Gianni Allegra
L'illustrazione è di Gianni Allegra

di Willy

Ho guardato i tuoi occhi. E mi sento come davanti a un pianoforte scordato. O sono davanti a un pianoforte perfettamente accordato. Solo che le dita hanno il reuma. Non possono nemmeno improvvisare una scala. Altri tempi, altri concerti ci furono, quando le dita correvano più del pensiero. Anzi, le dita erano il pensiero stesso. E sapevano luccicare di semitoni, grondare di cascate azzurre sbocciate a garganella sul pentagramma. E sapevano suonare sinfonie per gli occhi. Ora, invece, non possono più comporre nemmeno un coro muto. Ricordi? Quando avevi gli occhi così lontani, io mi mettevo al pianoforte e suonavo, giurando di strapparti un sorriso. Mi avvolgevo nella dodecafonia di un’idea, la sviluppavo per semplificarla e renderla commestibile. All’ultimo gradino, la dissonaza diventava assonanza, correzione, armonia. Il mondo esplodeva in una spuma di coerenza e felicità.
Adesso non più. Adesso non è cambiato nulla nell’apparenza del viso. Appena appena gli occhi rivelano il taglio di un coltello che non abbiamo avvertito a pelo della carne. La cesura. La cacofonia. Tutta colpa degli occhi che guardano gli altri correre su binari incomprensibili. E come appaiono leggeri e luminosi (gli altri), nella grassezza delle fandonie che accumulano, nell’opulenza della menzogna. I loro occhi sanno tornare a casa, una volta eseguito il crimine e lavata la coscienza. I tuoi occhi vagano nello specchio in cerca di misericordia e perdono. I tuoi occhi. I miei occhi.