Rami secchi

Ho sempre avuto un problema coi rami secchi. La mia propensione a tagliarli quando ancora avevano un che di verde e l’esitazione a bruciarli quando erano ormai decrepiti, hanno fatto sì che questi benedetti rami secchi dalle mie parti non abbiano mai fatto, nei tempi giusti, la fine che meritavano. Perché questo tipo di repulisti ha un valore se effettuato nel momento giusto: insomma se è importante sgombrare la vita dai pesi inutili, lo è ancora di più farlo quando si deve fare, non un minuto prima né un minuto dopo. Occhio, usualmente tendiamo a tirare fuori l’argomento per questioni di amore, quando invece gli ambiti più complessi e degni della massima attenzione sono altri: amicizia, lavoro, rapporti sociali. È lì che bisogna fare un giretto di ronda in più.

A parte le ragioni di ingombro, i rami secchi hanno una pericolosità insita, nascosta. Molti sembrano ancora solidi, in grado di reggere. Invece sono trappole: cedono di schianto facendoci precipitare nel vuoto della fiducia malriposta. E poi sono fuorvianti. Ci inducono a prendere sentieri ciechi: di chi è la colpa della loro trasformazione da solidi tronchi in fragili pezzi di legno? Perché è avvenuta? E quando è cominciata?
Tutte domande pressoché inutili giacché l’urgenza del ramo secco è nella sua essenza di non essenza. Sta lì, dove non deve più stare perché oltretutto è pericoloso nella stagione del fuoco. E di incendi prevenibili è fatta la nostra vita.

Il senso dei vivi per la morte

Ogni tanto mi capita di pensare alla morte. Talvolta basta un dolorino in zona inaspettata, altre volte constatare che i vivi con i quali ho condiviso la giovinezza cominciano a diminuire di numero. Eppure non ho manco 60 anni ma francamente non aspiro alla longevità: non mi piacciono i film troppo lunghi, così come non mi piacciono gli articoli troppo lunghi (non a caso la mia rubrica su Repubblica si chiama Trentarighe).

“A chiunque non sia nell’oscurità di una bara, ricordagli che ha abbastanza”: il monito asciutto del poeta Walt Whitman riassume in modo mirabile il senso della vita e quello del suo opposto. Perché dinanzi all’eterno dilemma di cosa fare tra la nascita e la morte non è ancora stata scalfita l’importanza di godersi l’intervallo.
È naturale aver paura della fine, qualunque essa sia. È naturale concedersi la più ampia vastità di pensieri, del resto la morte è l’unico ambito nel quale noi e gli altri (viventi o no) siamo uguali. Nella sua poesia “’A livella”, il grande Totò ironizza sul concetto di uguaglianza in un dialogo immaginario tra un netturbino e un marchese defunti e seppelliti l’uno accanto all’altro. Il nobile si lamenta perché la salma del netturbino è stata deposta accanto alla sua: troppa miseria vicino ai suoi blasonati resti mortali. Ma l’altro lo riporta alla realtà dei fatti, dato che indipendentemente da ciò che si era in vita, quando si arriva a fine corsa, si diventa uguali grazie proprio all’azione della morte che livella tutto e tutti. E lo esorta a non perdersi in simili pagliacciate che sono esclusivo appannaggio dei vivi: “Nuje simmo serie… appartenimmo a morte”.

Nel 2014 fece scalpore la morte del cantante Mango che se ne andò mentre si esibiva sul palcoscenico. Parlammo proprio su questo blog di “morte felice”, quella di un artista che lasciò il palco della vita mentre era ancora – fisicamente – sul palco di un teatro. Una sorta di ossimoro biologico, un azzardo del destino. Più prosaicamente l’unica fortuna che ci viene incontro quando moriamo è probabilmente legata al nostro ultimo sguardo. C’è chi vede l’asfalto (e qui molto modestamente posso discettare di un certo miracolo), chi la faccia stralunata di un medico, chi il ghigno di un killer, chi le lacrime di coloro che ci sopravvivono, c’è chi chiude gli occhi per non vedere e chi li sgrana per rubare l’ultimo filo di luce. Ma è sempre questione di fortuna. Quella sera Mango uscì di scena tra gli applausi e non importa se erano disperati. Andarsene così, quando si percorre quella impervia strada obbligata che è la vita, è un modo per lasciare lo spartito sempre aperto, per far suonare all’infinito la canzone più bella.
Nel caso di Mango scrissi che in fondo si è davvero fortunati quando ci si trova al cospetto della morte senza che ci sia stato il tempo di fare le presentazioni.

Pensare alla morte non significa necessariamente temerla. Ma muoversi per tempo, non farsi cogliere in fallo, per saggezza o se volete per scaramanzia. Qui un link che ha del divertente, perché si può sempre ridere di tutto: basta che ci sia sostanza di idee.
Qualche anno fa l’americana Heather McManamy morì di cancro, ma prima ebbe il tempo di scrivere una serie di lettere alla figlioletta di 4 anni. Gliene scrisse parecchie e diede incarico al marito di centellinarle per ogni importante traguardo della bambina. E così andò. La prima, pubblicata su Facebook, iniziava così: “Ho una buona e una cattiva notizia. Quella cattiva è che, a quanto pare, sono morta. Quella buona, se stai leggendo tutto ciò, è che tu, invece, non lo sei affatto (a meno che non ci sia il wi-fi nell’aldilà)”.
Ecco un modo originale per guardare al dopo con ironia. Ci penso spesso a Heather McManamy di cui non avrei mai saputo nulla se nulla le fosse accaduto.
Il suo insegnamento è per me definitivo: almeno fin quando siamo in gioco su questo mondo, non dobbiamo mai dimenticare che se non riusciamo a ridere di noi, è giusto che lo facciano gli altri.

P.S.
Ops, questo post è più lungo della media…

Non siamo alberi (purtroppo)

Gli alberi hanno sempre esercitato un grande fascino nei miei confronti. Da bambino ci saltavo su e mi ci arrampicavo, da grande mi sono lasciato affascinare dai loro numeri (il più alto, il più vecchio…) e sono andato a cercare in giro per il mondo quelli che andavano omaggiati di persona. È accaduto sulle montagne di casa mia, come sulle Alpi, come in California eccetera…
Gli alberi sono l’ispirazione di una metafora che mi serve per spiegare un concetto universale e ostico, che è perfetto in una frase di Snoopy: “Se non ci piace dove stiamo possiamo spostarci, non siamo alberi”.
Non siamo alberi, purtroppo.
Perché gli alberi crescono senza curarsi della parte più noiosa di ogni cambiamento, il trasloco.
Perché non conoscono la moneta di ogni mutazione, la responsabilità.
Perché se ardono non urlano, e se anche urlassero non potrebbero arrossire per la vergogna di mostrarsi nudi dinanzi alla resa di un sentimento.
Perché cambiano se stessi senza avere fisime di cambiare il mondo.
Perché se ne fottono di una foglia ingiallita, che non sarà mai come un capello bianco.  
Perché non amano nulla se non ciò in cui hanno radici.
Perché cambiano loro stessi prima che qualcuno o qualcosa li costringa a farlo.
Perché non hanno idee, ma foglie: e con le idee non si fabbrica ossigeno a buon mercato.
Perché sanno che la base di ogni vero cambiamento radicale è la perseveranza.
Perché sono fonte che trabocca e bacino che conserva.
Perché non hanno né invidia né riconoscenza: se si scassano la minchia ti muoiono nel giardino (per chi ce l’ha), se decidono di scassarti la minchia ti sopravvivono riempiendoti di foglie il balcone, il patio, la tomba.

Ecco perché cambiare, per noi non-alberi, è soprattutto un problema di posizione. Pensate a quanto la vostra vita avrebbe risentito di un posto diverso sul divano, di un aperitivo in un altro bar, di una passeggiata sul lungomare anziché in centro, di un sonno prolungato invece di una sveglia anticipata. Siamo dove siamo stati. Con chi è una semplice conseguenza.
Le radici, in fondo, sono solo degli alberi.  

Una vita (felice) da mediano

Nell’unica canzone di Ligabue che mi piace, “Una vita da mediano”, si raccontano storia e destino di chi fa un lavoro oscuro, lontano dai riflettori ma fondamentale per quel che sotto quei riflettori si rappresenterà. Nella mia vita professionale ho incontrato pochi mediani e molti brocchi che si spacciavano per centravanti. Tra i mediani del passato ricordo qualche compagno di lavoro nell’azienda in cui ho lavorato per vent’anni: fattorini, fotografi, archivisti, un paio di giornalisti al massimo (ma sto esagerando). Potevo contare solo su di loro in certe nottate insonni aspettando la foto dell’ultimo morto ammazzato di Gela che arrivava su un taxi, e mi sono trovato solo con loro in alcuni momenti complicati in cui non c’erano applausi da condividere, ma solo fischi e pure qualche pomodoro lanciato sul palcoscenico della vita.

I mediani sono le persone migliori con le quali lavoro ancora oggi che non ho più un grande gruppo da coordinare (l’intera redazione del giornale in cui lavoravo adesso è composta da meno persone del singolo settore che dirigevo allora), ma solo una piccola squadra di appassionati delle cose fatte bene. I miei mediani non sono santi e si lamentano parecchio, ma sanno che non gli chiederei mai un sacrificio inutile o una mobilitazione che non guarda al loro futuro. Se mi rispondono al telefono di sabato sera per andarsi a rompere le palle a strappo di domenica mattina, capiscono che quello stress serve alla sopravvivenza del gruppo in una selva di competitor improvvisati e a insulso costo. Non lo fanno mai per me, ma per loro. È un po’ come l’amore o la pietà (per chi la frequenta). La forma più pura di sentimento è quella che ci si ritorce “contro”, in fondo l’altruismo è la più sublime forma di egoismo: funziona solo se i primi a stare bene nell’esercitarlo siamo noi stessi.

Poi c’è la folla di centravanti, che usualmente finiscono azzoppati nel primo tempo, l’unica variante è legata alla domanda: quanto dura il primo tempo?

Nella vita da mediano, prima e dopo Ligabue, conta la coscienza pulita di aver fatto i propri passi con il giusto mix di passione e prudenza, di aver masticato amaro molte volte quando gli altri hanno alzato una coppa che avresti dovuto alzare anche tu, di mantenere una lucida indipendenza dal consenso e di potertene fottere quando e se sarà il caso, senza modica quantità.

Mi piace la vita dei mediani perché alla fine è anche la mia, lo è sempre stata lavorando nelle retrovie (con rarissime eccezioni). Nell’arco di lunghi decenni, a ogni gol, io e la mia squadra del momento abbiamo gioito come se il piede che aveva spinto la palla in rete fosse stato il nostro. Lasciando alla folla di centravanti la grottesca illusione di  chi non conosce le regole dello spettacolo, o se preferite della vita. Se davvero bastasse una primadonna a fare narrazione, non sarebbero stati costruiti i teatri. Con ferro, legno, cemento.

Elogio della qualità

C’è stato un momento nella mia vita in cui ho scelto di dedicarmi alla qualità. Ed è stato abbastanza di recente. Dal lavoro alle amicizie, dai sentimenti al tempo libero, dal cazzeggio alle personali elucubrazioni, ho lavorato molto di forbici e cesello, ho snellito, coltivato, rinunciato e rimodulato.
Il concetto di vita di qualità è molto importante in un momento come quello che stiamo vivendo. Perché la crisi, le continue difficoltà e l’insoddisfazione tendono ad abbassare la soglia di attenzione: ci si accontenta troppo, si sceglie per necessità e non per il gusto di ottenere il meglio, si inseguono più i rimorsi che le idee. Invece è proprio la qualità l’unico antidoto contro il logorio della politica moderna, il rifugio dai bombardamenti di qualunquismo che hanno fatto piccola una società che era grande.
Mi spiego, non è che con i miei amici, parlo di filosofia orientale all’ora dell’aperitivo. No, però mi diverto a scambiare feedback, magari a inanellare stupidaggini ma con un certo impegno perché, come si dice, le cazzate sono una cosa seria. Il segreto è racchiuso in una parola sola: rispetto.
Se la qualità fosse una montagna da scalare, il rispetto sarebbe la corda fondamentale per l’ascensione.
In generale, il problema è quello di fare continuamente scelte senza caricarle di aspettative come se si trattasse di passaggi cruciali. Basta essere fedeli ai propri interessi, qualunque essi siano, e non tradirli mai. Se vi piace parlare di fumetti e vi propongono di andare a cena con qualcuno che i fumetti li odia, magari troverete più piacevole restare a casa. Se un pensiero storto vi disturba, potrete sempre farvi una birra e alzare la musica. Se c’è un’alternativa – e c’è quasi sempre – c’è una soluzione. E se c’è una soluzione la qualità è garantita.