Due cuori e una caviglia

Anni ‘80. Giovane aspirante giornalista. Giovane aspirante maestro di sci. Giovane aspirante compagno di ragazza francese della Savoia, intelligente bella e selvatica (quando ancora si poteva dire di una donna che è intelligente bella e selvatica senza incorrere nei distinguo dello scassacazzi di turno). Il giovane si sbatte da una parte all’altra del mondo da avvitare e svitare: collabora con la radio di Stato, scrive su qualunque supporto cartaceo immaginabile, suona e canta, s’inventa una rock-opera, affila lamine di sci e scalda sciolina, cavalca sogni e moto. E proprio con una moto imbocca la curva determinante della sua vita. Ma non schiantandosi o schivando in accelerata un ostacolo. No. Restando fermo e cercando di accenderla, quella Yahaha XT 550.
In quel tempo non c’è ancora il congegno elettronico per avviare il motore: c’è una leva, piccola e scomoda. E soprattutto c’è la compressione di un monocilindro ribelle.

In un pomeriggio di inverno quel giovane che ha appena addentato i vent’anni ha un lavoro che insegue, una passione che lo sorregge e una ragazza che aspetta solo che lui le chieda di stare con lei a tempo indeterminato: la gioventù ha questo di bello, che il tempo e i tempi sono ingannevoli e che si può dire serenamente “per sempre” senza immaginare che “per sempre” non esiste.
Ma lui è a Palermo in via Lincoln, a pochi passi dal mare, e lei è a 1.800 chilometri di distanza, con lo sguardo su una vetta di 3.800 metri. Lui tiene a bada l’eccitazione per il privilegio che gli è toccato: può scegliere tra una vita e un’altra, tra un mondo e un altro, tra una passione e un’altra. In cuor suo lui ha già scelto e sta parcheggiando il suo cavallo a cinque marce tra un’auto e un’altra. Tra un’ora, consegnati i fogli scritti a macchina dell’articolo che ha nello zaino, andrà all’agenzia di viaggi per prenotare la nave sulla quale tra qualche giorno imbarcherà l’auto e un abbondante bagaglio di vita: vuole esplorare il mondo verticale della montagna, lui che viene da quello orizzontale del mare, esporsi al sentire selvatico di un amore che è nella sua fase migliore, quella del germoglio annunciato e manco visibile.
In via Lincoln l’auto a destra si muove per abbandonare il parcheggio, lui sceglie di spostare la moto in una posizione più comoda. E anziché spingere fa la scelta cruciale. Accendere il motore.
Gira la testa della leva di avviamento verso l’esterno, risale sulla moto e carica il peso sul piede destro. Ma il monocilindro si oppone.  
Il rimbalzo della leva è crudele e spacca la caviglia dell’aspirante giornalista, aspirante maestro di sci, aspirante compagno di ragazza francese della Savoia, intelligente bella e selvatica (quando ancora si poteva dire di una donna che è intelligente bella e selvatica senza incorrere nei distinguo dello scassacazzi di turno) e via discorrendo.
Tutto cambia. Quasi 15 anni prima di Sliding Doors e del destino incellofanato di una pigrizia intellettuale molto (troppo) attuale.

Con una caviglia distrutta il giovane non può partire, non può affrontare gli esami da maestro di sci. Resta a Palermo. Continua a scrivere. Scrive anche alla presunta amata che lo aspetta 1.800 chilometri più a nord, fin quando le parole non si diluiscono nella distanza che è impassibile, incorruttibile, inaggirabile. Le parole si perdono prima degli esseri umani, solo che ce ne accorgiamo sempre troppo tardi.
Lui non diventerà mai maestro di sci. Farà il giornalista dopo aver preso a calci e sputi la sua moto.
Lei non diventerà mai la sua compagna. Farà altro, chissà cos’altro.
Lui non ha mai indagato sul destino di lei.
Lei non ha mai indagato sul destino di lui.
I due non si sono mai più incrociati, fedeli a una regola non scritta: fatalità è il nome che diamo alle decisioni che non abbiamo saputo (o voluto) prendere.  

Questo accadeva una quarantina di anni fa. Era un 14 gennaio, questo lui lo ricorda bene.    

Al cospetto di sua maestà

C’è un luogo a cui penso sempre. E se dico sempre vuol dire che ci penso quando sono triste, quando sono felice, quando sono annoiato, quando sono incasinato, quando sono solo e quando sono in compagnia. Ci penso anche in altre mille situazioni, ma la faccio breve altrimenti il preambolo si aggancia alla palpebra e la tira giù.
Questo luogo è un posto scomodo, quasi ostile, a oltre tremila metri di quota, dove fa sempre freddissimo (stamattina – e c’era il sole – eravamo a meno diciannove). Si ammira da Cime de Caron, in Francia, sulla vetta delle 3 Vallées, il più grande comprensorio sciistico del mondo. Per arrivarci dall’Italia devi masticare centinaia di chilometri di strada e soprattutto affrontare gli ultimi trentacinque, quelli della strada impervia che da Moûtiers parte coraggiosamente all’assalto di montagne meravigliosamente impervie. È un rito al quale mi sottopongo felicemente da 33 anni.
Il luogo a cui penso sempre è questo, cioè quello che vedete dietro di noi. Perché per una volta il vero soggetto sta nello sfondo e visto da Cime de Caron, col freddo che puntualmente ti taglia la faccia, è bellissimo nella sua immutabilità. Lo si ammira, lo si scolpisce nella mente e si tira avanti di memoria per un altro anno.
Signore e signori, sua maestà il Monte Bianco.

Mamma li russi

Paese che vai, turismo che trovi. Per Capodanno sono stato a Corvara, nel cuore delle Dolomiti, e sono rimasto piacevolmente sorpreso. Ottima accoglienza, prezzi non esagerati, buona cura del turista. La Val Badia, come le altre località della zona, è un’oasi di civiltà e un esempio di oculatezza economica. Il visitatore non è mai trattato come un pollo da spennare (cosa che invece accade molto spesso al Sud, dalle mie parti): si cena con un menù ben assortito e un buon vino senza dover fare un mutuo, 30-35 euro a persona sono più che sufficienti; gli impianti del Dolomiti Superski sono efficienti e in gran parte discretamente veloci; le piste sono ben tenute. Insomma, un’esperienza da ripetere. Continua a leggere Mamma li russi

Sognare a occhi elettronici aperti