Porno Mondo

Parlare di porno è come fare un frittata: facilissimo sbagliare. Il porno è un tema di cui è noto l’involucro, ma è quasi sconosciuto ciò che sta dentro. O che ci sta dietro. E mi rendo conto che già con gli avverbi (dentro, dietro) siamo entrati in un ambito linguistico complicato, pieno di fraintendimenti più o meno accettabili.
L’ho fatto non a caso perché uno dei lati interessanti di questa storia – anzi forse quello che ne fa la fortuna – è proprio la trasversalità. Le allusioni al porno sono dovunque – nella pubblicità, nell’arte, nello spettacolo, nella vita sociale – e sfuggirle con imbarazzo è molto peggio che accettarle con un sorriso (se ovviamente l’ambito è compatibile con un pensiero leggero).

In questo podcast cercheremo di analizzare quanto pesa il sesso nel web e com’è cambiato negli ultimi dieci anni (un’era geologica quando si parla di internet), cosa c’è dietro in termini finanziari e criminali e soprattutto sveleremo cosa è stata la “regola 34”, dove – state sereni – 34 non sono centimetri.

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In difesa della parolaccia in politica

L’articolo pubblicato su la Repubblica.

Gianfranco Miccichè nella sua scoppiettante gestione delle antipatie ha riportato sulle pagine dei giornali un’antica pratica della politica, quella del turpiloquio. Già vent’anni fa Umberto Eco, in una sua celebre “Bustina di Minerva” aveva rivendicato “il diritto di usare la parola stronzo in certe occasioni in cui occorre esprimere il massimo sdegno”. Guarda caso, la stessa parolaccia usata dal presidente dell’Ars contro il suo bersaglio preferito, il ministro dell’Interno Salvini. Oggi molto è cambiato, soprattutto nella gestione dei messaggi pubblici. I social network hanno tracciato la nuova via: non importa cosa dici, ma come lo dici; non serve il concetto, ma la confezione giusta.

La prudenza di un tempo, quando il turpiloquio usato con acume poteva regalare effetti esilaranti con risultati efficaci, è stata sepolta sotto l’esigenza di colpire e affondare il prima possibile. Nell’èra della rabbia cieca la parolaccia è un mezzo arcaico per farsi largo nelle sabbie mobili della ragion perduta. È per questo che, se ci si muove senza i paraocchi del neo-bigottismo, il turpiloquio può essere visto come una sorta di antidoto contro il nullismo della menzogna, contro il mondo parallelo degli imbroglioni tutti clic e claque.

Lo “stronzo” al nemico politico non è certo un esempio di eleganza, ma ci costringe ad ammettere che c’è volgarità e volgarità. Negli ultimi dieci anni le nostre capacità espressive, il potere combinatorio della sintassi, il fascino della metafora, la carica creativa e non violenta della nostra aggressività sono state piallate da una nuova forma di linguaggio che punta a verità bastarde. Internet è il luogo dove non ci sono livelli, ma un amalgama che avvolge e corrompe senza apparente possibilità di scampo. La volgarità di una battuta analogica – cioè pronunciata da un essere senziente e consapevole, non da un bot o dal fake di qualcuno –  ha almeno il vantaggio di suonare come uno schiocco di dita davanti agli incantatori del web. Poiché in un onesto rapporto causa-effetto mette di fronte i contendenti tarandone la sensibilità, l’aderenza alla realtà. Ecco la differenza tra tipi di volgarità. C’è quella che impatta e quella che si traveste e si insinua. La prima era celebrata da Churchill senza troppe metafore: “Chi parla male di me alle mie spalle viene contemplato dal mio culo”. La seconda è un allarme sociale poiché ha a che fare col culto della menzogna. E lì non basta il più sonoro dei vaffanculo. 

Porno (quasi) subito

Nel suo “Secondo diario minimo”, un libriccino datato e prezioso, Umberto Eco si diverte tra le altre cose a illustrare alla sua maniera la differenza tra un film porno e un qualsiasi altro film.
La visione scherzosa e disincantata è però datata 1992 e, come sappiamo, se l’ironia è eterna, il contesto in cui essa matura è invece estremamente variabile. Così l’espediente del viaggio in auto che nel film porno dura in modo esagerato, quasi a giustificare costi e plot della pellicola, può oggi essere usato per misurare la temperatura dei tempi che cambiano. Il web e il consumo istantaneo di desideri, l’overdose di stimoli virtuali, il limite sempre più sottile tra il reale e l’irreale hanno stravolto le vite di tutti gli umani del pianeta, connessi e non. Quindi anche dei signori del porno e della giostra di miliardi che gira loro intorno (basti pensare che il valore del dominio sex.com è di almeno 13 milioni di dollari). Oggi l’uomo che, ai tempi di Eco, si spostava da un luogo all’altro per andare a compiere il suo atto cruciale non prende più l’auto, ma si fa trovare a casa, pronto all’uso. E se proprio la prende, quella benedetta auto, la usa non come noi comuni mortali, ma in un senso estremamente cinematografico: la rende teatro dell’azione (esistono serie intitolate a fake-taxi, a pullman un po’ troppo affollati o ad altri mezzi di trasporto adattati all’occasione), la reinventa come alcova, la trasforma insomma da strumento a pretesto.
E, badate bene, questo è un metodo che si applica non soltanto alla categoria del porno, ma in qualche modo a tutta la cinematografia a uso e consumo del web e delle tv on demand. Il modello di pornografia di questi anni è in fondo il modello Netflix: tempi rapidi, fruizione facile, mirare dritti al cuore (o un po’ più giù nel caso specifico). La scrittura non deve lasciarsi inseguire, ma inseguire essa stessa, arrivare senza causare troppa fatica giacché un clic è un attimo e ci si sta nulla a cambiare prodotto e a condannarlo a un fallimento e/o a un rapido, e non indolore, oblio.
Cambia tutto, cambiano contenuti e contenitori, tempi e attese, perché cambia il fattore cruciale, che poi è il vero algoritmo dei misteri: lo spettatore.
La “sana scopata” di cui parla Eco non è più sponsorizzata dall’assessorato ai trasporti, ma è assolutamente gratis. E, si sa, oggi quando qualcosa è gratis la merce siamo noi.

“Sui social legioni di imbecilli”

Uberto Eco su internet e social network.

Chi l’ha scritto?

Umberto Eco avrebbe aperto un blog, a febbraio. Sino a oggi ha pubblicato solo quattro post. E non sembrano scritti da lui.

Se il cretino ha mano libera

Si continua a dibattere sul valore di internet e delle notizie che viaggiano nel web. Discussione oziosa, secondo me: le informazioni utili e i cronisti e/o blogger bravi si distinguono dalle panzane e dai propalatori di panzane, qualunque sia il supporto utilizzato.
Sono temi sui quali, in questi anni, ci siamo confrontati sino allo sfinimento.
Ora sarebbe piuttosto il caso di discutere della violenza verbale che anima i commentatori di forum, blog e siti vari. Come se la presunta democrazia del web autorizzasse chiunque a scavalcare la cancellata del vicino per prenderlo a schiaffi solo perché i fiori del suo giardino hanno un colore che non si intona con quello della casa.
Non so cosa ne pensiate, ma io ritengo che questo sia un tema importante: i cretini non possono prendere il controllo della situazione solo perché il mezzo telematico dà loro mano libera.

Ammirazione per colui che sa

Mike Bongiorno non si vergogna di essere ignorante e non prova il bisogno di istruirsi. Entra a contatto con le più vertiginose zone dello scibile e ne esce vergine e intatto, confortando le altrui naturali tendenze all’apatia e alla pigrizia mentale. Pone gran cura nel non impressio­nare lo spettatore, non solo mostrandosi all’oscuro dei fat­ti, ma altresì decisamente intenzionato a non apprendere nulla.
In compenso Mike Bongiorno dimostra sincera e primiti­va ammirazione per colui che sa.

Da “Fenomenologia di Mike Bongiorno”, Umberto Eco, 1961.

Non chiamiamoli scrittori

scritturadi Raffaella Catalano

Sono dell’idea che un romanzo ben scritto non possa prescindere da un editing professionale. E non perché faccio l’editor di mestiere, ma perché sono decisamente contraria alle varie iniziative promosse da siti e pseudo-editori che si limitano a stampare testi inediti senza nemmeno leggerli. Un caso clamoroso, ma non certo unico, è quello del sito ilmiolibro.it che fa spendere soldi a chiunque per “pubblicare” romanzi, racconti, saggi e poesie inqualificabili, si fa pagare un bel po’ di soldi dai clienti (non posso chiamarli autori, per rispetto degli autori veri) e soprattutto crea in chi si vede stampare un libro in quel modo selvaggio l’illusione di essere uno scrittore. Illusione che crolla – tranne casi rarissimi, che in quanto tali fanno notizia – quando il presunto Eco o Sciascia che ha pubblicato a suon di euro si trova al cospetto di una casa editrice vera, che legge, seleziona e corregge. Chi viene dall’esperienza prezzolata, la inserisce persino nel curriculum, quindi ci crede. E poi risulta sempre resistente, se e quando trova un editore serio disposto a prendere un suo inedito in considerazione, a qualsiasi intervento correttivo al suo testo. Perché ritiene che quel titolo in bibliografia – la dispendiosa opera prima con Pinco Palla Edizioni – gli dia la patente di autore che tutto sa, e che quindi non ha bisogno di nulla e di nessuno.
Per l’ennesima volta (l’ho fatto altrove, in interviste e articoli) mi permetto di sconsigliare a chicchessia di pagare per pubblicare, e di aspettare, invece, di essere pagato. E’ così che funziona. E’ così che si diventa scrittori. E vorrei suggerire anche di stare ad ascoltare chi lavora al servizio dei narratori, cioè editor ed editori, che con un po’ di esperienza e le dritte giuste magari non lanciano il nuovo genio della letteratura, ma almeno formano l’autore o lo affinano, e soprattutto non lo offrono scientemente al pubblico ludibrio. Io per prima confesso che sghignazzo quando leggo i pasticci letterari degli aspiranti scrittori su ilmiolibro.it, su siti analoghi o su alcune rivistine per esordienti. E di ridere non mi pento affatto. Anzi penso: peggio per loro. Mi dispiace solo che gettino via i soldi e con quelli anche i sogni di (vera) gloria. Ci vuole umiltà per crescere, ci vogliono indicazioni per trovare la strada. E’ nocivo farsi paracadutare a pagamento in mezzo a un traffico già sin troppo caotico. Infine, due parole anche per alcuni editori poco scrupolosi o con il portafoglio cucito: non affidate i vostri autori a editor improvvisati che si fanno pagare 50 euro per correggere un romanzo di 800 pagine. Se accettano cifre da saldo stagionale vuol dire che non sanno fare il loro mestiere e prendono in giro voi e i vostri autori. Un buon lavoro costa, in tutti i sensi. A chi lo fa e a chi lo paga.