Obbligo o verità?

C’è un arrabattarsi, non recente ma urente, sul tema delle verità. Ho usato di proposito il plurale – le verità – perché è proprio sulla non singolarità che si dipana l’eterno conflitto tra bene e male, tra giusti e ingiusti, tra coltelli e fratelli.

La guerra tra Israele e Hamas, come il conflitto in Ucraina scaturito dall’invasione russa, ci pongono dinanzi alla più complicata delle missioni in quanto uomini di buona volontà mediamente senzienti e obbligati alla prudenza (capisco che sono tutti requisiti che restringono drammaticamente il raggio di azione, ma ci devo provare): rinnovare giorno per giorno la consapevolezza che non esiste la Verità Assoluta.
Nel corso della mia vita professionale mi è capitato molte volte di dover fronteggiare l’obiezione più diffusa (e superficiale) sul ruolo degli organi di informazione, che è questa: i giornali non dicono la verità.
A questa osservazione ho sempre risposto con la frase di un mio maestro: “L’unico giornale che dice la verità è la Pravda degli anni ‘70”.
L’abbiamo sottovalutata per troppo tempo, la pericolosità di quest’esigenza di pensiero unico, blindato. E ci siamo dimenticati la grande lezione della storia, che non obbedisce a nessuna regola se non a quella dell’anarchia dei fatti: prima o poi una visione intelligente, cioè ampia e problematica, ha sempre la meglio su un potere ottuso.
Le verità sono tante e si formano dinanzi ai nostri occhi mentre le cerchiamo. Ci sconvolgono e ci rassicurano, ci annoiano e ci eccitano, ci piacciono e ci fanno schifo. Perché è nel loro essere verità plurali che si nasconde il mistero di una rivelazione: il vero e il falso si possono scambiare di posto nel mondo della conoscenza (e solo in quel mondo, altrimenti è regno della cazzata).
In una singola verità ne convivono tante, belle o brutte, bianche o nere, mancine o destrorse. Perché siamo noi a essere tanti, belli o brutti, bianchi o neri, mancini o destrorsi e via vivendo.

La verità è come il mondo: singolare solo nella grammatica di primo acchito.

La forza dei dubbi

Sin da quando ero bambino… anzi no… sin da quando eravamo bambini tendiamo a lasciarci affascinare dal mondo che per noi è ontologicamente complicato. Io ad esempio ero affascinato dalle radioline che negli anni settanta si usavano moltissimo, quasi come gli smartphone di oggi: si portavano dappertutto, in ufficio, in macchina (non tutti avevano le autoradio anche se l’impianto elettrico disturbava la ricezione), allo stadio. Per capire meglio come funzionava una radiolina la smontavo pezzo per pezzo, insomma la sfasciavo. Ed era un bel paradosso, un paradosso che ha a che fare con molte situazioni che avrei vissuto da grande: certi sentimenti di afflato, amore, passione, curiosità, si attagliano in qualche modo perverso alla distruzione.

Insomma sin da quando ero bambino – sin da quando eravamo bambini – la tendenza era quella della semplificazione: ridurre una macchina complessa a un insieme di viti, di ingranaggi, di fili per decrittarne il funzionamento, per carpirne (o rubarne) l’anima.

È il segreto della vita. Per entrarci – nel segreto e nella vita – bisogna farsi largo attraverso singole serrature e le chiavi le otteniamo studiando, affinando i nostri sensi, alimentando la curiosità: ma è solo il primo passo.

Piano piano, andando avanti ci siamo resi conto che quello della semplificazione non era l’elisir di lunga vita. Persino l’avvento della tecnologia ha contribuito ad alimentare l’illusione. Un mondo infinito ridotto a un codice binario, ma com’è stato possibile crederci! Come la mela primordiale: la mangi o no, on off, maschio femmina, vita morte, albero serpente. Il peccato originale è vegetariano, ahimè.
Abituati a schematizzare al ribasso ci siamo incartati nelle questioni complicate. Prendete la mafia. Ci hanno preso per i capelli e ci hanno sbattuto la verità, anzi la “verità”, in faccia: o con loro, o con noi.
Giusto, però anche in questo caso abbiamo pensato che gli scenari fossero semplici. Bianco o nero, non ci si può sbagliare, facilissimo. Lo confesso. Questo pensiero l’ho maturato in tarda età, quando ho cominciato a scrivere di mafia per il teatro. Il teatro vive di codici, l’arte matura tra gli opposti. Però la narrazione per come ci era stata tramandata era in bianco e nero, cioè non teneva conto delle infinite tonalità intermedie tra un opposto all’altro.
Era semplice e semplificata. E non teneva conto del colore più pericoloso e infido: il grigio.

Oggi, davanti a guerre inaudite, perché moderne e medioevali al tempo stesso, credo che si debba prendere atto che questa narrazione non funziona più.
Serve attribuire la giusta complessità alle cose, senza tuttavia cadere nella trappola del suo eccesso, il complessismo.
Serve una maggiorazione delle quote di pluralismo nei nostri consessi sociali, nelle nostri luoghi della politica, nei nostri luoghi della cultura (molto soffocati dalla paura della complessità che non sia meramente artistica, esecutiva).
Non può esserci un dibattito su Hamas, Gaza e Israele senza una base di difficoltà condivisa, chiara, esplicita, dichiarata.

Io non so, non capisco… Quindi se sono, tipo, Zerocalcare spiego perché diffido di Lucca Comics però non mi astengo, magari vengo solo per raccontare i miei dubbi e raccogliere i vostri.

Non ne sono certo, non sono certo di nulla (tranne delle mie papille gustative che mi fanno giudicare un cibo o un vino in modo per me incontrovertibile).
Il tramonto della semplificazione come salvagente allunga le ombre dell’incoerenza: possiamo cambiare idea, forse dobbiamo, perché i tempi ci impongono di farlo. I nuovi barbari non vengono da un Paese diverso, ma si sono armati nell’appartamento sopra il nostro. Il vero diverso non ha sesso e colore che non sono i nostri, ma un minore rispetto della vita, sua innanzitutto.  
Dovremmo rivedere i nostri riti, le nostre certezze domenicali, i nostri privilegi da tinello.
Prima di discutere dobbiamo imparare a recitare una preghiera laica che ci imponga di scambiarci i dubbi. Come segno di pace.

L’arma della nostalgia

Durante l’emergenza Covid mi impegnai al massimo per cercare di mettere a frutto tutta la mia (modesta) esperienza di futuro, che detta così sembra un ossimoro dato che l’esperienza proviene necessariamente dal passato. Su questo blog ne venne fuori un longform che fornì stimoli per qualche dibattito pubblico e per proficue discussioni private. Finita l’emergenza Coronavirus ho rivisto alcuni miei appunti di allora, soprattutto questo sulla nostalgia come ponte tra passato e presente. E mi sono inchinato dinanzi alla constatazione che, cambiando le cose e le situazioni, cambia anche il nostro modo di guardare il (o al) mondo.

Lo spunto me lo ha dato l’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio del 2022 (sono uno a lenta carburazione). Perché la guerra è il banco di prova dei nostri convincimenti. Un tempo ci si muoveva con le armi per guardare avanti, per promettere un futuro migliore ai figli della patria. Oggi il futuro come elemento fondante di materia prima non tira più.
I nuovi nazionalisti, i nuovi populisti, i nuovi trumpiani di ogni landa promettono l’antico fasto, il ritorno del vecchio inscalfibile potere, in una parola il passato.
La stessa idea di nostalgia è cambiata. Una volta si concentrava su un luogo specifico, su un panorama, su un’abitazione, magari quella della nostra infanzia. Insomma la nostalgia aveva odori e sapori.
Oggi il tempo (ergo il passato) ha sostituito lo spazio (ergo la casa d’infanzia) quindi, come ha suggerito lo scrittore Georgi Gospodinov, forse si dovrebbe usare un altro termine, tipo cronostalgia.

Le guerre per il passato, per riscriverlo, per rifondarlo, per spalmarlo su un presente incerto sono esattamente il contrario di ciò per il quale le generazioni del secolo scorso hanno vissuto e spesso combattuto. Erano proprio le difficoltà del loro presente, ai tempi di quel presente, a spingere quei popoli verso il futuro.
Invece oggi Putin e quelli come lui combattono in un’altra epoca spacciandola per una contemporaneità diffusa e condivisa. È da qui che discende tutta la caterva di nefandezze che conosciamo del dittatore russo e non solo: la cancellazione del confine tra verità e menzogna; la considerazione della vita umana come un bene esposto su un bancone del mercato; l’esasperazione delle polarizzazioni economiche, sociali e politiche.
Quando il passato diventa un alibi, la verità muore.
Quando la nostalgia cambia pelle, la ragione muore.

Morto più, morto meno

C’è un gran dibattito sul nostro grado di affinità con la causa ucraina e sul peso (o la conta) dei morti nella cronaca e di conseguenza nella storia. La guerra alle porte dell’Europa ci riporta a esigenze di comunicazione inequivoche, a schemi logici che garantiscano qualcosa di fondamentale: la libertà di provare dolore, avvilimento ed empatia con la parte oppressa.

Un’avvertenza: non parlo di ragioni politiche, né faccio un’analisi tecnica dell’invasione Russa in Ucraina (che non si capisce bene perché alcuni giornali chiamano “conflitto tra Russia e Ucraina”), ma mi limito ad analizzare la percezione di questi eventi e i codici di comunicazione. Del resto il mio mestiere è inanellare parole e null’altro (purtroppo).

L’equivoco più diffuso in questo momento è quello di paragonare i morti di Kiev o di altre città devastate dalla furia di Putin con tutte le altre vittime di tutti gli altri conflitti più o meno recenti. “Se ci indigniamo per i civili ammazzati a Irpin, perché non abbiamo detto nulla per quelli uccisi lo stesso giorno in Afghanistan?” è la domanda stereotipata.
C’è chi sbrigativamente identifica la risposta nella logica del doppio standard, cioè l’uso di principi di giudizio diversi per situazioni simili. E c’è chi invece – e io sono tra questi – pensa che la storia si fa con gli esempi, coi simboli: e i simboli e gli esempi non sono una totalità, ma una parzialità. Più prosaicamente se dovessimo piangere per ogni essere umano ammazzato da un proiettile non riusciremmo a celebrarne manco uno per la vastità degli scenari e di conseguenza per l’impossibilità di empatizzare. Se un uomo muore nel vostro ufficio, è ovvio che siate più scioccati che se muore in un bar di Tegucigalpa. E non è solo frutto della prossimità dell’evento, ma anche di quella delle sue cause, dei suoi effetti.

Tutto ciò si misura in capacità di coinvolgimento, diremmo oggi di engagement. Esercitarla non significa essere peggiori o insensibili ai morti dello Yemen, ma al contrario vuol dire aver chiaro un concetto fondamentale del sentimento: possiamo amare tutti, ma per farlo dobbiamo provare il nostro amore verso qualcuno.
Non c’è niente di male, funziona così. Se scoppia una guerra pensiamo prima a ciò che accadrà nelle nostre famiglie e poi, a poco a poco, allarghiamo la nostra preoccupazione a sfere sempre più ampie. E questo “contagio” di sentimento si verifica non solo per contiguità geografica, ma anche per affinità culturale, ideologica, economica, con un’abbondante quota di inspiegabili motivi personali quasi inconsci.
Per questo – anche per questo – risultano incomprensibili le generalizzazioni di chi vuole mettere tutti sullo stesso piano, le vittime conosciute e quelle che mai conosceremo, i profughi che incontrano una telecamera e quelli che fuggono nell’anonimato.
Siamo macchine imperfette che funzionano per sistemi parziali. Viviamo ciò che vediamo, tocchiamo, sentiamo, assaggiamo.
Diluire i morti dell’Ucraina nel mare magnum delle vittime dell’Occidente (c’è sempre una colpa americana che fa capolino in questi casi) o in quello delle imperscrutabili guerre nazionaliste, è un atto di profonda ingiustizia.
Ogni guerra ha i suoi morti.
In certi casi i morti si contano, in altri si pesano.
È questo il senso della storia sin all’alba dell’uomo.    

Era febbraio

Qualche mese fa scrissi qui una riflessione sui miei novembri (che, con mia sorpresa, piacque abbastanza). In generale piacere mi fa piacere – che piacere sarebbe non piacere? – ma quando il gradimento è granitico allora mi suona un campanello. Accade poche volte da queste parti. Anzi in tempi recenti sono stato indotto a rimpiangere la brodaglia di un consenso uniforme e spesso poco motivato: infatti la virulenza di certi metodi di dissenso mi ha costretto a usare la clava dialettica o, metodo meno entusiasmante, a ricorrere all’avvocato.
Resto un fan del dibattito acceso, un nemico giurato dell’imparzialità, che è quella cosa che si tira in ballo quando non si hanno argomenti per sostenere una tesi o non si ha voglia di combattere per un’idea. C’è una bellissima frase, di cui parlammo qui, che può essere incorniciata, soprattutto in questi periodi in cui le truppe dell’ignoranza organizzata fanno caciara attorno ai monumenti della ragione: giornali, libri, teatri, luoghi di arte, lo stesso web.
La frase è questa: “Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti: cioè renderci conto delle nostre passioni, tenerci in guardia contro di esse e mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialità. L’imparzialità è un sogno, la probità è un dovere”.
Insomma questo post è un mirabile, anzi “mirabile”, esempio di preambolo più lungo della tesi centrale: praticamente mi sono preso la licenza di parlare incidentalmente di giornalismo e di far un pessimo uso dei ferri del mestiere.

Eravamo ai miei novembri.
Ora siamo ai nostri febbrai. Agli ultimi tre almeno: quello dell’esplosione della pandemia, quello della resistenza e della reclusione, quello della guerra.
Nel disastro collettivo come nei drammi personali, abbiamo imparato che l’unica cosa da fare nelle difficoltà è rimboccarsi le maniche: tanto, anche se arriva il peggio, almeno ti coglie cazzuto e in piena attività, e non svaccato e rincoglionito dal far nulla (che è dolce solo nelle favole). Abbiamo anche sperimentato il potere mefitico dell’illusione a caldo, il famoso “ne usciremo migliori”. E ci siamo persino esercitati nel sempre utile esercizio della speranza, che prima intendevamo come una cosa a metà tra la lettura dei fondi di caffè e l’aspettativa di un miracolo e che oggi, più prosaicamente, raffiguriamo come uno zaino da metterci sulle spalle.
La speranza pesa, va condotta. Costa, in termini di fatica. Non cade dal cielo, la speranza si conquista facendo.
I miei febbrai mi hanno dato questa lezione, dura e non ancora assimilata in pieno.
Saper sperare è avere piena coscienza che un’alba passa sempre attraverso una notte.