Le fatiche di Salvini

Nelle ultime ventiquattro ore il ministro delle Infrastrutture e dei trasporti Matteo Salvini ha twittato sulla morte della moglie di Lino Banfi (“una preghiera”), sul sindaco leghista di Cinisello Balsamo che ha sgomberato un edificio occupato da un collettivo (“bene”), su Mario Giordano che replica a Fedez (“applausi”), sul collega Valditara che ha attaccato una preside per la sua lettera antifascista (“avanti tutta”), sulla Fornero – una sua ossessione – che vuole tassare i ricchi (“marziana o marxiana?” ), su una ragazzina iraniana picchiata perché non indossava correttamente il velo (“vergogna”), sulla sentenza per la tragedia di Rigopiano (“vergogna”).

Poi si è preso una pausa dal lavoro.

L’utile e gli utili

Undici anni fa il Time incoronò come persona dell’anno Mark Zuckerberg con una spiegazione che oggi fa sorridere: perché avrebbe dovuto “domare la folla urlante e trasformare il mondo solitario e antisociale in un mondo amichevole”. La storia è abituata a farsi beffa di noi umani che vorremmo domarla, piegarla, condizionarla con previsioni azzardate. Dal 2010 a oggi molto è cambiato, ed è cambiato proprio a causa dei social network. Le folle urlanti sono tutt’altro che domate e anzi ululano proprio su Facebook e dintorni, la solitudine è stata accresciuta dall’estinzione di un sentimento comune basato su ragionamenti e il mondo più amichevole che conosciamo è forse quello che sta meno a portata di clic.

Per capire ciò di cui stiamo parlando dobbiamo tenere a mente che, pur evitando pericolosi complottismi, il mondo che conosciamo si regge fondamentalmente sul cemento di consensi versato da Facebook, Microsoft, Apple, Alphabet (la holding a cui fanno capo Google e altre aziende collegate) e Amazon. E che tutte insieme queste aziende alla fine del 2020 avevano una capitalizzazione di mercato di 7.500 miliardi di dollari: cioè se fossero un paese, il loro prodotto interno lordo sarebbe quasi quattro volte quello italiano. Attenzione parliamo di aziende giovani con storie incredibili alle spalle: nel 1997 la Apple era sull’orlo del fallimento; il primo anno in cui Amazon ha fatto profitti è stato il 2001; Facebook è nata nel 2004; Google è stata quotata in borsa nel 2005. Insomma la tecnologia che usiamo oggi è il frutto di interazioni inusitate: hippy, università, marijuana, garage, libri, follia e illuminazione. Sarà interessante vedere cosa si sta seminando adesso, in questi anni lontani da tutti gli altri anni, diversi, unici e speriamo non ripetibili.

Di certo sta fiorendo una grande illusione e cioè che il fatto che Twitter blocchi Trump sia una garanzia di libertà. La certezza che un prepotente, pericoloso e arrogante, in posizione di dominanza assoluta, venga azzerato da un social network per garantire un mondo migliore, svanisce dinanzi alla consapevolezza che un ristretto gruppo di persone nella Silicon Valley sta ridefinendo le nostre modalità di espressione, creando una sorta di zona grigia dove le regole si collocano da qualche parte, indefinitamente, tra la democrazia e il giornalismo, tra la libertà di espressione e gli utili di una azienda privata.          

Soloni fa rima con…

Tra gli effetti più indesiderati dell’indesiderabile sciatteria che ci inquina, tutti quanti, quando siamo davanti a una tastiera a digitare su un social – cioè quando l’effetto della battuta risente al massimo della rapidità di esecuzione – c’è quello della sbarellata percezione del tempo che passa.
Pur di twittare, propalare, cliccare siamo disposti a tutto: persino a sfregiare la storia, la nostra storia, seppur minima.
Prendo ad esempio una frase di Massimo Mantellini, “uno dei massimi esperti della rete internet italiana” come lo definisce la sua bio per Einaudi editore: “Benigni non fa più ridere da vent’anni…”

L’occasione era ovviamente l’apparizione di Benigni al Festival di Sanremo e la sua rilettura del Cantico dei Cantici.
Ora, la frase di Mantellini la prendo come esempio per spiegare un fenomeno – non ho nulla contro questo signore di cui apprezzo alcune analisi, ma di cui non condivido il protagonismo social che rasenta spesso le pulsioni di un teenager – quello dell’azzeramento della prospettiva temporale.

“Benigni non fa più ridere da vent’anni” significa, dato che Benigni è (anche) un attore comico “Benigni non significa un cazzo da vent’anni”. E attenzione al tono assoluto: “non fa più ridere” e non “non MI fa più ridere” che già sarebbe una frase dietro il paravento di un’opinione.
No, stando a questo assunto Benigni non ha inanellato niente negli ultimi decenni.
Eppure basterebbe pensare che 21 anni fa (appena un anno prima del confine mantelliniano) Benigni si era messo dentro un Oscar. E poi aveva portato la Divina Commedia nel mondo. Nel 2009 aveva attaccato, proprio dal palco di Sanremo, l’intoccabile Berlusconi, mentre il “massimo esperto” digitava chissà cosa dal suo abbaino. Due anni dopo, sempre a Sanremo, aveva parlato dell’Unità d’Italia raggranellando uno share del 60 per cento: e siccome la spiegazione non era stata poi così male, il giorno dopo gli aveva scritto il presidente Napolitano per complimentarsi. Nel 2014 i suoi Dieci comandamenti in Rai avevano ottenuto una citazione di Papa Francesco in un’omelia. Tutto questo, sempre in vent’anni del cazzo, diluito nel conferimento di dieci lauree honoris causa, di una Medaglia d’oro ai benemeriti della cultura e dell’arte e di una onoreficenza come quella di Cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana.

Questo per cercare di ragionare sull’effetto delle parole a effetto, sulla stordente simbiosi tra battuta e minchiata storica che il web ci propone, dalla quale nessuno è immune.
Poi a me Benigni manco mi entusiasma, ma ce ne corre a scrivere che dopo “Johnny Stecchino” è tutto un declino (e c’è pure la rima). A proposito, chissà se su Twitter le rime premiano, perché trattando di Soloni…  

La cazzata di cittadinanza

Funziona così. Il migliore argomento per demolire il nemico è ridicolizzarlo con tesi ridicole. Sembrerà incredibile ma è questo il metodo di successo con cui il sottosegretario all’Interno Carlo Sibilia, twittatore indefesso nonché complottista che non crede all’allunaggio, avanguardista che propone il matrimonio fra specie diverse “purché consenzienti”, no-vax della prima ora, mette alla berlina gli avversari politici. In questo tweet ad esempio indica al popolo i veri nemici del reddito di cittadinanza appendendoli al cappio del loro stipendio.

Per Sibilia e i suoi accoliti infatti i guadagni altrui sono una vergogna. La ricchezza è un orribile reato in un mondo fatto di gettoni a pioggia, più nulla per tutti: del resto un partito politico che ha abolito qualsiasi merito non può concepire che ci sia un ruolo che valga più di un altro, altrimenti Sibilia non dovrebbe stare dove sta, su una poltrona chiave per la sicurezza di questo Paese. Cottarelli, Boeri, Caldenda, Fedeli possono essere democraticamente criticati per i loro (eventuali) errori, ma pretendere di condurli alla forca – per di più da sottosegretario all’Interno – per la loro dichiarazione dei redditi è un’operazione ignobile. Non è neanche un colpo al di sotto della cintola, è l’indecente uso del ridicolo che fa audience in tempi bui quando una cazzata si trasforma con un clic in un argomento di vasta trattazione politica.

La via giudiziaria contro gli odiatori del web

L’articolo pubblicato oggi su la Repubblica.

L’inchiesta giudiziaria della Procura di Palermo contro i farabutti che, il mese scorso, presero di mira con insulti e minacce sui social il presidente Mattarella nel caos della formazione di un nuovo governo, è un raggio di sole nel buio della nullocrazia. La crisi di valori che questo Paese sta vivendo è strettamente legata a un potere che si alimenta di odio compulsivo e uso fraudolento dell’incultura. Trascinare davanti a un giudice e condannare chi offende e infanga sul web come se l’impalpabilità dei byte concedesse una sorta di impunità, significa ricordare a tutti, cittadini reali e patetici avatar, che l’ignoranza se è colpevole deve essere punita in modo esemplare. Sinora, con eclatanti esempi internazionali, la maggior parte dei tentativi di riallineamento della realtà dei social network con quella, vera, dei diritti e dei doveri è fallita. La via giudiziaria è l’ultima spiaggia per scardinare le echo-chambers degli odiatori. Per ripartire da una regola semplice delle vite non qualunque: la volgarità è una scorciatoia, la dignità è una fatica.

L’amo populista e i pesci (cretini) del web

L’articolo pubblicato oggi su la Repubblica Palermo.

La storia dell’improvvido leoncino da tastiera che ruggisce offese ignobili contro il presidente Mattarella e subito dopo si dispera perché ha “scritto senza riflettere” è un paradigma sociale, politico e antropologico. Nella figura di questo tale Cassarà, quarantenne senza né arte né parte, si rispecchia purtroppo gran parte di un elettorato che abbocca all’amo populista lanciato da chi pretende di scrivere la storia senza conoscerla. E non è l’errore che non va perdonato – abbiamo perdonato cose ben peggiori, come Stato e come comunità – ma l’ignoranza colpevole di chi dice di aver agito di impulso, ma ha avuto l’accortezza di mettere un hashtag, il grottesco stupore di chi cerca il retweet selvaggio e si stupisce di finire in tv non da eroe ma da perfetto idiota. Ecco, questo tale Cassarà dovrebbe essere portato nelle scuole e nei comizi di certi politicanti aizzatori di cretini affamati di sangue virtuale, per spiegare il concetto di libertà applicato ai social: un’opinione è tale solo se esce dall’orifizio giusto.

Dare del demente a chi non lo è (o chissà)

Gasparri Twitter Il problema non è Gasparri che mi dà del demente (stare agli antipodi intellettuali di uno come lui è un traguardo umano e professionale), ma Gasparri che si fa la ricerchina su Twitter per vedere cosa si dice di lui e delle sue gesta. Vale la pena di ricordare che questo signore è vicepresidente del Senato e che la sua concezione di politica sembra essere modellata sul sistema dialettico dei social: caricare, mirare, fuoco. Fuoco in tv quando sputazza sentenze nelle tribune politiche nelle quali tende a spadroneggiare come un boss di paese, fuoco sui social quando si inventa (lui o chi per lui) passati remoti che non esistono, fuoco di passione insana quando c’è da aggredire, mordere, divorare. Insomma l’uomo giusto per il ringhio giusto. Perfetto per la nuova coalizione virtuale venuta fuori dal referendum: ai nuovi barbari serviva proprio uno spalatore di melma di esperienza.

La sveltina su Facebook

falegname

L’Italia sarebbe un Paese migliore se ognuno facesse SOLO quello che sa fare. E null’altro.

Ho scritto questa frase sui social e qui voglio spiegare meglio, avendo qualche riga in più a disposizione.
Per convergenza astrale, in seguito alle rivoluzioni economiche e alle conseguenti evoluzioni del mercato del lavoro, abbiamo tutti imparato a lavorare in modo diverso. Nel mio piccolo mi ero portato avanti e avevo cambiato regime, non senza correre rischi, qualche anno prima dei capovolgimenti della New Economy, ma questo non è importante. Importante è invece l’effetto che la crisi ha avuto su una fetta del mondo produttivo. Improvvisazione, mancanza di concentrazione, dilettantismo dilagante: molti si sono reinventati qualcun altro o qualcos’altro senza pensare che era il proprio talento quello che dovevano mettere a buon frutto. Non dovevano far altro che assecondare un’inclinazione. E invece hanno assecondato l’onanismo da tastiera. Il web infatti, a parte i grandi meriti di cui sappiamo, è stato anche un catalizzatore organico di cazzate.
Pensiero diffuso: siccome su internet io posso avere la stessa visibilità di Barak Obama (digito ergo sum) perché non devo parlare come Barak Obama? Da lì, il baratro. Continua a leggere La sveltina su Facebook

Il galantuomo che manda tutti a cagare

saverio romano tweet

Qualcuno dovrebbe prendersi la briga di spiegare a Saverio Romano, anzi all’onorevole Saverio Romano, che quando si ha un ruolo bisogna mantenere un contegno adeguato. E soprattutto che quando in quel ruolo, pur stretto come una camicia messa in lavatrice col ciclo sbagliato, si scrivono cose che vengono fraintese, la colpa non è di chi fraintende ma di chi non ha saputo usare il linguaggio giusto. Il famoso tweet su Denis Verdini che, ragioni politiche a parte, trasuda tutta l’arroganza residua di un potere che non conosce altro che una disperata strategia di autoconservazione, ci dice poco della visione politica di Romano e moltissimo della personalità dello stesso. Le parole “amici”, “galantuomo”, “riserbo” insieme al richiamo alla “biografia” dei non allineati sono più di un programma o di un’intenzione, sono una radiografia del personaggio. E non è la buona fede dell’ex ministro che qui si mette in dubbio, ma la sua naturale inclinazione alla protervia di chi sta sulla poltrona più alta: insomma, un politico serio non la manda a dire con frasi che necessitano di spiegazioni e contro-spiegazioni, la dice e basta. Se è in grado.
È questo il lato oscuro del ragionamento di Romano, che ha provato a spiegare, a giustificare un grottesco “andate a cagare”: il non saper argomentare senza cadere nella banalità della superbia.
saverio romano tweet 2
In un altro Paese, uno qualsiasi tra i Paesi in cui alle elezioni si contano i voti e non i morti, il capo della sua coalizione politica lo avrebbe allontanato con gli stessi modi raffinati da lui usati per difendere il suo “ragionamento” (e mai virgolette furono più necessarie). Qui invece magari gli faranno un monumento: “A Saverio Romano, amico e galantuomo: e andate tutti a cagare”.

Un buon motivo per mettere Gasparri alla porta

Gasparri tweetNon sarà per un’eventuale bega giudiziaria, poiché il garantismo impone prudenze che sono spesso digeribili come le pietre. Non sarà per incapacità tecnicamente manifesta, poiché ai parlamentari non viene richiesta alcuna perizia. Non sarà nemmeno per capriccio, poiché la democrazia non è un sentimento (pur suscitandone molti, drammaticamente diversi).
Potrebbe essere per Twitter, sì.
Se si cercasse un buon motivo, universalmente valido, per mettere alla porta il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri, lo si troverebbe nelle sue scorribande sul popolare social network. Il tweet su Greta e Vanessa in cui l’incauto politico mescola il peggio del ciarpame internettiano col meglio della sua lungimiranza politica, che com’è noto è pari alla sua purezza intellettuale, è un’occasione preziosa per le forze democratiche di questo Paese per depurarsi.
Sapevamo che per governare, come per svolgere molti lavori, occorre sporcarsi le mani. Ciò che non sapevamo, sino all’avvenuto decollo del Gasparri pensiero, è che a certuni il fango stimola, eccita, accende.  Però in Italia abbiamo bisogno di politica, non di mud wrestling.