Colpi di spugna e colpi di teatro

Le sentenze, anche quelle della Suprema Corte, si devono rispettare ma si possono criticare”. La frase, con sicurezza lapidaria, la scrive il magistrato Nino Di Matteo nel suo ultimo libro che ha un titolo spoiler, “Il colpo di spugna. Trattativa Stato-mafia: il processo che non si doveva fare”. Se mai si cercassero frasi dipinte su un personaggio, o in questo caso sull’autore (che comunque è anche personaggio), che meglio ne rispecchiano le caratteristiche, di migliori e più calzanti non se potrebbero trovare.
Quindi le sentenze si possono criticare, persino quelle della Cassazione, ce lo dice Di Matteo, tutto a posto. Postilla: magari sono criticabili solo quando non rispecchiano le nostre aspettative fermo restando la nostra facoltà, negli altri casi, di impugnare la spada in difesa della magistratura e soprattutto del suo verbo fatto sentenza.

Nino Di Matteo è un coraggioso magistrato da anni nel mirino delle cosche mafiose. Ma nei suoi confronti si è sviluppato un paradosso tutto italiano. Quello del dibattito abortito per timore reverenziale. I pochi che si azzardano a criticarlo o a cercare di porre domande sul suo umano operato – sul resto vige l’impalpabilità di una sorta di divinità – vengono marchiati a fuoco che manco i vitelli di Yellowstone (la serie): solo che lì è senso di proprietà, qui è senso di infamia.
Insomma Di Matteo può dire quello che vuole perché è coraggioso (che è vero) e sotto scorta (che è vero). E chi osa non essere d’accordo con lui non è uno che dissente normalmente come accade col restante della popolazione mondiale (che è vero), ma uno che delegittima.
Ci ha provato più volte, in un’aula di giustizia, l’avvocato della famiglia Borsellino, Fabio Trizzino, a cercare di mettere in fila le responsabilità di Di Matteo nella gestione del pentito farlocco Scarantino. Il magistrato, insieme con tutti i suoi colleghi di allora, non è stato ritenuto responsabile dell’indecente depistaggio della strage di via D’Amelio. Anzi, lui e tutti gli altri, hanno riscosso promozioni e si sono mossi agevolmente nel sotto vuoto spinto del clima di distrazione collettiva che ha caratterizzato le indagini sull’eccidio e sulla sistematica deviazione dell’inchiesta.

Disse Trizzino: “Il Pm Di Matteo nel 2009 fece una dichiarazione sul collaboratore di giustizia Spatuzza (colui il quale svelo l’impostura di Scarantino, nda) senza alcuna competenza. L’elemento incredibile è che Di Matteo, quell’anno, da pm di Palermo, non aveva alcuna competenza per entrare nei processi Borsellino uno e Borsellino bis, a meno che non temesse qualcosa che potesse compromettere la sua carriera professionale. Bisogna avere il coraggio di dirle queste cose”.

Purtroppo il coraggio non basta. Perché ancora oggi, a distanza di 32 anni dalle stragi, pare che a nessuno importi nulla di quelle menzogne. Menzogne di Stato.
Il cortocircuito non è solo giudiziario, ma mediatico e sociale. La stessa libertà con cui un magistrato critica una sentenza di Cassazione non ha la stessa eco dell’indignazione dei cittadini che reputano scandaloso che nessun magistrato – anzi nessuno in assoluto – abbia mai pagato per lo scempio della verità sulla strage di via D’Amelio. Avete mai visto una manifestazione, un flash mob per stigmatizzare espressamente quel che combinarono la procura di Tinebra e i poliziotti di La Barbera?

Il massimalismo antimafia di cui l’antimafia sta morendo per asfissia ci ha insegnato che, ad esempio, lo stesso movimento delle “Agende Rosse” che ha contestato pubblicamente il sindaco di Palermo Roberto Lagalla per l’appoggio di Cuffaro e Dell’Utri nel corso della campagna elettorale, non ha avuto nulla da dire sulle accuse di Trizzino a Di Matteo. Anche qui non uno slogan, non un corteo sullo specifico: eppure l’agenda rossa da cui prende il nome quel gruppo di cittadini (sul cui impegno tanto di cappello) è proprio al centro del cratere lasciato dal depistaggio in cui i magistrati della procura di Caltanissetta hanno brillato quantomeno per inadeguatezza.
Al contrario, dalle Agende Rosse solidarietà sempre e comunque – che ci sta perché comunque Di Matteo non è che viva spensierato a Disneyland, oddio sindrome da timore reverenziale in agguato –  e addirittura una proposta di cittadinanza onoraria, lassù al Nord.
Il massimalismo è una scelta poco conveniente, perché a forza di spingere sull’acceleratore ci si dimentica dell’utilità dei freni. È lecito contestare chiunque, dicevamo, ma è lecito anche chiedere una lettura uniforme dei fatti.
Se uno manifesta per la scomparsa dell’Agenda Rossa di Paolo Borsellino e poi si dimentica di chi per anni si è fatto intortare di minchiate dal “pentito” meno attendibile dell’universo mondo, qualche problema c’è.
E dobbiamo smetterla di considerare che il problema è chi dice che c’è un problema.

Trattative e populisti

calogero mannino

Io non so se la “trattativa Stato-mafia” ci sia stata o no. So che mi devo affidare a un metro comune (cioè che sia uguale per tutti) per misurare l’attendibilità di una tesi. E ora che Calogero Mannino è stato assolto non mi piace celebrarne le doti di statista (che non gli riconosco) così come non mi piace gridare al complotto anti-antimafia (dato il pm in questione era Nino Di Matteo). La verità è che in questa inchiesta sono venute a collidere le forme più virulente di populismo: da un lato il partito dei partiti che vedono giudici politicizzati dovunque, soprattutto quando si esaminano le fedine penali dei loro iscritti; dall’altro le truppe degli squadristi antimafia che ritengono punciutu chiunque non la pensi come loro. Continua a leggere Trattative e populisti

La trattativa spontanea

Secondo Beppe Pisanu, presidente della commissione antimafia, la trattativa Stato-mafia non fu condotta col consenso ufficiale dello Stato e quello altrettanto ufficiale della mafia. Ma fu frutto di un rendez-vous tra volontari in divisa e precari della lupara. Insomma si trattò di un evento spontaneo e disorganizzato, quasi un flash-mob.
E’ chiaro persino ai lattanti che la relazione di Pisanu ha un solo obiettivo: salvare l’illustre capra e i preziosi cavoli.
Le altre capre siamo noi e i restanti cavoli sono tutti nostri.

Morto un Cossiga…

…atroce è il mio rammarico per una campagna violenta e irresponsabile di insinuazioni e di escogitazioni ingiuriose cui era stato di recente pubblicamente esposto, senza alcun rispetto per la sua storia e la sua sensibilità di magistrato intemerato, che ha fatto onore all’amministrazione della giustizia del nostro Paese.

Col messaggio di cordoglio per la morte di Loris D’Ambrosio, il presidente Napolitano entra in guerra con la Procura di Palermo. Insomma se prima si parlava di conflitto istituzionale, adesso mancano solo i cazzotti.