Le bestemmie di Caronte

Vilar de Mouros – Viladesuso

Stamattina quando dalla mia stanza d’albergo ho sbirciato la pioggia battente ho pensato, dati i 27 chilometri in programma, che la maggiore difficoltà sarebbe stata rappresentata dall’acqua che cadeva dal cielo. Neanche arrivato a Caminha un sospetto mi si è insinuato nella parte asciutta del cervello dinanzi al rio Minho che avrei dovuto attraversare per raggiungere la Galizia, quindi per entrare in Spagna. Bisognava traghettare e, percorrendo la bellissima ecovia che costeggia il rio, ho seguito le indicazioni per il ferry boat. A un certo punto però la segnaletica si è fatta più insistente, meno istituzionale (e mi sarei dovuto insospettire se solo la pioggia non mi avesse annacquato le idee di prima mattina). Frecce gialle, come quelle del Cammino, indicavano deviazioni per un accattivante “Taxi Mar” e portavano a un bar che aveva i suoi tavolini proprio su un molo con un traghetto ormeggiato. Fatto il biglietto, ho chiesto alla signora del bar delucidazioni sugli orari dato che non c’era nessuna tabella, cartello, monitor, pizzino: niente di niente. Intorno a me il gruppo dei potenziali traghettati si era accresciuto secondo una delle leggi dell’effetto pecora, per cui se uno si ferma senza motivo altri troveranno motivo per fermarsi senza motivo. La signora ha risposto in modo vago, “vabbè vi chiamo io”: e anche lì il mio cervello latitava nel prevalente umido. 

Giunto il momento, cioè quando la signora ha battuto le mani due volte tipo maestra con scolaretti svogliati, un contingente di noi si è accodato a un tale con giacca a vento e calzoncini corti dall’aria rincoglionita. Costui ci ha contati più di una volta probabilmente più per confermare a se stesso il suo stato vigile che per una qualche ragione organizzativa o strategica. Sei, dovevamo essere sei. Gli altri attendano.
Lo abbiamo seguito sotto la pioggia battente sino a superare la banchina del presunto traghetto che, visto da vicino, ora mostrava la sua sinistra essenza di vascello fantasma. Nessuno dentro, nessuno intorno (a parte noi sei fantasmi e l’uomo in calzoncini e giacca a vento). Più avanti ci siamo impantanati nella sabbia fradicia e i tizi che condividevano con me questo capovolgimento di emozioni (da molo a fango, da traghetto a…?) cominciavano a dare segni di nervosismo dato che avevano anche le biciclette da trascinare. 
Senza guardarci, coi pensieri multilingue stile esperanto, siamo stati investiti tutti dalla stessa domanda: perché cazzo sei e solo sei?
La risposta si è materializzata in una specie di barchino arenato, anzi incagliato, in una zona remota della spiaggia. Nella foto di questo post potete vedere il Caronte in giacca a vento e pantaloncini che cerca di smuoverlo con l’acqua alle ginocchia. Per fortuna non potete sentire le bestemmie in dolby surround con le quali ha accompagnato le sue manovre maldestre. 

Alla fine siamo riusciti a salire, proprio mentre il cielo ci mandava un sinistro avvertimento rinforzando la pioggia, grazie a una scaletta fatta con le casse dell’acqua minerale. Stringendoci tutti, uomini e biciclette, anime e zaini, siamo sopravvissuti a una corsa forsennata da una costa all’altra, da una nazione all’altra (qui un frammento video dove sembriamo solo turisti incoscienti). Poi, toccata terra spagnola, abbiamo maledetto il nostro scafista e ci siamo lasciati consolare da un tranquillo temporale sulla terraferma. 

20 – continua

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Un po’ di cose mie

nave al largo di palermo

L’altro giorno chiacchierando con un amico si parlava di viaggi in nave. Non di crociere, ma di spostamenti per mare da un luogo a un altro. Entrambi concordavamo sulla magia di una partenza dal porto di Palermo, magari di sera con le luci della città che ti accompagnano per lungo tempo prima di spegnersi al tuo orizzonte.
Ci penso spesso ai viaggi in nave, soprattutto da quando non mi capita più di farne. Sino a qualche anno fa, prima della diffusione dei voli low cost, il traghetto o il vaporetto, come lo chiamiamo ancora noi isolani, era l’alternativa economica all’aereo.
Quando, ad esempio, partivo per la settimana bianca, il Palermo-Genova della Tirrenia era un capitolo fondamentale del viaggio: quelle 22 ore di clausura, quasi sempre col mare mosso, inscatolati in cabine senza oblò e con poca aria, andavano preparate con cura. Ci armavamo di libri e riviste, registravamo decine di audiocassette per darci una colonna sonora nella penombra forzata delle cuccette di seconda classe. La musica cominciavo a sceglierla mesi prima, era come se la vacanza durasse più a lungo.
E poi i panini. Mia madre ne preparava per una truppa, anche se magari eravamo solo in due. Li mangiavamo a cena, a colazione l’indomani, e magari a pranzo. Mai accaduto che ne rimanesse uno: e non eravamo grassi, ma semplicemente giovani.
In nave il tempo non era mai perso, come mai perso è il tempo della gioia. Che ci fosse freddo o meno, la notte si evadeva dai loculi e si  andava a prendere aria (e salsedine) sul ponte. Si guardava il mare buio e si fantasticava su un futuro a portata di mano: ci sarà neve a sufficienza? Chissà se hanno riaperto la pista con le gobbe… Il maestro si ricorderà di noi?
Ricordo tutti gli odori di quel traghetto, anche quello dell’infermeria, dato che una volta pensai bene di lacerarmi un braccio mentre cazzeggiavo con uno dei miei compagni di viaggio: il medico era talmente rimbecillito dal mare mosso che le graffette adesive per suturare la ferita me le mise un mio amico.
Il self service, il mitico self service della Tirrenia, proponeva ogni anno lo stesso menu: pennette al sugo, insalata, cotoletta e patatine fritte. Io, quando finiva la scorta di panini della mamma, mangiavo le patatine, anche se tutto aveva lo stesso retrogusto, sapeva come dicevamo noi “di nave”, quindi era un po’ come assaggiare la pasta o la cotoletta (il che era drammatico per me vegetariano).
Insomma, la nave era per noi ragazzi un perfetto mix di lentezza e leggerezza, di risparmio e goliardia, di mare e cielo.
Poi con cinquanta euro fu possibile partire da Palermo a ora di pranzo e arrivare in Val Thorens per cena, (prima ci mettevamo due giorni) e tutto cambiò. Le settimane bianche diventarono vere settimane, dato che prima duravano almeno nove giorni a causa del lungo viaggio. Le valigie si rimpicciolirono a misura di Ryan Air, mentre una volta riempivamo il portabagagli dell’automobile (imbarcata sul traghetto, naturalmente) persino con le provviste. Noi diventammo grandi ma il fascino per il viaggio in nave non si spense.
Ancora oggi, ogni volta che sono in riva al mare e mi va di esprimere un desiderio, cerco una nave di passaggio.

Yara e la prudenza che serve

di Alfred Breitman

Fidiamoci delle autorità, ma dati i tempi che corrono, vigiliamo sugli esiti delle indagini legate al caso della tredicenne Yara, scomparsa da Brembate Sopra (Bergamo) il 26 novembre scorso e già data per morta assassinata dagli inquirenti. Un testimone – vicino di casa di Yara – che ha dichiarato di averla vista insieme a due uomini adulti nei pressi dell’abitazione della giovane e che ha affermato di aver notato nelle vicinanze una citroen rossa ammaccata non solo non è stato creduto, ma è anche stato denunciato per procurato allarme e falso. Se vi sono altri testimoni di quello stesso evento, dopo la sorte toccata al primo, di certo non si faranno avanti. Successivamente sono scattate, in tempi record, intercettazioni nei confronti di un giovane operaio tunisino, che è stato bloccato mentre si trovava a bordo di un traghetto e accusato di omicidio. Pare che in una telefonata abbia detto: “Che Allah mi perdoni, ma non l’ho uccisa io”. Un’espressione che fa pensare che il giovane temesse di essere sospettato del crimine, magari – chissà? – dopo essere stato avvicinato da qualcuno che l’abbia spaventato comunicandogli tale ipotesi. Non ha detto: “L’ho uccisa io,” ma “non l’ho uccisa io!”. Vi sono attinenze con casi del passato: dal caso Romulus Mailat (il romeno, dopo la condanna in Cassazione è ricorso presso la Corte europea dei Diritti Umani) al caso Racz e Lojos, fino a quello della giovane Rom Angelica, che attende il giudizio in Cassazione riguardo al “tentato rapimento” di Ponticelli. Fidiamoci delle autorità, ma aiutiamole a seguire in ogni momento piste corrette, valutando gli alibi del tunisino e garantendo che i suoi diritti umani, durante gli interrogatori, siano sempre rispettati. Forse Yara è morta. Forse l’ha uccisa il tunisino. Forse i due uomini con la Citroen rossa esistono e forse no. Tuttavia, evitiamo che questo caso termini con un colpevole in galera a vita, ma con una coda di domande e dubbi senza risposta. E nuove ondate di xenofobia che agevolano solo le carriere di politici intolleranti e l’ascesa a un potere sempre più forte da parte dei movimenti razzisti.