L’attimo

L’articolo pubblicato oggi su La Repubblica.

Nel più grande romanzo fantasy che sia mai stato scritto, “Alice nel paese delle meraviglie”, Lewis Carroll descrive l’eterno mistero dell’attimo facendo rispondere il Bianconiglio alla domanda “per quanto tempo è per sempre?” con la celebre frase: “ A volte, solo un secondo”. Di attimi è fatta la nostra vita e negli attimi si insinua la morte, nostra e del nostro universo, sparigliando le carte sul tavolo dell’esistenza. Nella tragedia di Catania, con un bimbo che muore nel chiuso di un’auto rovente perché dimenticato dal padre, l’orrore non si consuma nelle cinque ore in cui la vita abbandona il piccolo, respiro dopo respiro, nel parcheggio della cittadella universitaria, ma nel nanosecondo in cui la mente del padre cancella la presenza di quel figlioletto addormentato sul sedile posteriore. Nella nostra umana consapevolezza che tutto ha una causa ma nulla è evitabile possiamo tentare di trovare giustificazioni nello stress, nella routine, nella distrazione di un’era tecnologica, ma è solo una paradossale e disperata ricerca di conforto: perché noi siamo quel padre trafitto in eterno dalla colpa e non ci serve una ragione, ma una benda con la quale tamponare la ferita. E intanto facciamo fatica a confessarci che non siamo solo la biochimica che regola sonno e veglia, depressione ed euforia, ma anche l’eterea forza che ci spinge fuori dalla nostra orbita di razionalità. Siamo il piede che schiaccia l’acceleratore quando non ne abbiamo bisogno, siamo il battito di ciglia prima del passo fatale, siamo il pensiero che ci distrae quando non abbiamo pensieri. Siamo attimi senza padrone, che arrivano e se ne vanno senza che nessuno se ne accorga e ogni tanto intercettano il momento cruciale come angeli sterminatori. Prendono il tempo, lo rendono eternità di brandelli e spariscono, lasciandoci soli nell’inferno latente delle nostre vite.

Perché Rigopiano è una tragedia da film

Raccontare imprese, tragedie, vittorie, sconfitte, scommesse, scandali non è un delitto. È un mestiere che ha varie sfaccettature: lo si può fare con un occhio al qui e adesso su una pagina di giornale, lo si può fare con la lente di ingrandimento per un’inchiesta o un approfondimento, oppure lo si può fare costruendo una storia più o meno liberamente ispirata alla realtà in un romanzo o in una fiction. Funziona così da sempre, da quando è stata inventata la narrazione, cioè la vita.
La levata di scudi contro la fiction di Pietro Valsecchi sulla tragedia di Rigopiano è quindi figlia di un tempo di indignazione prêt-à-porter e anche di un certo pecoronismo in cui non è importante fermarsi a pensare ma seguire il flusso, dichiarare senza esitazione prima che qualcuno arrivi prima. Il disastro dell’albergo sommerso e devastato dalla valanga sul Gran Sasso è innegabilmente una storia incredibile da raccontare, da indagare, da decostruire e rimontare. Perché la cronaca non è colpa di chi la racconta, perché l’anima dei narratori ha il lasciapassare dell’Arte che, come tutti sanno, non si cura dell’etica. E per fortuna!
Se avete tempo leggetevi questo vecchio articolo di Claudio Magris sul mestiere degli scrittori.
Quindi non lasciatevi prendere dalla compulsione di critica e prima di dare un giudizio su questa vicenda pensate ai drammi del nostro tempo che hanno ispirato romanzi, film, serie tv. Li avete letti, visti e vi sono piaciuti o meno. Ma non vi siete sentiti sporchi. Magari perché eravate in era pre-social oppure perché nessuno aveva avuto il tempo e la voglia di piantare il seme del pressapochismo che genera la pianta della superficialità.
Rigopiano è una grande tragedia italiana. Ma può essere anche un gran film o un romanzo ben scritto. Basta giudicare a cose fatte. Recensire le intenzioni è un atto estremo di egoismo. E di ignoranza.

La memoria del Vajont

Nel cinquantesimo anniversario della tragedia del Vajont, a parte che pregare per le vittime non c’è altro da fare che rivedersi il capolavoro di Marco Paolini (di cui abbiamo già parlato).

Le regole della natura e quelle della politica

Nonostante i distinguo che si appigliano in modo fallace a testimonianze di tecnici e scienziati, i danni degli eventi naturali possono essere previsti.
Molti amministratori e burocrati si stanno affrettando a precisare che precipitazioni come quelle di questi giorni in Sicilia sono difficili da arginare. Il loro ragionamento sottende un’idea di fatalismo: quando succede, succede.
Non dategli conto, non è così.
Qualunque geologo di buon senso, qualunque contadino di esperienza, qualunque montanaro genuino vi spiegherà – ognuno con ragioni convincenti – che la natura ha un sistema di vendetta che ha più a che fare con la matematica (se sottrai due tonnellate di terra devi aspettarti due tonnellate di ignoto) che con la casualità.
La tragedia del Messinese altro non ci insegna che devastare di abusivismo una zona ad alto rischio idrogeologico è un crimine grave come ignorare i pericolosi smottamenti che da anni in quell’area hanno messo a grave rischio la popolazione. Eppure ci sono enti, assessorati, funzionari, tecnici stipendiati perché il dramma non accadesse: mi piacerebbe conoscere i nomi dei responsabili e, possibilmente, gli anni di galera che dovranno scontare per la loro criminale negligenza.
Il sistema dell’equilibrio, dell’ultraprudente presunzione di colpevolezza, dell’arte di dividere il capello in otto a seconda della testa dal quale è stato strappato è roba vecchia, inadeguata a una realtà in cui il potere è completamente estraneo alle leggi, una realtà in cui l’unica responsabilità valida è quella di cui ci si spoglia.
La vergogna di Palermo, con tonnellate di immondizia che navigano nelle strade trasformate in fiumi, ha un contrappasso grottesco nei suoi amministratori comunali che, anziché chiedere scusa per il disastro ambientale, aumentano la tassa per il ritiro dei rifiuti.
Cerchiamo di capirci: questi signori non hanno la faccia di bronzo, non hanno proprio la faccia.
Il sindaco Diego Cammarata è uno di cui si parla solo per via delle indecenze di cui si è reso protagonista: la vicenda Ztl, il caso Amia, lo scandalo dello yacht, tanto per citare i più eclatanti. Se non fosse per le sue manchevolezze – “manchevolezze” è un termine frutto di un’autocensura ragionata – nessuno in Italia lo conoscerebbe. Nessuno saprebbe chi amministra da otto anni il quinto centro del Paese, nonostante l’infausto articolo di Panorama in cui nel luglio del 2006 si vaneggiava di Palermo come la città più cool d’Italia. Nessuno si chiederebbe, qui e altrove, chi sta nella stanza dei bottoni di un agglomerato urbano cruciale per il Mediterraneo, chi amministra quasi un milione di abitanti ignari di chi li amministra.
Dov’era ieri il sindaco di una città che affonda nel fango vero e metaforico (il primo pericoloso per la vita, l’altro per la dignità)? Si è sporcato le scarpe per andare nei luoghi della vergogna? Se sì, come ha deciso di rimediare? Ha revocato immediatamente l’aumento della tassa per l’immondizia che annega la città (il naufrago non paga per l’acqua del mare che lo uccide)? E se nulla di questo ha fatto, quando ritiene di andarsene e porre fine in modo dignitoso alla sua insopportabile presenza di amministratore assente?

Aggiornamento. Il Tar ha bocciato l’aumento della Tarsu deliberato nel 2006 dalla giunta comunale di Palermo. Insomma il nostro sindaco e i suoi accoliti si trovano in un pasticcio che potrebbe essere ancora peggio di quello delle Ztl.

Il video è di Giovanni Villino.