Noi siamo Giorgia

Chi è passato per una frana sentimentale più o meno pubblica, chi ha assaggiato la polvere della maldicenza compiaciuta, chi non si è dovuto accontentare del naufragio amoroso ma ha dovuto sorbirsi pure la schiuma della sguaiatezza sa.
Sa quanto ha dovuto masticare acido Giorgia Meloni per le incaute scempiaggini del compagno. Sa che ci sono momenti in cui uno vorrebbe farsi disarcionare da ogni responsabilità e darsi all’oblio di un cielo terso e basta. E invece nuvole, nuvoloni bui.
Nessuno è esente dalla stoltezza e dall’imperizia, proprie e altrui. Per questo, concetti come normale e tradizionale per i sentimenti e i frutti di essi sono fallaci quando vengono branditi come bandiera o manifesto politico.
Perché normali e tradizionali sono anche il tradimento, l’odio, l’arroganza, l’ingratitudine.
Al di là delle indecorose ironie social, spero che finalmente oggi ci sia una Giorgia in più che, soffrendo per un brutto colpo alle spalle, possa sentirsi più donna, più mamma, più tollerante. E che possa ammettere con se stessa che la famiglia migliore è quella che regge alla prova dei fatti. Non conta il tipo di ingredienti (colore, sesso, religione), ma la loro qualità.
Per quel che so l’amore più resistente è fatto di rispetto tra i protagonisti e di tolleranza degli astanti.

Non è un paese per single

A proposito dei single per scelta e dei single per necessità. A proposito delle discriminazioni nei confronti di chi non mette su famiglia e delle consolazioni fasulle per chi decide di sfasciarla. A proposito delle proposte di matrimonio pubbliche e dei due di picche legittimi. Buon ascolto.

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Gery Palazzotto
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Non è un paese per single
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Non porgere l’altra guancia

No, non vi parlerò a tempo scaduto dell’affaire Totti Blasi discettando sulla classe dei protagonisti, sulla valenza della notizia, sul ruolo dei giornali. Mi piace invece entrare nel merito della questione, mettere i piedi nella minestra, provare a discutere del succo di tutta la vicenda: il tradimento, ma tenendo lontani i protagonisti.
Il tradimento è la più antica delle arti belliche, offensive, e il primo motore di arti nobili come la letteratura, il teatro, il cinema, la musica, la danza, la pittura e via componendo. Senza di esso non avremmo Macbeth e Leopardi, Ammaniti e Dante, Mozart e Cremonini, Troia (la città, l’altra è scontata) e Dio.
Non avremmo la prima mela e l’ultima cena.
Tutto questo nella seconda puntata del podcast “Le cazzate sono una cosa seria”.

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Gery Palazzotto
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Era novembre

Novembre è per me un mese particolare. È la porta di accesso all’inverno, la mia stagione preferita. Ma è anche un contenitore di ricorrenze: alcune liete, altre decisamente no. Sulla mia devozione nei confronti della stagione invernale, causa passione sciistica, vi ho già detto troppe volte. Sulle ricorrenze vale la pena di soffermarsi.

Molti anni fa, in uno degli immancabili naufragi della vita, raccolsi il coraggio a due mani e decisi di cambiare tutto. Ma proprio tutto. Lavoro, casa, compagnia, prospettiva. Stavo per dimettermi dal giornale in cui avevo lavorato per vent’anni, ero senza una lira, avevo troncato un sodalizio complicato, e per una indescrivibile convergenza non avevo neanche un tetto sotto cui dormire. Insomma per qualche giorno mi ridussi a passare le notti in auto: scorta di panini, sigarette, birre, ottimismo. Una sera, era domenica, decisi di mettere da parte i miei pregiudizi, feci un compromesso col mio orgoglio e chiesi aiuto. Nel frattempo un paio di cose che avevo scritto si erano fatte strada da sole ed ero riuscito a prendere quota nel mercato editoriale.
Insomma ce la feci grazie a un combinato di affetto (genitori) e fortuna (senza sponsor).
Mi presi tre mesi, nel corso dei quali mi trasferii a casa dei miei genitori tipo sedicenne, e investii tutti i soldi che avevo, e che avrei avuto di lì a qualche anno, in una casa che oggi è la mia tana. Ci misi dentro tutti i miei sogni e le mie follie: porte nascoste, librerie che non sono solo librerie, muri trasparenti, pareti che cambiano colore, una cucina-salotto e tecnologia a go-go. Rinacqui tra quelle mura, ricominciai alla grande su quella lunga scrivania a elle disegnata una notte su tovagliolino di carta di una pizzeria immonda, ripresi quota senza sforzare le ali, perché quando il vento è quello giusto c’è un dio che probabilmente soffia per te e per quello che ti sei meritato. In tre mesi trasformai una casa degli anni sessanta in una casa mia (grazie ai miei).
E il risultato fu talmente entusiasmante che, per favorevoli convergenze astrali, scoprii lo smart working con un discreto anticipo.
Era il 2007.
Era novembre.

Un decennio dopo mi accorsi di una cosa che potrebbe sembrare sgradevole, ma che a pensarci bene può essere fisiologica dato che il vero problema dei viaggi non è l’itinerario, ma la compagnia. Ebbene sì, sbagliai compagnia e me ne accorsi bruscamente. Il dolore fu grande ma a poco a poco fu alleviato dalla certezza di essermi tolto una spina dal piede. Capita.
Quando capii che la spina non faceva più il suo mestiere (anzi non lo aveva mai fatto dato che più che spina era un rovo) perché incolpava il piede di fare il piede, feci i miei calcoli. Rasi al suolo il rovo.
Adieu a quelle spine e a tutti i piedi che le avevano calpestate (cazzi loro).
Era novembre.

Un anno fa se ne andò mio padre. E qui potrei scadere nel legittimamente lacrimevole. Ma dovreste sapere che le lacrime le frequento con discrezione, se non altro perché con l’età che avanza la differenza tra commozione e rimbambimento è impercettibile come un rimbrotto della prostata (cioè dà un minuscolo avviso per un tremendo, possibile, effetto). Pino, o D’Artagnan come si faceva chiamare da queste parti, non era un uomo perfetto. E questo lo faceva diventare il padre perfetto. Era l’inventore dell’invadenza affettiva, il primo motore immobile della fiducia nel futuro, era il migliore compagno di viaggio e il peggiore interlocutore di politica, era un gran buongustaio e un pessimo pessimista, era buono e cazzuto, accogliente e non scontato. Se non gli andavi a genio ti mandava a quel paese, se lo affascinavi con un pensiero o con una lettura ti veniva a cercare a casa. Si spense in una mattina inutilmente assolata, esiliato da una pandemia feroce, nella solitudine che non meritava.

Era novembre.

Elogio dell’ex amico

Ho più ex amici che amici. Probabilmente, anzi certamente per colpa mia. Da questa constatazione – più ex amici per colpa mia – deriva un ragionamento che vi sottopongo.
Tolti di mezzo i motivi di pura invadenza fisica – atti contundenti, passi falsi di cui rimane traccia nel vivere di ogni giorno, azioni qualificabili come reato – c’è una congerie di fattori per così dire ideologici che può causare la fine di un’amicizia. Nella mia esperienza so che quest’ultimi sono spesso quelli che incidono le ferite più gravi e durature.
Paradossalmente l’amico che vi ha offeso, denudato a forza è il primo che sarete disposti a perdonare. Perché il suo misfatto rimane legato a un’epoca, a una frequentazione, a un contesto ben identificato. In poche parole è ben ancorato alla scena del delitto.
Quello che invece vi ha tradito con piccoli colpi di lametta diluiti nel tempo, con la parolina sussurrata dietro le vostre spalle, senza la teatralità (se vogliamo) coraggiosa dell’azione irruenta, merita invece un disprezzo centellinato e infinito.
È l’ex amico perfetto.
Quello a cui dare la colpa quando si buca la ruota sotto la pioggia, quando la crostata appena fatta si è schiantata per terra, quando il mondo vi è crollato addosso schivando l’unica persona che doveva travolgere (cioè lui), quando la vostra uscita di sicurezza si è rivelata una porta che dava su un muro, quando non avendo con chi prendervela sareste disposti a pagare con la cessione del quinto un punching ball umano.
L’ex amico perfetto è al tempo stesso fonte di ispirazione e termine di paragone talmente orrendo da far brillare il piombo come oro. Un catalizzatore di miracoli a sua insaputa, insomma.
C’è un solo sentimento che accende e talvolta riscatta come l’amore. Ed è il suo opposto. L’ex amico vigliacchetto e strisciante è una manna dal cielo quando non si è né santi né ipocriti.
È uno al quale, alla fine, dovrete rendere merito.

La (s)fortuna non esiste

Tempo fa scartabellando tra i miei pensieri e le mie ossessioni d’ispirazione uno psicologo mi spiegò che nella mia scrittura aveva un ruolo fondamentale il senso del tradimento: analizzavamo in prevalenza libri e racconti, ma estendemmo la riflessione anche ad altri scritti. La cosa non mi ha mai sorpreso poiché trattando noir e comunque roba cruenta, il tradimento è un ingrediente semplice da incontrare e maneggiare: basti pensare all’omicidio che è il prodotto ultimo di una filiera di tradimenti. Ma a livello personale, cioè tolto di mezzo l’ingombro professionale e puramente creativo, quest’analisi psicologica mi ha fuorviato per anni. Nel senso che ho usato il senso del tradimento un po’ come strumento, un po’ come alibi.
In realtà le cose stanno in modo molto diverso, basta guardarle in modo più universale. Che poi è il segreto di una felice narrazione giacché a nessuno interessano i cazzi nostri finché non siamo così abili da renderli un concetto valido per tutti: nel mondo ci sono molte persone pronte a raccontare la loro vita e altrettante pronte a fottersene.
Il tradimento esiste, ma la sfortuna (come la fortuna) non esiste.
I due elementi sono collegati da un filo invisibile di coerenza. Basta accettare il principio fondante di un liberalismo delle relazioni: noi siamo colpevoli dei nostri fallimenti.
In base a questa considerazione capite perché la (s)fortuna ha poco gioco.
Ammettere che qualunque cosa di sgradevole ci capiti è comunque colpa nostra è complicato, lo so. Però è più accettabile se il corollario è adeguato. Ad esempio va equiparato a livello di comandamento il diritto di non perdono. Della serie: io ti libero da ogni responsabilità se l’andazzo delle cose ti ha portato a farmi del male (accettabile e nei limiti della legge), ma mi libero dal grottesco obbligo cristiano di porgere l’altra guancia et similia. Poi il sistema va purificato da ogni sorgente mefitica di buonismo: se accettiamo che comunque la nostra responsabilità è scontata, siamo tenuti a tenere a distanza con la canna chi ci vuole imporre sentimenti di ottimismo prestampato.
Insomma, come capite è un tema di sempiterno dibattito. L’importante è, a mio modesto parere, non aver timore o ritegno di parlarne.
Non a caso l’aspetto più fastidioso del tradimento non è l’atto in sé – e ne dico nel senso più ampio possibile, dal sentimento al lavoro, dalla politica ai valori personali – ma l’ipocrisia che alimenta la sua giustificazione. Quando c’è un “sì, però” la porta è aperta verso un giustificazionismo o peggio verso un revisionismo che nulla ha a che fare con la nobiltà dei sentimenti di cui persino l’atto più abietto – quello di infliggere ad altri quello che non vorremmo mai fosse inflitto a noi – fa parte.

Il non perdono e le cicatrici dell’anima

salvatore quasimodoLa decisione del figlio di Salvatore Quasimodo di vendere il premio Nobel del padre per un’antica e irrimediabile offesa affettiva farà storcere il muso a molti. A me invece sembra un’incantevole e poetica vendetta, solidamente giustificata. La vicenda è semplice nel suo banale congegno: invitato alla cerimonia di consegna dei Nobel, Quasimodo non andò a Stoccolma con moglie e figlio ma con un’altra donna (che tra l’altro non fu ammessa in sala e alla cena di gala perché sconosciuta al cerimoniale). Continua a leggere Il non perdono e le cicatrici dell’anima

Testi e testicoli

Nei testi delle canzoni si annidano strani mostri. L’altro giorno, per caso, ho scoperto che mia moglie – lei sta alla musica come il Tavernello al vino, eh – conosce molti pezzi dei Pooh e che, peggio, non sa da che direzione arriva questa folata di cultura musicale. In poche parole, sa a memoria molte canzoni, ma non ricorda di averle mai ascoltate. Una sorta di Poltergeist delle sette note. Ebbene lei, santa donna musicalmente illibata, mi ha fatto notare qualcosa che mi era sempre passata inosservata: la trasversalità dei Pooh in tema di amore coniugale.
E allora, armatevi di pazienza e godetevi i quattro tipi di maschio, tutti molto diversi, che vengono fuori dalle loro canzoni.
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Buon governo e buon costume

Occhio agli anni.

Nel 2006, per i cinquant’anni della moglie, Berlusconi a Marrakech si travestì da corteggiatore berbero e, al culmine di una danza araba tra l’impacciato e il travolgente, donò a Veronica una collana di diamanti.

Nel 2008 Veronica Lario dichiarò: “Da anni leggo notizie che riguardano il mio prossimo divorzio. Per quel che ne so io, non è nei miei piani”. Ieri, riferì il Corriere della sera, c’era anche lei alla grande festa di mezza estate che il Cavaliere ha organizzato per i tre nipotini.

Oggi Sabina Began, in un’intervista a Vanity Fair racconta il suo primo incontro con Silvio Berlusconi: “Fu una notte meravigliosa”. Avvenne il 29 agosto 2005, prima della danza araba, del travestimento da corteggiatore berbero, della collana di diamanti, della festa coi nipotini e di altre innumerevoli minchiate raccontate ai familiari e/o connazionali tutti.

 

Il colpevole perfetto/2

C’è un inaudito accanimento mediatico nei confronti del marito della povera Melania Rea, trovata morta il 20 aprile scorso in un bosco del Teramano.
Salvatore Parolisi, così si chiama il vedovo, è stato eletto come vittima ideale dal Sommo Sistema Accusatorio Parallelo che macina giudizi sommari esclusivamente a favore di telecamera o di taccuino.
Non sono un esperto della vicenda, però per giudicare mi basta astrarmi dalla foga giornalistica e constatare i fatti: questo signore è stato interrogato per ore e ore, vivisezionato nei suoi alibi, com’è giusto che sia. L’altra sera, addirittura, Porta a Porta ha imbastito un’intera puntata sul fatto che questo povero diavolo era rimasto in questura per otto ore di seguito. Chi ha visto la puntata saprà dipingere meglio di me la delusione rabbiosa di Bruno Vespa quando  si è reso conto di aver imboccato la strada sbagliata (almeno per quella sera): la giornalista inviata in loco, davanti al luogo in cui si svolgeva l’interrogatorio di Parolisi, è stata premiata come Vittima Sacrificale del Ventennio (unico precedente illustre, Paolo Brosio davanti al tribunale di Milano negli anni Novanta).
Il resto, almeno fino a ora, è tutto un assemblaggio di nulla: Parolisi interrogato, Parolisi si presenta con un sacchetto di plastica, Parolisi prende il caffé in procura di notte (giuro!), Parolisi non è indagato e resta parte offesa (come se uno al quale hanno ammazzato la moglie usurpasse questo triste status). Il tutto con titoloni su giornali e tg.
E perché tanto accanimento?
Perché c’è un sottotesto borghese e perbenista che andrebbe snocciolato senza ipocrisie.
Salvatore Parolisi è un adultero. E vabbé, direte voi, in questo Paese potrebbe essere quasi un titolo di merito. No.
Parolisi è un adultero debole, perché è vittima di una tragedia, perché appartiene alla oscura provincia italiana e perché il suo caso non può essere leva per nessuna istanza politicamente utile.
E’, insomma, un presunto (molto presunto) colpevole comodo per salire di grado nella scala della colpevolezza collettiva: un criminale plausibile perché fedifrago senza ragion di Stato.
C’è una differenza tra gli scopaioli di rango (o di censo eletto)  e quelli qualunque: i primi, se scoperti, pensano a chi dovranno farla pagare; i secondi pensano a chi gliela farà pagare.