La sindrome della soddisfazione istantanea

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Ci sono due storie, fresche fresche, per spiegare l’evoluzione del concetto di rapporto di socialità che noi spesso, sbagliando, intendiamo limitato al recinto dei social network. La comunicazione con l’altro, intesa come scambio di informazioni ed emozioni, risente giorno dopo giorno degli effetti aberranti di una sindrome che chiameremo della “soddisfazione istantanea”. Insomma è normale sentirsi apprezzati, non lo è aver necessità di esserlo ogni secondo, tramite lo scrolling di una timeline. La prima storia è quella dello spacciatore dello Zen 2 che esulta su TikTok per essere finito ai domiciliari anziché in galera e, preso dalla nota sindrome, si dimentica che anche le forze dell’ordine possono essere tra i suoi spettatori. Finisce che tra tanti like ci scappano le manette. Ecco l’aberrazione: lo scollamento del rapporto causa-effetto è più forte dell’istinto di autoconservazione. Lui sa di fare una cosa che lo danneggerà, non osa per coraggio (su TikTok abbonda tutt’al più l’incoscienza) ma per un godimento rarefatto, un cuoricino di byte, una macchiolina di pixel. L’altra storia è quella del cantante neo-melodico, categoria usata nelle nostre lande spesso (non sempre) per dare un ruolo pseudo-artistico a personaggi borderline, che presta la sua arte a invettive contro i pentiti di mafia e a elogi alla malavita. Qui però l’istinto di autoconservazione resiste, seppur in penombra. Intervistato da Repubblica, il cantore delle gesta di tale “spara spara” (rapinatore) nega di conoscere la mafia perché nato nel 1995: tutti sanno infatti che la mafia era estinta proprio in quegli anni, tipo dinosauri. E soprattutto assicura che potrebbe scrivere una canzone per Falcone e Borsellino, gli manca solo l’ispirazione.
L’arte ha i suoi tempi. Bui.       

La mafia al tempo dei social

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

A Catania il clan degli spacciatori puniva i pusher che sgarravano pestandoli e umiliandoli e poi postava i video su TikTok. A Palermo la sete di vendetta per l’omicidio di Emanuele Burgio, figlio del boss della Vucciria, cresce su Facebook. Sono solo gli ultimi due episodi di una catena infinita di esternazioni e dimostrazioni di forza talmente tracotanti da apparire grotteschi nella loro ingenuità: la violenza esibita urbi et orbi ha un inconveniente non di poco conto, è visibile anche alle forze dell’ordine. Ma non importa. Ciò che conta è mostrarsi, riscuotere la gratificazione istantanea. Esserci nel non-luogo del social network può comportare un allentamento dei freni inibitori e l’abbandono della tradizionale prudenza persino da parte di un sodalizio criminale che proprio sulla prudenza ha costruito un complesso sistema di sicurezza. È vero, la mafia ha sempre cavalcato il clamore di certe sue azioni per intimidire, eliminare il dissenso. Colpirne uno per educarne cento, da Mao alle BR sino a Totò Riina, è stato un metodo che si sostanziava di azioni pubbliche, di ostentazioni violente. Ma lì almeno c’erano una logica ferrea e un filtro verticistico: oggi chiunque abbia un telefonino e un’idea malsana colpisce e “educa” a modo suo.  Perché è cambiata una regola fondamentale che riguarda tutti, criminali e persone perbene: il destino di una teoria, qualunque essa sia, anche la più storta, non è più determinato dalla sua validità, bensì dal contagio che essa riesce a generare. La violenza ostentata in barba alla più elementare forma di prudenza è figlia di quella libertà, anzi “libertà”, vigente nei social che calpesta la norma numero uno della buona creanza: un’opinione è tale solo se esce dall’orifizio giusto.