Ti prendo e ti porto via

Usualmente tendiamo a parlare dell’amore quando ci è sfuggito dalle labbra dell’anima o più semplicemente quando lo abbiamo smarrito per strada. Perché l’amore si perde più facilmente di come si trova: un po’ come la fiducia, che si esaurisce a litri ma si riconquista a gocce. Io stesso da queste parti (e non solo) credo di averne parlato raramente, e quando l’ho fatto è stato per scherzarci su o per trarne qualche piccolo insegnamento. Non certo perché abbia vissuto un’esistenza al riparo dalle delusioni (subite e inferte), né perché l’argomento mi annoi.

Non ne ho parlato perché non ne so parlare.

Però è giusto provare ad affrontare l’argomento perché in fondo siamo davanti al vero mainstream non contestabile, al trend topic che sfida i millenni, all’evergreen dell’umanità.
Nella mia vita ho amato pochissime donne (proprio pochissime!), col resto ho fatto un casino. E ogni volta che è finita, nelle piccole storie come in quelle importanti, il saldo del conto delle mie colpe è sempre stato purtroppo imbarazzante. È un po’ come la fortuna che si dice che non esista: in amore non c’è ingiustizia. C’è tra i due poli opposti una differenza di lungimiranza, di altruismo, di onestà. Forse è una questione di chimica, se vogliamo chiamare chimica l’egoismo.  Di fatto, per quello che ho capito, l’amore è il più forte elastico sentimentale dell’universo: più lo tendi, più lo stressi, più ti si ritorcerà contro.
Ho capito anche un’altra cosa, ma la metto molto a margine: che se sei maschio, adulto e parli d’amore in termini non vittoriosi o celebrativi, o sei uno sfigato o sei Fabio Volo (con un’insidiosa variante Marzullo).
Ma insomma, rischiamo.

Nel suo capolavoro “Ti prendo e ti porto via”, Niccolò Ammaniti intreccia due tormentate storie d’amore: quella tra un balordo playboy con una professoressa solitaria, e quella tra un ragazzino figlio di un pastore psicopatico con una ragazzina figlia di un direttore di banca. Quel che ho spiato del sentimento scritto attiene molto alla narrazione di questo romanzo che vi consiglio di leggere (io bagno gli occhiali ogni volta che lo rileggo, manco fossi un vecchio onanista dell’ “Ultima neve di primavera”). Perché nel finale – proprio nella lettera che chiude il libro – c’è un insegnamento profondo sull’amore. Arriva dal giovane protagonista che è finito in carcere per un omicidio grottesco e che scrive alla sua mancata fidanzata, sposa, amante. La ragazzina per la quale era disposto a tutto in quella “lunga ferita che è la giovinezza”. Lui ormai ha un’esistenza rovinata pur non essendo un ragazzo cattivo. Lei bella, risolta e ormai lontana ha tutta una vita davanti. Eppure, nonostante siano passati anni e pensieri (più pesanti i secondi), lui chiude la lettera con una speranza che lo illumina di una vana certezza: “Preparati, perché quando passo da Bologna ti prendo e ti porto via”.

Siamo fatti di aria e mare, di terra e fumo, ma ci spegniamo in un lampo.
E non conta la quadratura del cerchio, ma il bagliore, l’illusione di poter essere criceti senza ruota, liberi in quello spazio che pare un mondo e invece è comunque una gabbietta.
Questo ho orecchiato dell’amore, cioè di quella cosa di cui non so parlare.

Che è un’alba inaspettata.
Che ti rende libero anche chiuso in una stanza.
Che è ingiusto, altrimenti sarebbe aritmetica.
Che non dipende dall’altro anche quando dipende dall’altro.
Che è battaglia, guerra, armistizio e raramente pace.
Che è tutto in una frase: “Preparati, ti prendo e ti porto via”.