Fiabe da narrar

Non me lo aspettavo, ma ho ricevuto molti messaggi per il podcast su Libero Grassi, un podcast nato incidentalmente per via di una congerie di incolpevoli mediocrità (era un testo che doveva essere altro e che per fortuna altro non è stato). Mi ha sorpreso la dovizia di particolari con cui le persone mi hanno scritto personalmente, argomentando la loro sfiducia nel presente, appigliandosi al dono della memoria, ripromettendosi di fare qualcosa per il futuro.
E ringrazio tutti: lo sto facendo personalmente e privatamente perché credo che sia dovere di chi scrive, scrivere anche senza il dovere di farlo.  

Il punto è un altro.

C’è una fame forte e crescente di storie. Che è una fame letteraria, artistica e sociale. Ogni volta che mi capita di raccontare in pubblico vengo travolto da questa esigenza (quando lo faccio qui è normale avere feedback ma spesso è solo illusione, c’è gente che mette like senza manco leggere due righe): e capisco che non è una cosa che riguarda nello specifico me come narratore, ma è una necessità generalizzata.
Quando il mondo si complica, la narrazione soccorre. E non è semplificazione, ma rassicurazione.

I migliori momenti della mia vita sono stati quelli in cui qualcuno mi prendeva da parte e attaccava: “C’era una volta…”. Perché il “c’era una volta” è la scialuppa del naufrago nel mare dell’insonnia, l’abbraccio dell’orfano degli affetti più immediati, la consolazione dell’esausto, il riscatto dell’umiliato, ma anche la gioia del primo della classe, la celebrazione del vincitore, l’occhio lungo del creativo.
Non c’è mai un momento sbagliato per raccontare una storia, figuriamoci ascoltarla.

Le persone peggiori che ho incontrato – e che incontro – vivono solo della loro narrazione, concentrate sulla bidimensionalità di una vita che sembra appassionante ma che invece è un film scialbo di una pellicola vecchia e noiosa.
Le persone migliori invece stanno lì tra la loro strada e quella di chiunque la incroci per raccogliere testimonianze, per incuriosirsi, per raggranellare il tempo che serve a inseguire la migliore storia della loro vita: quella che ancora non hanno ascoltato.

Le “fiabe da narrar” sono un modo di dare fiducia e al contempo di riscuoterla.

Ego

Prima scrivevano: giornalista. Poi: giornalista e scrittore. Poi: ghost-writer. Poi: blogger. Poi: giornalista e blogger.
Chi fa il mio mestiere, anche se un po’ indefinito (sono un po’ di tutto, e non ben amalgamato), ha il terrore di rispondere alla domanda: che lavoro fai?
Perché, quando si tratta di questioni personali, è complicato conciliare l’egocentrismo di chi campa scrivendo con l’attendibilità: si rischia sempre di sbagliare, per difetto o per eccesso.
Mi sono chiesto quale sarebbe la definizione di me che più mi piacerebbe. E l’ho trovata: raccontatore di storie (vere o presunte). Però non avrei mai il coraggio di comunicarla all’impiegato dell’anagrafe, anche perché non sta in nessun elenco.
Quindi va bene: giornalista. Oppure: giornalista e scrittore. Blogger e ghost-writer, no: niente parole straniere sulla carta d’identità.

P.S.
Sulla questione delle parole straniere ricordatemi di raccontarvi una cosa…