La fame di futuro

Il grande programmatore Alan Kay era solito dire che “il modo migliore di prevedere il futuro è inventarselo”. Solo che lo diceva negli anni Settanta quando c’era davvero fame di futuro. Oggi, con un presente di precariato collettivo e un passato di punti interrogativi, il vero problema è questo: se al futuro non ci crede più nessuno, chi dovrebbe mai investirci?
Il lato positivo della monumentale biografia di Steve Jobs, firmata da Walter Isaacson, che sto leggendo solo adesso (mi piace diluire il tempo quando sono davanti a fenomeni di massa) è farti vivere il clima di allucinata speranza nel futuro che si respirava fino a venticinque anni fa. Quello negativo consiste nel tramortirti di nostalgia.

Jobs

Grazie a Federico Giglio.

Non ci sono più i morti di una volta

Non esistono più le grandi scomparse di una volta, quelle morti che facevano un buco nella storia.
Fate una prova, elencate gli scrittori, i musicisti, i cantanti, i pittori che non ci sono più e cercate di misurare il grado di mancanza che sono riusciti a generare con la loro dipartita.
Oggi mi pare che tutto sia diverso. Dico mi pare perché è ovvio che siamo in un ambito in cui vige la dittatura della soggettività.
Di fatto, per quel che è la mia percezione, Steve Jobs se n’è andato qualche giorno fa e, a parte qualche fiore davanti a un Apple store, il dibattito è tutto sulla sua eredità tecnologico-sociale e sulle colpe degli iPhone addicted. Due anni fa è morto Michael Jackson e se ne parla ancora solo perché c’è un mistero sulla sua fine. La scorsa settimana hanno dato il Nobel per la medicina a uno che era morto tre giorni prima.
Storie diverse, ovviamente. Ma con un sottotesto comune. La ferita si rimargina presto, come per effetto di una polvere miracolosa.
Quando mori Jimi Hendrix, la sua Fender “mancina” divenne un simbolo del rock. Leonardo Sciascia è ancora un autore da bestseller. La grandiosità di Antoni Gaudì non è stata offuscata dalla sua fine grottescamente misera.
Insomma il personaggio oggi non vive più nel mito delle sue opere, ma al contrario sono le sue opere a seppellirlo.

Senza istruzioni

Ogni giornale, televisione, radio, sito internet del mondo sta, in questo momento, lodando il genio e le invenzioni di Steve Jobs. Spero che qualcuno lo ricordi anche per ciò che lui ha abolito: il libretto delle istruzioni.

Duri a morire

Ok, Steve Jobs è il guru telematico di questi tempi. Le sue creazioni hanno condizionato stili e comportamenti: si pensi alla rivoluzione dell’iPad.
Eppure il sistema operativo più diffuso rimane un altro.

iPac

Grazie a Giacomo Cacciatore.

Un libro non è un telefono

Sono ipersensibile davanti a qualunque innovazione tecnologica che abbia tasti e schermo (a eccezione dei telefonini touch screen che confliggono con le mie zampe da orso).  Se potessi, comprerei quote della Apple solo per il gusto di collaudare prototipi e riempire casa mia di arnesi modernissimi, per farne che non so (del resto il vizio – perché di vizio si tratta – non si alimenta di vantaggi, ma solo di controindicazioni).
Eppure la presentazione dell’iPad mi lascia insoddisfatto per una serie di motivi.
Primo. La tecnologia avanzata per molti di noi snob quasi cinquantenni non è show, bensì élite. Le coreografie e i megascreen vanno bene per le convention del Pdl, non per l’ultimo parto artificiale dell’intelligenza naturale.
Secondo. Se un telefono serve anche per leggere libri e giornali, evidentemente ci sono problemi di dimensioni: i libri non sono fatti per infilarsi nel taschino della giacca e i cellulari non devono essere tenuti necessariamente con due mani.
Terzo. In Italia si dice: “Fare le nozze coi fichi secchi”. Cioè, senza i mezzi necessari non si va da nessuna parte. La Apple si muove, con molte buone ragioni,  in un’ottica anglofona che non tiene conto della realtà del nostro Paese dove è quasi impossibile trovare contenuti di qualità, ben assortiti e soprattutto tricolori, per un lettore multimediale come l’iPad. Corriere e Repubblica si stanno muovendo, ma l’immensa realtà delle aziende editoriali locali (che condiziona in modo determinante l’audience) è ancora guidata da direttori col telefono a disco e il televideo fisso a pagina 101.
Quarto. I costi sono elevati. A parte lo strumento (prezzo minimo 499 dollari per la versione base), resta l’incognita delle connessioni telefoniche legate ai singoli gestori. Il che, con i chiari di luna che ci sono dalle nostre parti, significa che per farsi un arnese del genere bisogna ricorrere alla cessione del quinto dello stipendio.
Insomma sono tentato comunque di lanciarmi nell’acquisto (le famose controindicazioni del vizio…), ma aspetterò. Perché in fondo la debolezza nei confronti della tecnologia non è indice univoco di imprudenza.