Grandi Ispiratori

C’è una lista immaginaria di Grandi Ispiratori che, negli anni, mi sono ripromesso di compilare e che per pigrizia non ho mai iniziato a scrivere.
Lo faccio adesso con la consapevolezza che è comunque una lista parziale, dato che spero di non morire al clic di invio di questo post (anche se non sottovaluto l’influsso di certi miei detrattori…).
I Grandi Ispiratori sono scrittori, artisti, sportivi, esploratori, liberi pensatori, persone qualunque che hanno condizionato il mio modo di pensare, di scrivere, di agire. Sono quelli le cui gesta in qualche modo hanno un riflesso nel mio vivere quotidiano: il mio giudizio è assolutamente soggettivo, cioé non è legato a un’etica o a un riverbero sociale del personaggio in questione. Per questo ci troverete dentro nomi di ogni genere e assortimento.
È la mia lista e un giorno, forse non lontano, vi svelerò i dettagli che mi legano a ciascuno di loro (alcuni dei quali sorprendono ancora persino me).

Donald Fagen
Stephen King
Gino Vannelli
Phil Collins
Sheila E.
Manolo
Toni Valeruz
Prince
Clare H. Torry
Nick Hornby
Ernest Shackleton
Moana Pozzi
Salvo Licata
Wassily Kandinsky
Italo Calvino
Claudio Magris
Roger “Verbal” Kint
Oriana Fallaci
Graham Vick
Pat Metheny
Donna Summer
Filippo Carollo
Peppino Sottile
Guido e Maurizio De Angelis
Niccolò Ammaniti
Maria Cefalù
Stanley Kubrick
Olivia Newton John

Libido social a picco

In un Cammino ci sono tappe faticose per la distanza e tappe faticose per il panorama. Gran parte della Francigena che scorre nella pianura Padana si barcamena tra questi due ambiti. Perché risaie e canali fluviali sono belli, ma il sole di agosto sta lì ad aspettarti passo dopo passo, chilometro dopo chilometro. E quando i chilometri sono venti, trenta e passa ti devi inventare qualcosa.
Da buon doc che fa bene i compiti io arrivo allenato: non solo per i muscoli, ma soprattutto per le temperature e lo stato mentale. Almeno quattro mesi prima di un cammino, in quanto ex maratoneta, comincio a mettere nelle gambe chilometri e clima, situazioni mentali e bagaglio sulle spalle. Come un maniaco mi alleno con uno zaino di almeno quattro chili (quello reale sarà intorno agli 11 chili) e soprattutto coi pensieri giusti. Perché la strategia vincente è tutta nei pensieri.
È una teoria che mi è capitato di illustrare più volte in dibattiti e interviste sul tema e che, per non annoiarvi, riassumo così: una missione in solitaria ha il vantaggio imperdibile che ti consente di indossare un pensiero ogni mattina, senza che nessuno ti possa imporre/consigliare di cambiare mood. Insomma, finalmente ti dedichi a una cosa tua, solo tua con la ragionevole certezza che se qualcuno ti romperà i coglioni sarà solo colpa tua.

La tappa di oggi era tra quelle da me più temute, perché ho scelto di fare una deviazione fuori dalla via ufficiale – la Francigena ha tappe impensabili dal punto di vista dell’ospitalità, con un grave sospetto di combine commerciale – e perché questo colpo di testa, lo sapevo, lo avrei pagato a caro prezzo: strada assolata, asfaltata, in certi tratti non proprio tranquilla.
Quindi il pensiero da indossare era fondamentale: scudo, ombrello, alibi.
La fortuna – e i consigli possono essere forme di fortuna – mi ha portato a “Quattro dopo mezzanotte” di Stephen King che, incredibilmente, non avevo ancora letto. Un librone di 800 pagine che per un camminatore con uno zaino per casa è un impegno non da poco. Va detto che da decenni King è il compagno eletto delle mie missioni in solitaria, dalle Alpi alle isole del Mediterraneo, da Capo Nord all’estremo ovest dell’Europa.

Stamattina il primo racconto del tomo di cui sopra mi ha dato lo spunto per il pensiero giusto. Che può essere scomodo sennò che gusto c’è a risolverlo? Le brodaglie si gustano comodamente. Quando la situazione è cazzuta ci vuole cibo giusto per la mente.
Perversioni a parte, che sono ovviamente fuori quota in questa trattazione, l’idea instillata dal Sommo nel suo primo racconto “I langolieri” è affascinante per chi fa qualcosa di non necessariamente allineato: e se ci fosse un interruttore del mondo che conosciamo? La possibilità che ci sia una fine della realtà e che il suo confine sia una non-realtà è cibo sopraffino per le teste indipendenti, cioè per quelle che non si impantanano nelle (legittime) questioni legate a chi resta, a chi deve essere campato, ad affetti più o meno sopportati.
Il camminatore solitario può avere in tal senso una marcia in più. Perché se anche il mondo finisse in quel momento non avrebbe altro che il suo zaino da stringere e difendere. Il resto si vede, e se non si vede vuol dire che non c’è.

Proprio stasera alcune persone mi hanno scritto chiedendomi consigli su questo genere di missioni. Ho risposto a tutte quante con lo stesso ammonimento: stabilisci cosa vuoi, non cosa cerchi. Camminare a lungo per fuggire non è, secondo me, un buon rimedio. Perché quando ti fermi, poi, i tuoi pensieri, o quelli che ti inseguono, ti raggiungono. Camminare per se stessi, con libertà assoluta di cambiare le proprie prospettive è altra cosa, eccitante e comunque formativa.

Ora chiudo. Con la consapevolezza che se si parla di libri, l’audience cala vertiginosamente.
Esempio. Stasera ho messo sui miei social una foto del libro che stavo leggendo a cena al ristorante (anziché stare attaccato allo smartphone come il 99,9 per cento degli astanti). Ebbene: è in assoluto il post meno letto nella minima storia delle mie condivisioni virtuali.
Come diceva quel tale: compagni, contiamoci.

3-continua

Le altre puntate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

La luce nel tunnel

Ero tentato di dirvi di questa distanza umana che cresce e ferisce, di questo paradosso di allontanamenti forzati in epoca di iperconnessioni a oltranza. Avrei voluto dipanare le mie perplessità sulle analisi sociologiche che ci vedono puniti più di altri popoli dal Coronavirus perché più affettuosi e socievoli, in un paradosso di castigo senza delitto che sembra uscito dalla penna di uno scrittore lisergico. Mi sarei divertito a raccontare le mille fortune in cattività di un uomo che in cattività ci sa vivere per indole poiché cucina, pulisce e si dà da fare con discreta disinvoltura sin da quando non era in cattività.
E invece sono qui a scrivervi di suggerimenti per un sereno intrattenimento obbligato (quasi un ossimoro).

Due libri tra i tanti. L’immancabile Stephen King (ho anticipato qualcosa sui social) con L’istituto, una storia di bambini, di telepatia (chi ricorda le famose luccicanze di Shining?) e di ammaliante pathos: non è il suo miglior romanzo, ma è un bel parco giochi in cui immergersi. L’ho letto in un paio di giorni di full immersion e ne è valsa la pena.
L’altro è un libro che ho appena iniziato e che ha un buon aroma. È Nero come la notte di Tullio Avoledo, autore che ho amato per il suo Elenco telefonico di Atlantide. Il romanzo ha un inizio fulminante e io sono un lettore/spettatore molto sensibile agli inizi. Sarà per vocazione giornalistica (l’attacco di un pezzo è un momento fondamentale nella fenomenologia della cattura del lettore), sarà per l’indole impaziente che fa di me un bulimico dell’emozione. Insomma, è un consiglio in fiducia…

E siamo alle serie tv. A parte il classico Stranger Things, una delle cose migliori su piccolo schermo degli ultimi decenni, segnalo The man in the high castle che è una geniale divagazione sul tema “e se la Seconda guerra mondiale l’avesse vinta chi l’ha persa?”.  Inoltre per dovere di passione per il già citato Stephen King, credo che valga la pena di cedere alla tentazione di abbandonarsi alle dieci puntate di The Outsider, che mi hanno riconciliato col sovrannaturale. Ma soprattutto, dato il rincorrersi di rinvii e di decreti che ci rinchiudono a casa, questo è il momento di concedersi una serie di grandissima scrittura come Hunters, un thriller in stile tarantiniano con ritmo e sorpresona finale come non se ne vedevano da anni. Hunters è una rilettura con sublime licenza creativa della caccia ai nazisti dopo la Seconda Guerra mondiale. Un argomento che torna nella mia playlist e che, se volete, potete approfondire nel migliore documentario sul tema, Grandi eventi della Seconda guerra mondiale a colori.  
Comunque sia, godete di conoscenza e di fantasia. L’unico virus che non ci deve abbattere è quello che mette a tappeto la nostra curiosità.                        

Cose da portare in un eremo

Rivellino
Foto di Daniela Groppuso

Siccome – come sta scritto nella breve bio di questa homepage – il sottoscritto ogni tanto scrive un libro, ho l’impellenza di arrivare alla parola fine di un benedetto manoscritto che da qualche tempo occupa uno spazio sempre più ampio nel mio settore sensi di colpa. La storia è ben incardinata, mancano soltanto le pagine necessarie per chiuderla felicemente e consegnarla all’editore.
Insomma mi servirebbe un mese, un mese solo, di eremitaggio per fare il mio sporco lavoro. Se avessi tempo e soldi mi ritirerei in un’isoletta, o in una casetta di montagna, in un posto comunque lontano dalle distrazioni della città.
E, a parte i generi di prima necessità e il computer per scrivere, porterei con me le seguenti cose:

Il caricabatterie del telefonino per ricordarmi che il telefonino l’ho lasciato a casa ed è inutile cercarlo.
Una bottiglia di Sassicaia del 2006.
La fotografia in cui, giovane e coi capelli lunghi, mi arrampico sulla “Diretta” di Monte Pellegrino.
Il dizionario della lingua italiana (nell’eremo non c’è internet).
Un paio di romanzoni scacciapensieri alla Ken Follet o alla Stephen King da farmi leggere la sera da mia moglie (nell’eremo non c’è televisore).
L’orologio di mio nonno Gerlando.
La ricetta della pasta coi broccoli di mia madre.
L’iPod ben carico.
Le scarpe da running.
Un coltello Eliss, perché in cucina non si affetta con coltelli qualunque.
La meravigliosa maglietta verde di cotone sdrucito che rubai a mio fratello diciannove anni fa.
Due cuscini alti.
Il plaid rosso che ci ha regalato Mara.
Due dei bicchieri Riedel che ci ha regalato Antonella.
Il Timex che mi ha accompagnato in mille avventure.
Lo zaino lurido che di quelle mille avventure porta i segni.
Il biglietto di ritorno.

King, the King

Ho finito di leggere l’ultimo romanzo di Stephen King, “22/11/63”, e l’ho subito regalato a un amico. E non perché volessi disfarmi del tomo, ma perché volevo condividere subito con lui la gioia di questa lettura.
L’opera mi è piaciuta molto, nonostante la traduzione non indimenticabile di Wu Ming 1.
Queste poche righe non sono una recensione, ma un invito: se cercate una storia appassionante, con personaggi credibili, se volete un film da leggere, questo è il libro che fa per voi.

Un libro in due

Non so se vi è mai capitato di leggere un libro in due, nel senso che uno legge ad alta voce e l’altro ascolta. Ecco, io adoro questa pratica specialmente se sono nei panni dell’altro, quello che scrocca il racconto.
Un romanzo perfetto da (farsi) leggere è, ad esempio, l’ultimo di Stephen King, 22/11/’63. Dopo le prime cinque pagine vi sentirete dentro un film e dopo le prime dieci chiederete i pop corn. Occhio però, la strada è lunga oltre ottocento pagine: quindi la lettrice o il lettore sceglietevelo di buona tempra.

L’impero di King

Stephen King chiede ai suoi lettori di mandargli foto di luoghi o cose particolarmente interessanti, corredate da didascalie. Motivo? Costruire quello che lui chiama “il mio impero”. Chissà cosa avrà in mente.