Chi ha ucciso i giornali

I giornali muoiono per due motivi. Perché sono troppo vecchi o perché vogliono essere troppo nuovi. Sulla prima causa di morte si è detto molto e da tempo. Aziende editoriali che non riescono a tenere il passo con i cambiamenti economici, sociali e politici generano prodotti che per selezione naturale devono finire fuori dal mercato, o al limite estinguersi coi loro ultimi lettori anagraficamente compatibili.
Molto più interessante e meno approfondita è l’altra causa di morte, quella – definiamola così – per eccesso di modernità.
Una metafora balzana ma seducente per tutti noi che scriviamo sui giornali col privilegio di poter dire “secondo me” è quella del club privato: nessuno aspira al pubblico da stadio, ma è ammaliante immaginare di avere un gruppo di lettori affezionati che, come in un consesso a metà tra il jazz club e la riunione carbonara, riflette sulle idee che faticosamente abbiamo cercato di diffondere attraverso il giornale. Per questo cerchiamo punti di vista non omologati, spesso stravaganti, sui fatti della vita: perché sappiamo che i lettori non sono tutti uguali e che se rompiamo le scatole a un potente o spettiniamo una versione di comodo o ancora suscitiamo una discussione urente (magari in famiglia, a cena, distogliendovi dall’ipnosi della tv), abbiamo realizzato il nostro engagement. Ma tutto questo cozza contro l’engagement ufficiale, quello misurato come in una sacra cerimonia, dal dio algoritmo (di cui abbiamo parlato più volte da queste parti, ma in particolare qui). Nei giornali che vogliono essere troppo nuovi le decisioni editoriali sono guidate da statistiche che, analizzando ciò che genera più traffico, decretano la morte dell’idea originale, del guizzo, della bracciata controcorrente. In un paradosso (di cui pagheremo prima o poi le conseguenze) gli algoritmi non riflettono solo le tendenze, ma addirittura le creano incrementando la popolarità di temi già popolari e determinando una polarizzazione dei lettori che non riflette gli equilibri reali. Per dirla con Russel Smith che in un articolo sulla rivista canadese The Walrus, ha raccontato come la sua attività di corsivista sui giornali canadesi è stata stroncata dopo vent’anni da questo meccanismo perverso, “se a nessuno viene mai spiegato che la musica elettronica o l’architettura postmoderna sono argomenti importanti, è molto difficile che qualcuno li tratti come tali”. La verità è una sola: il ruolo del giornale come arbitro si sta perdendo. Continua Smith: “Se i dati dicono che gli argomenti provinciali sono i più rilevanti, anche il giornale diventerà provinciale”. Insomma cercando di essere più grandi, si rischia di diventare più piccoli.
Il bello, o meglio il brutto, è che colpevolmente quasi nessuno nelle aziende editoriali italiane (e non) è mai stato colpito dall’idea che bisogna cambiare radicalmente il modo di lavorare, di scegliere le notizie, persino di reclutare giornalisti. Ma questo è un problema di conoscenza e di coraggio. E il coraggio viene dopo.  
Ne riparliamo presto, promesso.

Pluralismo dell’informazione

Invecchiare

Mi sono reso conto di essere invecchiato l’altro giorno quando, dopo anni di meraviglioso isolamento, sono andato a una affollatissima conferenza stampa (quella di Leoluca Orlando). In mezzo a centinaia di giornalisti e/o reggitori di microfono non ho riconosciuto che pochi colleghi coi quali, quasi con spirito di autodifesa, ho cercato di fare gruppo.
Quasi subito uno dei giovani cronisti d’assalto ha preso la parola e ha fatto la seguente domanda a Orlando: “Qual è il suo programma?”.
Chiedere a un candidato sindaco qual è il programma equivale ad annullare la conferenza stampa, perché quello comincerà a parlare e non la finirà più. E così è stato: Orlando ha detto di tutto e di più, impiegando in modo sapiente il poco tempo che c’era a disposizione. E non rispondendo alle domande vere, quelle rimaste nella testa di molti intervistatori.
Ecco, quando penso a giornalisti come l’autore della domanda di cui sopra (che non ha ancora capito l’errore commesso perché evidentemente nessuno gli ha mai spiegato l’abc del mestiere) mi rendo conto di essere invecchiato. Felicemente.

…Ssst!

Questo blog non è una testata giornalistica, ma io sono un giornalista.

Salvate Silvio

Non mi indigno per il Berlusconi che cita Mussolini, ma per il Berlusconi che – dal medesimo pulpito – afferma di non aver potere come presidente del consiglio. E non mi indigno per la sua ennesima menzogna, ma per la sottovalutazione generale della sua capacità di intendere e di volere. Del resto uno che dice che in Italia c’è fin troppa libertà di stampa non va fischiato, ma curato.

Cos’è? Un agguato?

La nuova campagna della Federazione Italiana Editori Giornali da oggi sui principali quotidiani italiani.

Partito dell’odio, ex ante

Volevo scrivere un post sulla libertà d’espressione, sull’articolo 21 della Costituzione, sulla censura, sulla democrazia minacciata, sulla mania di grandezza degli uomini che grandi non saranno mai, sulla freschezza della cultura, sulla vetustà dei diktat, sui telefoni dei potenti, sui telecomandi dei comuni mortali, sull’importanza della storia, sulla vacuità delle promesse spacciate per futuro certo, sulla tv di Bernabei, sul canone, sulle canaglie, sui cani da guardia, su chi dice e ripete “ex ante”, sulla noia del partito d’opposizione, sull’aridità desertica delle idee imposte dall’alto, sulla banda larga, sulla Banda Bassotti, sulla bandana, su Bondi, sulla codardia degli intellettuali, sulla narcolessia di Napolitano, sulla differenza tra una prostituta e un giornalista, sull’improvvisa utilità dell’Assostampa, su Danilo Dolci, sul modello Cina per internet e non solo, su chi critica e non si sbraccia, su chi si sbraccia e non può criticare, sulla Rai, su Raiperunanotte…
Però poi ho letto questa frase di Antonio Gramsci e ho capito qual è il vero “partito dell’odio” al quale bisogna iscriversi.

Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.

Grazie a Mara Marino.

L’arte della querela

Due premesse.
1)    Il post è un po’ più lungo del solito, nonostante io sia un sostenitore della rapidità calviniana, perchè l’argomento non è semplicissimo e, non a caso, ha bisogno di premesse.
2)    Conosco le due persone che sono citate di seguito. Emanuele Lauria è un collega e un amico da decenni. Massimo Russo è una persona che stimo a tal punto da avergli affidato la presentazione di un paio dei miei libri.

Parto dal caso siciliano più recente di contrasto tra giornalista e amministratore pubblico per entrare nell’argomento. Emanuele Lauria de la Repubblica conduce un’inchiesta sulla sanità isolana e inevitabilmente si trova davanti al nodo delle cliniche private. Nell’asciuttezza di uno stile a prova di contro-verifica, Lauria dimostra gli interessi neanche occulti di numerosi esponenti politici regionali nei confronti della sanità privata. La sua tesi è questa: poiché molti papaveri della Regione hanno un ruolo dimostrato, manifesto e legittimo nella gestione di case di cura e holding connesse, è lecito sospettare che il governo di Raffaele Lombardo non si sia affannato per applicare appieno la riforma.
Non è una tesi peregrina, né infamante. I giornalisti, a parte il gruppo dominante delle “aste da microfono”, esistono (o sopravvivono) anche per fare domande e per porgere bandoli di matasse intricate.
La risposta di Massimo Russo, magistrato di valore, oggi assessore regionale alla Sanità è dura: “È ora di dire basta a un’informazione non corretta”, scrive in un comunicato di fuoco. E annuncia di voler chiedere all’Avvocatura dello Stato di valutare eventuali azioni legali nei confronti del giornalista e del quotidiano. A mio parere Russo può soltanto contestare il titolo de la Repubblica (“Tagli al pubblico, favori alle cliniche: così la riforma premia la sanità privata”), assolutamente sbilanciato e quindi poco prudente. Però, tenendo conto che lui ha avuto e avrà diritto di replica, mi pare precipitoso puntare al deretano del cronista (che, se vogliamo, al contrario del titolista è stato prudente e tutto sommato equilibrato).

Il lungo antefatto è servito per dare un aggancio di cronaca a un pensiero che mi frulla in testa da tempo.
Provo a sublimarlo in una frase da bignamino: il giornalismo d’inchiesta fa bene anche alle controparti oneste. Ergo, l’incazzatura per un velo alzato su una zona nevralgica dell’azione politica oltre a provocare una reazione urente deve, a mente serena, suggerire nuove vie d’azione. Del resto soggetto e oggetto dell’inchiesta, cioè i due opposti, se entrambi in buona fede sono accomunati da un fine comune: trovare la maniera per fregare i ladroni.
Invece, per mere ragioni di inutile principio, è invalsa da tempo la consuetudine di usare la querela per mettere punti al posto delle virgole, per trovare ragioni a buon mercato. L’uso, o meglio l’abuso della querela per diffamazione (anche il sottoscritto, con questo blog, ne è vittima: ma ne parleremo presto in modo spietatamente approfondito) è diventato perlopiù un metodo di attacco preventivo: io ti querelo non per quel che hai scritto/detto, ma per scoraggiarti dal farlo ulteriormente.
E quando questa pratica – senza alcun riferimento al caso Russo-Lauria – viene posta in atto da parte di un politico, lo scenario diventa inquietante. Quanto costa un’azione legale a un parlamentare? Quanto tempo impiegherà a documentarsi? Quanta fatica dovrà sopportare per imbastire una causa degna?
La risposta è: zero. Come tutti sanno un deputato ha mezzi e uomini a disposizione, pagati dalla collettività, per fare e disfare a proprio piacimento.
E sull’altro fronte cosa accade? Più che la paura di una condanna, dato che uno sa se ha scritto una minchiata o no, è lo spettro di lungaggini personali e burocratiche a incombere sulla coscienza del giornalista. Avvocati, direttori incazzati, carabinieri o polizia, editori, pubblici ministeri, giudici… perché mai uno dovrebbe prenotarsi un posto in prima fila nel teatro delle rotture di scatole? Meglio volgere lo sguardo verso altro e campare tranquilli.
Così si ammazzano i superstiti di un giornalismo quantomeno dignitoso.
Non eroi, non paladini: onesti lavoratori che cercano, trovano e raccontano.

Carta vecchia

La crisi dei giornali non è iniziata quest’anno e nemmeno quello precedente. La crisi di vendita e degli introiti pubblicitari va avanti da un decennio abbondante. Solo negli ultimi anni la si collega all’espansione di internet. In realtà il web ha bucato l’aorta della carta stampata da prima, diciamo dal 2000. Da quando cioè, drogati dall’illusione di trasformare i soldi virtuali in ricchezze reali, gli editori hanno investito nella Rete senza uno straccio di progetto: la loro idea, insulsa, era quella di trasferire metodi e regole dal cartaceo al digitale. Un po’ come pretendere che la vecchia caffettiera facesse all’improvviso cornetto e cappuccino.
E’ finita malissimo, ovviamente.
Oggi, anche a detta degli stessi addetti ai lavori, i giornali sono vecchi ancor prima di andare in stampa. E non solo per la famosa circolazione vorticosa delle notizie, ma per il menu e la scelta degli argomenti. La suddivisione in esteri, interni, politica, cronaca, spettacoli, sport, eccetera, non soddisfa più un lettore che non sente la necessità di essere alimentato a forza di news (perché è la notizia che lo insegue ancor prima di concretizzarsi). L’informazione necessita di altre categorie: geografiche, sociali, culturali.
Un direttore di giornale dovrebbe chiedere ai suoi capiredattori: cosa diamo oggi ai nostri lettori del nord? E a quelli del sud? Cosa proponiamo alle casalinghe? E ai precari? Quale artista scopriamo? Qual è lo sconosciuto di cui tutti dovrebbero sapere?
Si tratta, come capite, di rubare il mestiere a molti blogger e di armarsi dell’umiltà che serve per affermare serenamente: abbiamo troppi catorci che affollano le redazioni e abbiamo capito la differenza che passa tra un giornalista vecchio e un vecchio giornalista.
Non lo faranno mai.