Obama, Renzi e la stele dell’ignoranza

Obama e Renzi

Guardando la diretta Facebook della conferenza stampa congiunta di Barak Obama e Matteo Renzi mi ha colpito un dettaglio ormai non più secondario: i commenti degli utenti italiani. Tutto un miscuglio di schifezze, di offese a raffica, di qualunquismo becero. La frase più ricorrente, piena di una violenza subliminale, strisciante come quella dettata dalla non conoscenza, è: tornatene a casa che abbiamo problemi più gravi.
Non funziona così. Non funziona così da nessuna parte del mondo civilizzato. A parte quel briciolo di orgoglio nazionale che dovrebbe accompagnare il capo di un governo, un governo qualsiasi purché sia vagamente democratico, nelle sue missioni diplomatiche, c’è una ragione molto più valida per ritenere gli attacchi a raffica all’istituzione (badate, non parlo di Renzi come persona) un esempio di somma inciviltà: il criterio della rappresentatività.
Si può essere d’accordo o no con un governo, si può aver votato o no la parte politica che decide le nostre sorti, ma non si può dileggiare un’istituzione nel momento in cui fa l’istituzione. Persino con Berlusconi, che era un impresentabile guascone, l’asticella dell’odio gratuito era più alta. Con Renzi, nell’epoca in cui tutti sanno tutto perché non si occupano altro che del dire su tutto, questa vergogna italiana – perché lo sapete che è una tipicità italiana, vero? – ha raggiunto il suo apice. Sino a quando non saremo un popolo unito davanti ai suoi simboli, saremo solo l’eterna regione ai confini dell’impero. Sino a quando non impareremo che il dissenso non è offesa e dileggio, ma ragionamento e strategia, saremo solo un’accozzaglia di nickname sulla stele che più ci meritiamo. Quella dell’ignoranza.

L’atroce assassinio del tempo libero

coppia-smartphone

Avvertenza: probabilmente le considerazioni che seguono le avrete fatte prima di me milioni di volte.
Giustificazione: io provo a metterle in rapida concatenazione in modo da fare una sintesi che, chissà mai, potrebbe essere persino utile.
Argomento: nuove tecnologie.
Ambito: la nostra vita sociale.
Categoria: solite cose che non dovrebbero essere le solite cose.

Da quando i telefoni non sono più telefoni, i computer non stanno più soltanto nella scrivania dell’ufficio, e le informazioni non vengono più da mezzi certificati, la nostra vita, anzi la nostra esistenza, è irrimediabilmente stravolta.
Se pensate a come eravamo dieci anni fa – non dico venti e figuriamoci trenta, ma dieci – avete tutti i motivi per ritenere di essere stati catapultati in un pianeta diverso.
Non mi dilungo negli esempi che animano catene di solidarietà nostalgica sui social (tipo: “Come eravamo”, o “Hai quarant’anni se…”, o “Sei un perfetto cinquantenne?”), ma vado al sodo. Continua a leggere L’atroce assassinio del tempo libero

La spiaggia, l’amore e il vortice dei social

Ciao Ada, ieri ti ho rivista dopo più di trent’anni. Eri sdraiata in spiaggia a Mondello e parlavi al telefono con una tua amica: ti lamentavi della tata inglese che dovrebbe insegnare le lingue ai tuoi due figli e invece se ne sta tutto il pomeriggio davanti alla tv. Come lo so? Me lo hai detto tu, anzi ce lo hai detto tu a tutti quanti, nel raggio di duecento metri, dato che il volume della tua voce non era certo da bisbiglio. Volevo avvicinarmi per salutarti ma, visto che eri impegnata, ho preferito rimanere in disparte. Continua a leggere La spiaggia, l’amore e il vortice dei social

La vera infelicità dei finti felici

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Si riconoscono perché sono dappertutto nel web, occupando ogni bacheca, salendo su ogni strapuntino dei social, aggrappandosi all’ultimo messaggio di posta elettronica. Sono i primi della mattina e gli ultimi della notte, danno il buongiorno e la buonananna in monologhi monosillabici spesso comprensibili solo a loro.
Tu magari non conosci nessuno di loro personalmente, ma leggendoli capisci subito qual è il loro tormento, ti rendi conto della prigione invisibile dentro la quale perdono il loro tempo. Sprizzano allegria quando non c’è niente da ridere e ballonzolano scribacchiando soddisfatti quando chiunque altro al posto loro si prenderebbe un paio di goccine e andrebbe a farsi un pisolino.
La loro sintassi è piena di parole forzatamente allungate, tipo bellooooo, gronda di emoticons senza alibi e ostenta un’ipertrofia di punti esclamativi. E poi è la quantità che li tradisce. Queste persone sono sempre oltre misura. Scrivono o chattano o postano a raffica tradendo un distacco grottesco dalla vita reale. Se si trovano in difficoltà non chiedono aiuto, ma si vantano della propria forzata indipendenza. Se si trovano in situazioni potenzialmente idilliache fingono di essere beati, e si capisce che preferirebbero essere infelici ma in compagnia.
La solitudine è il loro vero nemico, ma non è il loro vero problema.
Sono i finti felici, sono tutti quelli che si trovano nel posto sbagliato o giusto senza la persona giusta, tutti quelli che non ammettono di essere scontenti e simulano soddisfazione, tutti quelli che fanno finta di ricominciare e invece per debolezza non hanno ancora avuto il coraggio di mettere una pietra sopra. I finti felici, poveri loro, ci raccontano quel che si raccontano: una storia sbagliata, dal finale truccato.
Solo che noi tutti – felici o infelici, ma veri – abbiamo pietà di loro. Loro non hanno nemmeno pietà di se stessi.