Un passo in più, nel vuoto

Sulla fragilità degli scrittori e sul senso della vita o della morte. Raul Montanari ha scritto questo piccolo capolavoro. Che merita di esser tirato fuori dall’evanescenza dei social.

Ieri mattina ho saputo che Stefano Di Marino si è ucciso. Come molti altri scrittori, ha scelto di gettarsi nel vuoto.Per chi non lo conoscesse: era un prodigioso artigiano della narrativa di genere, autore di duecento romanzi; uno di quegli scrittori che negli USA degli anni ’30 si chiamavano pulp, ma da noi la parola ha un altro significato.Non eravamo amici, quindi vi verranno risparmiati ricordi tediosi o foto di noi due teneramente abbracciati e cose simili, che peraltro tendo a non postare nemmeno quando a morire è un amico. Ci eravamo incontrati tre o quattro volte e c’era fra noi molta considerazione e simpatia, tutto qui.Eppure la sua morte mi ha colpito moltissimo. Nessuno è più ingenuo di chi crede che l’esercizio della scrittura generi conoscenza della vita, quindi saggezza. È il contrario: il punto d’arrivo di questa esplorazione dell’umano è spesso la desolazione, lo spettacolo malinconico delle nostre azioni ripetitive, delle nostre piccinerie senza fine, del muro che corre accanto a noi e oltre il quale non vediamo nulla. Lo scrittore non è una persona corazzata contro la vita: se è davvero uno scrittore, è la creatura più indifesa che esista. Uno degli autori amati da Di Marino, Edgar Allan Poe, ha detto che la vertigine non è la paura dell’abisso ma l’attrazione per l’abisso; prima di lui, Platone aveva detto che lo scrittore è una creatura lieve, una creatura alata. Lo scrittore, quando è tale e non un ottuso contatore di copie vendute, è così vicino all’abisso che a volte fa quel passo in più e spicca il volo, per scoprire se le sue ali sono reali o immaginarie come il resto del mondo che ha abitato fino a quel momento. Perfino più immaginario di quelli che lui ha inventato per ospitare i suoi personaggi e le sue storie.

Che fu lupara? No, ufficio del personale

Un estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.

A Palermo è sparito uno scrittore. Sparito dalle pagine dei quotidiani, dai blog, dalle riviste.
Si chiama Roberto Alajmo e – tranquilli – è in buona salute: inoltre non è in ritiro per ultimare un’opera né ha scelto il silenzio come strategia editoriale. Semplicemente non scrive perché l’azienda per la quale lavora come giornalista, la Rai, ha fatto valere il vincolo di esclusiva (cioè scrivi per me e per nessun altro) blindandolo come se lo giudicasse prezioso. E sì che Roberto Alajmo qualche merito artistico lo ha – una ventina di libri, molti dei quali tradotti all’estero, un piazzamento come finalista allo Strega e al Viareggio, un premio SuperVittorini, un film recente con Daniele Ciprì, e via elencando – però le sue quotazioni al momento non sono tali da consentirgli di fare qualcosa, nella azienda in cui opera, che sia più complessa di un servizio sul “fagiolo badda” di Polizzi Generosa. Continua a leggere Che fu lupara? No, ufficio del personale

Scrittori

Qui Giancarlo Macaluso torna su un tema che ha risvegliato molti scrittori siciliani.

L’impero di King

Stephen King chiede ai suoi lettori di mandargli foto di luoghi o cose particolarmente interessanti, corredate da didascalie. Motivo? Costruire quello che lui chiama “il mio impero”. Chissà cosa avrà in mente.

La nuova ignoranza

Per motivi di lavoro, in questo periodo, leggo molto di ciò che scrivono i non giornalisti, i non scrittori, i non addetti ad alcuna forma di comunicazione. E mi accorgo di quanto sia sempre più difficile trovare persone che siano in grado, o che abbiamo voglia, di esprimere un concetto in modo semplice. Cioè usando le parole (anche poche) di cui si conosce il significato.
Attenzione: non sto parlando di strafalcioni né di sfoggio di cultura ma, lo ripeto, di concetti.
C’è molta distrazione, si è perso il gusto per i particolari, si digita poco e si copia-incolla moltissimo. Si saccheggia il file altrui persino per inviare una e-mail  a un parente, come se per scrivere “Caro Peppinello, il mal di pancia non mi abbandona da due giorni” ci volesse chissà quale ispirazione.
Si è stitici al limite dell’insopportabilità: lo slang stile telefonino contagia i fogli di word che abbondano di nn, xké, c6, 1 altro.
Si fanno domande senza fornire elementi che possano far decollare una risposta decente: nell’era della comunicazione globale il buon senso, che pure è gratuito, ha pochi clienti.
Non si cerca di sorprendere, la sorpresa ha una controindicazione in chi la deve confezionare, comporta uno sforzo intellettuale. Pratica intollerabile per chi deve scegliere se utilizzare il proprio tempo per rispondere ai finti amici di Facebook o per tuffarsi nello zapping impoltronito del trash pomeridiano.
Il concetto scritto è in decadenza perché ci mette faccia a faccia con quella concretezza che la tv ha sublimato in urla e volgarità. La forza della ragione si piega a quella dell’ugola e per farsi capire è più semplice aggrapparsi all’illusione catodica che al vocabolario.
Morale: prevale chi è più violento, chi è più maschio (anche se donna), chi digrigna i denti; soccombe chi vorrebbe spiegare, chi riflette, chi conosce la differenza che passa tra realtà e reality.
I nuovi ignoranti non sono identificabili per censo, casta, livello di istruzione, appartenenza politica (un tempo accadeva così). La loro categoria è trasversale come la televisione, il Blackberry, il mega screen di Trony e il 1288 che se lo chiami ti dice persino dove cenerai domani e con chi ti tradirà tua moglie.
La crisi dei valori, che pure credevamo apocalittica, è solo un ricordo piacevole al confronto con la nuova emergenza.
Perché? 
Perché la morte dei concetti comporta l’estinzione dei sistemi di relazione basati sulla qualità e sulla logica.
Il futuro è un pianeta lobotomizzato che vibra solo per gli istinti dei peggiori che hanno un palco, dei più abietti che hanno i muscoli, degli avanzi che si sono autoeletti sostanza.
Pensateci, l’avvenire è il Grande Fratello.

Intellettuale di sinistra

Le ideologie sono ormai superate. Destra e sinistra, tutti assieme, almeno per un anno prendiamoci una pausa. Non leggiamo più per un po’ Camilleri, Tomasi di Lampedusa o Sciascia perché sono una sorta di sfiga nei confronti della Sicilia. Ci vuole ottimismo.

Mario Centorrino, economista e professore all’università di Messina, iscritto al Pd e, quel che qui conta, assessore regionale alla Formazione nel governo regionale siciliano di Raffaele Lombardo.

L’artista non è folle

Vorrei essere drastico: la follia non agisce in alcun modo nel processo creativo. Lo dico chiaro e tondo perché circolano ancora molti stereotipi sull’accoppiata “genio e sregolatezza”. Si dà per scontato che la sregolatezza sia il carburante del genio. Ebbene: non è così.

Condivido.

Dal forum di Roberto Alajmo.

Tiritiritu

saviano

Chi deve ritirare la norma? Saviano?

Da Repubblica.it.

Minchia, signor Faletti

giorgio faletti

C’è il sospetto che l’ultimo romanzo di Giorgio Faletti, Io sono Dio, non sia stato scritto da Faletti stesso.
Fatta la tara alle polemiche – l’invidia per le persone di successo annebbia spesso la vista di recensori e lettori – quel che colpisce è la supponenza dell’autore che si difende violando le regole della buona creanza.
Non ho letto il libro in questione e non lo leggerò. Ho letto, anni fa, Io uccido e l’ho giudicato letterariamente pretenzioso seppur di trama efficace (a parte la deriva finale). Recentemente di Faletti mi ha colpito la trasformazione non già da cabarettista-cantante in letterato, ma da artista in divo, da battutista pacatamente cialtrone in intellettuale sospettato di cialtroneria.
Uno scrittore ha il divieto di essere migliore delle sue opere, perché altrimenti tenderebbe a imbastire un testo sacro, ma ha il dovere di rispettare i lettori. Faletti, onesto o truffaldino che sia, mostra di essere affezionato soltanto alle copie (dodici milioni) vendute, confondendole coi voti, con le preferenze. E fingendo di non sapere che un libro venduto non è assolutamente una testimonianza di gradimento. Come dimostrano i fatti.

Blog zoppicanti

blog

Una volta leggevo molti giornali. Oggi consulto molti blog, siti web, portali di informazione. Ed è un piacere immergermi in opinioni molto più lucide delle mie, prendere a prestito nuove chiavi di lettura, guardare con occhi altrui ciò che non ho potuto vedere e, più frequentemente, pesare quel che ho sottovalutato.
La globalizzazione delle opinioni ha però un effetto collaterale, che può essere riassunto in una domanda: le opinioni meritano tutte un palcoscenico?
No.
Tutte le opinioni, come l’aria che si respira, non devono essere trattenute. Ma una scrematura qualitativa nella loro propalazione ci deve pur essere. E non è snobismo quello che mi spinge a dire che alcune delle testimonianze che leggo sul web sono banali, mal scritte, logicamente inutili.
Esempio.
Un paio di blog opachi e zoppicanti, d’improvviso, si trovano linkati in virtù di non si sa chi o cosa a un portale che fa buoni numeri. Gli autori di questi blog, inopinatamente catapultati al centro dell’attenzione, decidono dall’oggi al domani di darsi da fare per proporre nuovi contenuti e per cercare di soddisfare la mole di accessi che gli cade tra capo e collo. E irrimediabilmente scrivono ciò che natura gli impone: scempiaggini.
Accade così in qualunque campo creativo. L’autore pressato da un editore avido produce, in prevalenza, gattini ciechi. L’artista troppo responsabilizzato si scolla dalla sua opera. Il cronista sbaglia più di frequente se è braccato dal suo capo.
Insomma, il mondo delle idee ha bisogno di relax, spontaneità e coscienza pulita. Deve crescere a piccoli passi, e meritare i centimetri guadagnati giorno dopo giorno.
L’improvvisazione del comunicare non è una diga che allaga di progetti e sensazioni uno spazio deserto.
Quindi via libera a tutte le opinioni, ma con un sano senso della misura. Esattamente un anno fa Giacomo Cacciatore, da queste parti, si scagliava contro lo slogan “se l’hai scritto va stampato”. Approvai allora e sottoscrivo adesso con una postilla che allarga il discorso: se l’hai abbozzato non è detto che tu l’abbia pensato.