Quarantadue ghiaccioli

Caldas de Reis – Padron
Padron – Santiago

Ogni volta che concludo un viaggio avventuroso, che per me significa faticoso, mi ritrovo sempre più ricco di una cosa che viene sottovalutata e che si chiama fatalismo. Mi dico, anche stavolta è andata, nonostante la mia pericolosa (al limite del patologico) tendenza ad alzare l’asticella quando, come età anagrafica impone, dovrei invece ipotizzare una strategia opposta. Poi mi chiedo: fin quando potrò dar sfogo alla mia curiosità in questo modo non troppo ordinario? E lì entra in campo il fatalismo, forte anzi rinvigorito: il migliore modo di rispondere a certe domande è non porsele. 

Questo Cammino Portoghese, ancora più degli altri, non è stato solo un affare muscolare. Anche se senza allenamento 700 chilometri con 11 chili in spalla (acqua esclusa) ti portano a Santiago solo se fai il giro largo da Lourdes ed esce il tuo nome nella lotteria dei miracolati. Un coach parlerebbe di motivazione, io molto più semplicemente tiro in ballo l’atto più egoistico che dovremmo imparare a considerare senza timidezza, la determinazione. E non si tratta banalmente di voglia di vincere: qui non si vince un cazzo e anzi gli amici ti prendono affettuosamente per il culo dai loro ritiri vacanzieri umanamente normali, indecisi se trattarti da squilibrato o inserirti come pastorello ramingo in un quadretto naif.
La determinazione non è che funziona solo nei massimi sistemi cinematografici dove c’è quello\a che ce la fa nonostante tutto, e più il nonostante tutto è poderoso, più l’effetto sorpresa funziona. Nossignori, c’è una determinazione ordinaria che sta nelle piccole anzi minuscole cose e che si annida in preziosi angoli di resistenza.
Ad esempio sto scrivendo da un mese su una tastiera collegata al mio iPad mini che sovverte i canoni di una tastiera normale (nella posizione delle lettere, nell’uso di tasti funzione, nella dimensione e dinamica dei tasti). Per chi scrive per mestiere è come cambiare il martello a un fabbro, i fornelli a un cuoco, l’auto a un pilota. La pazienza non basta, serve determinazione. Ma questo è niente.

In queste ventotto tappe ho dormito (tranne che a Porto) ogni sera in un posto diverso. Mi sono trovato in alberghi affollati e in pensioni sperdute, ho dormito in antiche dimore nobiliari e in residenze per anziani dove ero il più giovane della compagnia, ho cenato in resort e in bettole, ho combattuto con gli scarafaggi in stanza e ho dormito in letti inutilmente grandi, ho bevuto grandi vini e per evitarne di pessimi mi sono strafatto di Coca Zero. 
Ho succhiato 42 gelati “Solero” (quasi uno e mezzo al giorno) e non mi chiedete perché. Io che detesto i gelati ho trovato la mia convergenza perfetta tra caldo, stanchezza e cazzi miei in questa specie di ghiacciolo dal gusto esotico indefinito: quando il cammino si faceva pesante e mi trovavo a corto di energie, al primo bar o emporio a tiro mi facevo un “Solero” (1,60 euro di succoso colorante). Ho svuotato e riempito lo zaino ogni sera e ogni mattina, come se sgranassi un rosario, cercando di smarrire solo il superfluo: alla fine ho perso solo un pezzo di sapone di Marsiglia e non ci ho dormito una notte come se fosse un’esclusiva del supermercato sotto casa mia. Un’altra volta ho dimenticato il portafoglio nell’unico taxi che ho preso e l’ho ritrovato senza che il conducente se ne fosse accorto.  
Nelle pieghe del mio corpo ho assorbito tanta di quella vaselina che per i prossimi mesi dovrò cenare con le cinture di sicurezza per non scivolare dalla sedia. Ho lavato magliette, calze, pantaloncini, mutande ogni santo giorno (per la precisione ogni santo pomeriggio) con la diffidenza di uno che, da single, a casa fa tutto-proprio-tutto ma che guarda la lavatrice come Salvini un senegalese: calze e mutande (tre e tre) pur essendo uguali ormai li riconosco e li chiamo per nome come una mamma coi suoi gemelli. Ho attuato un temerario e a volte complicatissimo piano di ricariche di aggeggi tecnologici (iPad, smartphone, iPods, orologio, tastiera, eccetera) in stanze che a stento avevano una lampadina e un interruttore. 
Ho cercato di rispondere a tutti i messaggi arretrati (al netto delle rotture di coglioni). Ho aggiornato quasi quotidianamente questo blog che ha fatto il suo discreto numero di lettori (grazie grazie!). Ho raccolto idee creative per l’anno che verrà e che sarà cruciale professionalmente. Ho resistito al contagio – nei rari momenti di connessione con la mia realtà – dalle miserie umane e fastidiosi affini. Ho tenuto pochi contatti costanti, ma buoni. Ho rivalutato i rami secchi che hanno un’utilità quando muoiono definitivamente, bruciando.

Ma soprattutto ho imparato che c’è un’importante eccezione per noi dilettanti della determinazione che tendiamo a impegnarci in tutto, anche in ciò che ci fa male. Dobbiamo imparare a lasciar correre: è inutile far bene qualcosa che non ci piace. Lì non servono né pazienza né determinazione: serve fermarsi, scegliere una destinazione e andare. 
Perché? Perché il miglior modo per rispondere a certe domande è non porsele. O al limite metterle in fondo a uno zaino e sperare di seminarle per strada, come un pezzo di sapone di Marsiglia.

P.S.
Per coincidenza arrivo (e torno) a Santiago nello stesso giorno in cui esattamente nel 2019 concludevo il Cammino del Nord. Quattro anni che sono un’era geologica con tutto quello che c’è stato nel mezzo. A chilometri esauriti mi piace pensare che le avversità siano un doping nella determinazione. Ma magari ne riparliamo più avanti quando acido lattico e vaselina saranno smaltiti…

25 – fine

Le precedenti puntate le trovate qui.

Fantascienza

Pontevedra – Caldas de Reis

Cominciamo dalla foto di questo post. È la tovaglietta di carta di una trattoria in cui ceno stasera. Sono a Caldas de Reis, in Galizia, a meno di quaranta chilometri da Santiago. La tovaglietta racconta i Cammini Compostelani e senza mezzi termini ci tramanda che il turismo è una cosa seria. Lo scorso anno vi avevo raccontato della mia esperienza sulla via Francigena e avevo dichiarato chiuso ogni rapporto coi cammini italiani. Troppa sciatteria, troppa disorganizzazione, troppi rischi (un paio di volte ho avuto paura di finire arrotato). La tovaglietta non è nulla di che, persino in Italia se ne trovano sui tavolini di bar e ristoranti. Ma questa è diversa. È un’idea territoriale, il puzzle completo di cui poi scegli le tessere. Ve l’immaginate nelle nostre lande la sfilza di fisime snervanti dietro un simile pezzo di carta: e chi la disegna? E perché lui? E chi la stampa? E chi la paga? E il mio logo? E perché quello è scritto più grande?

Io non lo so come fanno qui, solo solo che in molte località turistiche siciliane non riescono a mettersi d’accordo manco per le cartine geografiche 20 centimetri per 20. Quando arrivai al Teatro Massimo come direttore della Comunicazione e del Marketing, un po’ di tempo fa, ci misi un anno per fare arrivare regolarmente manifesti e brochure della Stagione ai centri di informazione turistica pubblica. E anche lì domande: e chi li porta? E chi li espone? E chi li appende? 
Lasciamo perdere.
Torniamo ai Cammini e al loro valore economico (che spagnoli e portoghesi hanno ben chiaro). La via Francigena in tal senso, se solo un giornale decidesse di fare un’inchiesta, è uno scandalo tutto italiano. Ma in tal senso io già dato. 
Invece vi dico cosa ho visto in questi giorni in Galizia. È chiaro che mi trovo nella zona calda del Cammino, più ci si avvicina a Santiago più cresce l’afflusso di pellegrini. I pellegrini sono gente strana, non a caso sto in disparte (non ho bisogno di importare stranezze altrui): dormono in mandria per pochi euro a notte, usano bagni e docce comuni, deglutiscono cibi da menù fisso, vanno a letto presto. Insomma spendono poco. È chiaro che c’è un che di intensivo in questa modalità di sfruttamento turistico. Però è l’offerta che mi colpisce. In città come Pontevedra ci sono negozi di abbigliamento, pedicure, erboristerie, barbieri, ristoranti per pellegrini. Identificato il target, l’offerta si adegua senza puntare a strozzare il turista, perché altrimenti lo perdi per sempre e queste sono terre in cui si torna dato che il pellegrino è religiosamente reiterante: sgrana passi tipo rosario e il rosario non è che si butta quando finisce.
Immaginate quanto fantascientifica può apparire una serata d’agosto chessò a Mondello, dove solo lo slalom tra posteggiatori abusivi e questuanti di vario genere è una roulette russa.
E poi la viabilità. Il Cammino portoghese, così come il Cammino del Nord, è coccolato dalle comunità perché è comunque un flusso economico importantissimo e inesauribile: non teme crisi economiche, inquinamento, riscaldamento globale. Bar accoglienti con sedie e ombrelloni ovunque possibile. Passerelle e vie pedonali per centinaia e centinaia di chilometri, senza soluzione di continuità (tipo per quasi tutta la Senda Litoral). Semafori intelligenti tarati sui pedoni con le auto che si fermano a distanza e non sulle tue caviglie. Nelle zone “calde” pattuglie di polizia sui sentieri e sui rarissimi attraversamenti di strade ad alto traffico: quando un pedone arriva, l’agente lo prende in consegna e lo conduce all’approdo dall’altro lato della carreggiata. Ditemi se non vi sembra fantascienza. 

24 – continua

Tutte le altre puntate le trovate qui.

La tolleranza non è un muscolo, peccato

Vigo – Redondela
Redondela – Pontevedra

Sono entrato in quella detestabile zona di insofferenza che non riesco a controllare nonostante mi vergogni come un oste astemio e per la quale ci vorrebbe un investimento a cinque zeri presso uno psicologo bravo (anche se nei secoli dei secoli ho già dato). 
Sono ormai in vista di Santiago, mancano poche tappe, una sessantina di chilometri. E, come nel Cammino del Nord che pure viene dalla direzione opposta, questi ultimi giorni sono funestati – anzi mettiamoci le virgolette che lo shit storming degli imbecilli è sempre in agguato – “funestati” dalla moltiplicazione dei pellegrini. La maggior parte dei quali, cioè quelli improvvisati e che storicamente provengono da paesi tipo l’Italia, usano la locuzione “ho fatto il Cammino di Santiago” (come se ce ne fosse uno solo) per riscuotere un bonus di credibilità o uno sconto di pena al ritorno in patria nella loro ordinarietà cittadina più o meno esibita. Il loro Cammino di Santiago, espressione vaga quindi perfetta per un’audience distratta ergo maggioritaria, è tutto qui. Una sessantina di chilometri spalmati in tre, quattro anche cinque giorni tipo struscio in corso Umberto. E via raccontando: in fondo il migliore film che ci vede protagonisti è quello di cui nessuno ha mai visto un frame. 

E siamo alla mia complicazione psicologica. L’insofferenza.
Occhio, qui non c’è un briciolo di autocompiacimento, al contrario c’è disagio per un sentimento che non riesco a governare, come un’antipatia perniciosa che vorrei soffocare. Un prurito all’indole, diciamo.
Oggi per la prima volta in tre settimane e passa di salite, arsura, vento, sudore, polvere, solitudine ho sperimentato la prova più difficile, quella della socialità forzata. Truppe di giovani, anziani, chiacchieranti, schitarranti, adoranti di un dio prudente che tiene i tappi nelle orecchie, ciabattanti con calze, scalzi indecorosamente cingolati, puzzolenti che potevano non esserlo, ingombranti (camminano a quattro a quattro in un sentiero che al massimo consente lo spazio per due persone affiancate). Nella foto di questo post un esempio di scarso effetto.
E poi c’è questa cosa pittoresca in modo perfido per me: non so chi ha insinuato nella testa di questi aspiranti martiri l’idea che un cammino estivo si fa con gli scarponcini pesanti, alti, imbottiti tipo inverno siberiano. Sul tragico dualismo scarponi da un chilo o sandalo con calza da tedesco in vacanza a Venezia ci torneremo, perché l’argomento merita una trattazione approfondita. Insomma chi consiglia a questi disgraziati di camminare in agosto, in Spagna, con temperature simili a quelle italiane, su asfalto o sterrato, con scarpe corazzate spesso rigide come un’ingessatura o non capisce un cazzo di cammini o ha un contratto milionario coi poteri forti dell’ortopedia mondiale.

Saranno giorni difficili i prossimi, quelli che mi separano dall’arrivo a Santiago. Che, detto chiaramente, è la parte meno emozionante di questo viaggio. Però mi consolo: ho già messo dentro tutto quello che basta nel mio bagaglio privato di momenti perfetti e sono veramente felice per come sono riuscito a non deludermi, dato che ho una certa propensione ad appannare gli specchi in cui mi guardo…
Quindi da oggi sino all’arrivo, comunque vada, ogni passo in più sarà un centimetro geografico conquistato, un grammo corporeo abbandonato, un grado climatico neutralizzato. In fondo la folla dei pellegrini non è altro che una salita in più, solo più rumorosa. Ed è un vero peccato che la tolleranza non è un muscolo. 

23 – continua

Tutte le altre puntate le trovate qui.

Chi te lo fa fare?

Viladesuso – Baiona

Non c’è giorno che passa senza che mi arrivi in modo più o meno testuale la domanda: ma chi te lo fa fare? Solitamente rispondo in maniera rapida: non so, io mi diverto così. Qui però ci voglio mettere qualche parola in più. Del resto in questo blog le narrazioni delle mie minime avventure su due zampe sono una parte corposa (c’è pure un podcast). 

Per spiegarmi faccio un passo indietro di cinque anni esatti quando, mentre scrivevo su queste pagine da un alberghetto finlandese di ritorno in moto da Capo Nord, davanti a me atterrò anzi ammarò un idrovolante e due tipi scesero per venirsi a bere una birra nel tavolo accanto al mio. Oggi, alla stessa ora e a una latitudine decisamente diversa, mentre mi accingo a inanellare una parola dietro l’altra nello stesso blog, ho davanti uno scenario che mi sorprende esattamente come quello di Inari, così si chiamava la località dell’ammaraggio causa aperitivo. La spiaggia di Baiona, al sud della Spagna atlantica, una spiaggia pubblica e naturalmente pulita, è ancora piena di bambini che giocano in acqua e di adulti in panciolle che bevono cerveza sotto gli ombrelloni, alle otto e mezza di sera, con un taglio di luce che dalla montagna filtra tra gli alberi delle barche a vela ormeggiate e che lambisce il mio tavolino.
Ecco chi o cosa me lo fa fare.

Trovarmi in prima fila dove posso ancora sorprendermi senza fare danni. Allontanarmi dal coro di rassegnazione che usualmente accompagna la quotidianità: non so voi, ma io sono circondato da gente orgogliosamente mesta, o imbottita di vuoto. Per carità non è la regola, ma è quella disgraziata eccezione che manda a puttane anche la regola più ferrea. E la mestizia colpevole mi è sempre più insopportabile, sarà la vecchiaia o forse il canto del cigno di una consapevolezza sfrontata (della serie, ma chi se ne fotte).
Sfiancarsi su due gambe non più giovani e attraversare città, regioni, nazioni non è un atto di eroismo. Al contrario, un atto di eroismo può essere quello di confinarsi in un 5 stelle con spiaggia, pranzo, aperitivo, cena ogni santo giorno finche dura la batteria dello smartphone e poi a letto finalmente perché la presa per la ricarica è accanto al comodino. Eroismo è accettare vacanze di cui non ce ne frega nulla, per abitudine o consuetudine. Eroismo è inventarsi un pensiero di lavoro anche a Ferragosto per non impegnarsi in pensieri senza alibi, quelli liberi. Eroismo è ubbidire facendo finta di scegliere, divertirsi facendo finta di farlo.
Poi nessuno qui potrà mai dire che faticare in ferie sia la scelta migliore, anzi sono convinto che non lo è sin quando la fatica è fine a se stessa. Ma se è mezzo per arrivare, raggiungere, superarsi, ritrovarsi, scoprirsi o mandarsi a fare in culo, allora è un buon affare. Non è necessario sfiancarsi. L’avventura, in fondo, è un pensiero giusto nel momento in cui non dovrebbe esserci.

Abbiamo vite complicate nella nostra ordinarietà composita, quel misto di pigrizia e di entusiasmo addomesticato col quale inganniamo il tempo che non sappiamo come riempire (o che imbottiamo di malavoglia con cazzate a buon mercato). Forse provare a scegliere di fare qualche passo senza guinzaglio può darci un’ispirazione. Perché ho imparato che la libertà è qualcosa di estremamente soggettivo: c’è chi la trova da solo e chi no, chi la cerca in sé e chi nell’altro, chi la pretende senza meritarla e chi la spreca senza valutarla. 
Non c’è niente di esotico o pittoresco nel fare qualcosa che spinga un altro a chiederti chi te lo fa fare. Piuttosto ogni volta che fate quella fatidica domanda provate a immaginarvi stanchi e sudati mentre camminate su una spiaggia assolata e deserta. Nulla intorno, borraccia a metà. Ecco se l’impulso che vi prende non è quello di voler fuggire con un elicottero che vi prelevi al volo, ma quello di mollare lo zaino, togliervi scarpe e maglietta e sdraiarvi sulla battigia a rubare il fresco dell’oceano senza guardare altro che il cielo avete già la risposta.
Questo me lo fa fare.

21 – continua

Tutte le altre puntate le trovate qui.

Cammino, un pretesto di felicità/2

La seconda parte del podcast sul Cammino (del Nord) come pretesto per una storia di emozioni in salita e fantasie in discesa. O viceversa, se preferite.

La prima parte del podcast la trovate qui.

Podcast
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Cammino, un pretesto di felicità/2
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Cammino, un pretesto di felicità/1

Non è una frase a effetto, ma per scrivere questo podcast ci ho messo anni. Anni di passi (molti dei quali falsi), di fatica (e quella fisica è la meno importante), di stupore (il vero motore di ogni felice intuizione). Il pretesto è il Cammino del Nord, 830 chilometri con uno zaino in spalla e nient’altro, ma la realtà sono molti altri cammini ed esplorazioni fatte nel tempo e nei tempi.
Questa non è una guida, ma un racconto, una storia di emozioni in salita e fantasie in discesa, una (a volte pericolosa) concatenazione di pensieri: pensieri che ci prendono quando ci rendiamo conto che non c’è limite di età per imparare davvero a sbagliare da soli. Soprattutto per afferrare finalmente la consapevolezza che non è mai troppo tardi per mollare tutto ed essere felici.

Il podcast è diviso in due parti. Questa è la prima. La seconda la trovate qui.

Podcast
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Cammino, un pretesto di felicità/1
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Per chi l’ha visto e per chi non c’era

I filmati di uno smartphone, la musica che viene fuori cazzeggiando col Mac, un po’ di prevedibile nostalgia. Ho raccolto le immagini del mio Cammino del Nord in un video, “per chi l’ha visto e per chi non c’era” (cit).

Buon divertimento. E grazie ancora.

Il mio diario di viaggio è qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

In caso di felicità

Finisterre.

(Mentre scrivo ascolto questa canzone, è giusto che lo sappiate. Se volete mettervi in pari con me, ascoltatela anche voi. Alla fine vi spiego…)

Sono in quella che un tempo molto lontano veniva indicata come la fine del mondo conosciuto. Il posto in cui all’arrivo, i pellegrini devastati da un cammino senza scarpe in gore-tex e materiali in microfibra ma con sandali da set sadomaso e abbigliamento fermentato, venivano ingannati col rogo dei vestiti e il conseguente bagno purificatore nell’oceano. Ci sono voluti secoli di emancipazione dal vincolo di cecità religiosa per ridisegnare il contesto di questo quadretto biblico. A Finisterre arrivavano torme di esseri umani che puzzavano come cadaveri nell’armadio di Andreotti, e la prima esigenza di salute pubblica era disinnescare la bomba biologica che questi poveracci tenevano inconsapevolmente sotto le ascelle. Quindi: bagno nell’oceano freddo (che il freddo, come dicono i nonni, disinfetta), e fuoco contro il male della Puzza Assoluta.

Io, pur essendo un fedele seguace del dio sapone, un bagno oggi me lo volevo fare. Ma, tastata l’acqua che ha una temperatura inconcepibile per un siciliano in agosto, ho scelto di posticipare le mie abluzioni di qualche giorno, in terra natia. Però ho celebrato con adeguata solennità il rito che mi ero promesso l’inverno scorso quando mi era stato inoculato il virus del Cammino del Nord. Mi ero detto: non so se ce la farò, ma se riuscirò io dovrò brindare a me stesso (non lo faccio mai, brindo sempre a qualcosa di relativamente collettivo, per inusitata scaramanzia) nel tramonto di Finisterre.

Ce l’ho fatta, l’ho fatto.

Mentre bevevo la mia 1906, una birra da 6,5 gradi, aromatica quanto basta per non essere una birra qualunque, ascoltavo la canzone che spero starete ascoltando.
E scrivevo appunti sul mio block-notes sgualcito, macchiato di fango e sudore e altre sostanze sulle quali manco una perizia di CSI potrebbe dire la parola definitiva.

Le cose che mi resteranno sono cose semplici e disarmanti, come la goccia sulla pietra, la goccia che abbiamo sottovalutato.

Mi resterà l’immagine dei miei piedi bianchi che stride con le mie gambe arrostite dal sole. Perché la nostra parte nascosta prima o poi emerge sempre, e quando lo fa non si nota altro.

Mi resteranno i comportamenti diametralmente opposti di due albergatori: uno a Llanes che ha tentato di fregarsi i soldi della mia prenotazione e si è rivenduto il posto a qualcun altro (qui il link per evitarlo come la peste); l’altro a Boimorto, una signora premurosa e quasi materna che vedendomi stanco ha preso la sua macchina, mi ha offerto il passaggio per il ristorante più vicino e mi ha intimato “chiama quando finisci, ti vengo a prendere, che sennò mi dormi sul marciapiede” (qui il link di riconoscenza perenne).

Mi resterà la sana abitudine di riposarmi prima di sentirmi stanco. Perché la lucidità la perdi molto prima di quanto pensi: e metteteci tutte le metafore che volete.

Mi resterà il volto di quelli con cui ho condiviso un pezzo di cammino (qualcuno), una chiacchierata (pochi), una sbevazzata o una cena (pochissimi). La stragrande maggioranza non li vedrò più ed è affascinante quanto ci si possa (ri)scoprire con sconosciuti che, in quel momento, condividono con te la cosa più importante: un’esperienza complicata.

Mi resterà la rinnovata convinzione che sacrificare tutto alla gestione di un potere che ti dà luce solo nel palazzo in cui si dipana, che ti fa sentire re in un mondo di nani – e tu ne godi dimenticando che i nani sanno di esserlo mentre tu non sai di essere un gigante farlocco – è una becera banalità: soprattutto se non ti sei mai dato un appuntamento con te stesso, un dato giorno di un dato anno in un dato posto, per affondare i piedi nella sabbia di un tramonto che è tuo e solo tuo. E ve lo dice uno che ha fatto scelte lavorative che potevano sembrare più scriteriate che eroiche. Evidentemente il destino, lui che può, ogni tanto si fa una canna.

Mi resteranno i nomi con cui si annotano sul cellulare i nomi dei compagni occasionali: Matteo Cammino, Francesca Tallone, Christine Mappa…  In fondo è divertente pensare di essere, con leggerezza, ciò di cui abbiamo bisogno nei momenti cruciali: un consiglio, una crema, un’ambizione.

Mi resterà il dubbio di chi cazzo ha posizionato le conchas del Camino in Galicia, le immagini della conchiglia che guida i pellegrini: univoca dappertutto, tranne che in Galicia appunto, con le venature che una volta danno la direzione da prendere e un’altra quella opposta.

Mi resteranno soprattutto i messaggi, qui e altrove, di moltissime persone che in modo pubblico e privato mi hanno spiegato perché questo Cammino è stato anche il loro. E il merito ovviamente non è del sottoscritto, ma di una meravigliosa sensibilità liquida che ci dice che siamo migliori di come noi stessi ci dipingiamo. Non è il miracolo dei social, anche se in quel contenitore questo sortilegio si è amplificato, ma della umana circolazione delle idee. Uno racconta una storia, un altro la legge, gli piace, la storia diventa sua. È la più semplice delle interazioni, quella a prova di ciber-cretino. Ho conservato tutti i messaggi che mi sono arrivati e ritengo che siano il vero patrimonio di questa esperienza, comunque vada la mia vita. Me li rileggerò nei momenti tristi come nei momenti felici.  Anzi soprattutto in quest’ultimi. Sono uno strano tipo di nostalgico barra romantico barra rincoglionito: quando sono giù non mi faccio mai fregare dai ricordi luminosi, sarebbe uno spreco. Io più sono contento e più penso a quando sono stato contento. E adesso ho pensato, per esempio, al Natale. Quando sono contento penso sempre al Natale, è una specie di tic.
Ecco il perché di questa canzone.
Scusate il post un po’ lungo e scusate se per finire vi ricordo qualcosa che sapete già. Ma serve.
Non è mai troppo tardi per mollare tutto e diventare felici.

P.S.
La foto sopra l’ho scattata un anno fa a Copenaghen, mentre passeggiavo pigramente. C’era una pedana, c’era una radio a tutto volume, e c’erano questi ragazzi che ballavano al tramonto. È l’immagine migliore per un titolo tipo: in caso di felicità.   

(29 – fine)

Le precedenti puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

La strana sindrome

Da A Brea a Santiago.

È la mia sindrome del Cammino. Non la conoscevo sino a questo pomeriggio quando alle 16,59, con l’ingresso in Praza do Obradoiro dinanzi alla Cattedrale di Santiago, è ufficialmente terminata la “passeggiata” che avevo iniziato a Irun, 830 chilometri di trazzere e montagne a sud-est, alle 9,33 del 25 luglio scorso. Arrivato alla meta ho provato una strana sensazione di stanchezza improvvisa, come se anziché 25 oggi ne avessi percorsi 250 di chilometri. Allora mi sono tolto lo zaino dalle spalle e mi sono coricato per terra. E non ero più stanco, ma ero affamato e non di cibo. Di musica. Dovevo ascoltare una canzone, alla quale non avevo minimamente pensato sino a quel momento: questa canzone, “Purple Rain” di Prince. Ecco la sindrome: ti illude di essere stanco per inocularti un sentimento quando sei fisicamente inerme, sdraiato per terra in mezzo alla strada come un animale randagio anche abbastanza puzzolente: un sentimento di inquieta serenità.
La mia sindrome del Cammino è tutta qui, in questo improvviso senso di tranquillità che sai sarà detonante perché a starsene da soli a faticare per 35 giorni si impara una sola cosa: a pensare. E vi assicuro che non è fanatismo o paranoia, al contrario è la consapevolezza di una lucidità che speri non ti abbandoni più. Sei leggero, ma saldo per terra. Sei pieno di quello che vuoi e non imbottito di quello che devi volere. Hai finalmente una storia tua, tutta tua, che da sola basterà a saziarti per gli anni a venire. A chi vive di creatività, il Cammino del Nord dovrebbe essere prescritto dal medico.

Non sono tutte rose e fiori, però. C’è qualche effetto collaterale che va tenuto sotto controllo. Quando metti un paio di occhiali nuovi, con una correzione migliore, vedi dettagli nitidi che prima ti sfuggivano. Allo stesso modo quando hai l’occasione di isolare le emozioni, capisci che il film è cambiato, la storia appunto.

La faccio breve e magari domani, in un post conclusivo, ci metto un po’ di ideuzze e di consigli per chi vuole anche solo ipotizzare di fare un’esperienza del genere.

Il Cammino non è un elisir di lunga vita, al contrario è fisicamente tosto e ti distrugge legamenti e articolazioni. Ma è una sorta di enzima che catalizza reazioni di cose che abbiamo dentro. Se non le abbiamo, niente. Non ti aiuta a capire cosa finalmente vuoi dalla vita, ti fa un servizio ancora migliore: ti aiuta a capire cosa non vuoi.

P.S.
Non mi sono commosso all’arrivo, ma quando mi sono sdraiato ho sorriso come Matthew Fox (minchia paragone!) nella scena finale di “Lost”. Esausto, coi pensieri lucidi. E non sono quelli

(28 – continua)

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Il valzer del moscerino

Da Sobrado ad A Brea.

Doveva essere una tappa lunga e noiosa. Dopo un inizio di stradine di campagna, il Cammino si incanala in un infinito rettilineo senza variazioni di panorama, tra eucalipti e piantagioni di mais. E soprattutto senza bar e luoghi di ristoro. Un nulla verde, ma sempre un nulla (nella foto sopra un contenitore d’acqua lasciato da un’anima pia per gli assetati che verranno). Sarà per questo che, scelti musica e pensieri giusti e armato di bocadillo di mezzo metro come carburante solido, ho cominciato a camminare senza curarmi del panorama. Unico problema la pendenza dei bordi della strada che alla lunga ti massacra le caviglie (infatti la stragrande dei “pellegrini di lunga distanza” cammina sbilenca). Rimedio presto trovato, grazie al mio doc che odia ciò che è dispari e asimmetrico: mezzo chilometro da un lato della carreggiata, mezzo dall’altro.

Solo che in questa estenuante cavalcata solitaria nelle lande del nowhere spagnolo l’attenzione è fatalmente calata, come una sorta di palpebra psicologica, e al 22 chilometro (anzi per precisione al 22,1) ho sbagliato strada in prossimità di un incrocio. Non ce ne erano molti, di incroci. C’erano molti alberi, molte mucche, molto asfalto, moltissime mosche (ne parlo tra breve perché ci vuole una trattazione a parte), ma di incroci ce ne erano davvero pochi.

Eppure sbagliai, preso dagli Steely Dan e da un pensiero natalizio (io quando sono felice penso sempre al Natale che verrà anche, tipo, il primo gennaio). Sbagliai come un cretino.

Finii così a oltrepassare la collina sbagliata, e passare una collina significa salire e soffrire per ore. Risultato: sei chilometri in più rispetto ai 31 e mezzo schedulati. Sei chilometri in più di cui cinque in collina, poiché ho dovuto rifare la collina sbagliata per salire su quella giusta. Insomma un’ora e un quarto di fatica supplementare.

Ma la vera piaga – e ve lo dico col tono della celebre scena del film Johnny Stecchino – è stata quella delle mosche. Mai vista una concentrazione simile, da farsi strada col machete. Saranno le vacche coi loro scarti naturali, saranno i pellegrini con la loro traspirazione innaturale, ma qui in Galizia c’è la Woodstock delle mosche: tutte lì a rotolarsi nel fango, ad accoppiarsi e prolificare come se non ci fosse un domani ronzante, a danzare nude nel sole. A ora di pranzo non potevo fermarmi per sbranare il bocadillo perché temevo che aprendo la bocca avrei ingerito in forma alata più dell’immaginabile. Quindi, seguendo alla lettera il Manuale delle Giovani Marmotte, da buon marmottone navigato, ho adottato due provvedimenti.

Primo, cercare una zona ventilata per disorientare gli odiosi insetti. Secondo, coprirmi quanto più possibile, soprattutto la testa

Il primo espediente è risultato vincente. Ho raggiunto una zona fuori dal percorso – ergo, distanza in più da coprire, fuuurbo! – su una altura. Effettivamente, a rischio di prendermi una polmonite per il ventazzo, sono riuscito a mangiare senza condimenti indesiderati.

Il secondo espediente invece ha innescato un altro mezzo disastro. La mia bandana gialla – minchia gialla, che io ne avevo una bellissima scura usata a Capo Nord e l’ho lasciata a casa perché volevo “colorare” la mia avventura, cretino again – scoraggiava sì le mosche togliendo loro un fertile atterraggio sulla mia capa incolta e sudata (ci penso ora e dico in coro con voi: che schifo!), ma al contempo attirava tipo calamita atomica tutti i moscerini del Patto Atlantico. Dico solo che ho percorso sei chilometri in più per l’errore di cui sopra e non sono le gambe e i piedi ad averne risentito. Ma le braccia e le mani, per quanti insetti ho scacciato e schiacciato. Insomma sono il Bolsonaro dei moscerini, e non mi pento        

P.S.
Domani, se il Padre di tutti i camminatori mobili e immobili vuole, arriverò a Santiago. Dopo 33 giorni, 800 e passa chilometri, un milione e centomila passi e ventisette post qui. Forse mi commuoverò o forse mi farò una risata, forse mi andrò a coricare alle sette del pomeriggio o forse berrò sino a notte fonda, forse tirerò la somma di tutti questi pensieri chilometrici o forse guarderò il cielo e basta, forse la racconterò o forse me la racconterò.
Di sicuro, ma proprio sicuro sicuro, vi ringrazierò. Perché molti di voi mi hanno stupito, e il motivo è una gioia che sarà mia e soltanto mia. Per sempre.

(27 – continua)

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.