Viva la Rai

In questi due giorni di televisione pubblica ci sono due eventi di grande importanza. Il Festival di Sanremo e l’intervista di Papa Francesco a Che tempo che fa. Mi dicono che Amadeus se la sta giocando alla grande (forse stasera darò finalmente un’occhiata), ma da quel che ho letto grazie a fonti qualificate il suo spettacolo è stato ben congegnato, ben strutturato e ben condotto. Domani Fabio Fazio – uno che ha intervistato Obama, Macron, Morricone e via celebrando, solo per dire quelli più recenti – dialogherà col Papa in diretta. E c’è da sciacquarsi la bocca prima di alzare un ditino: Fazio non è Vespa, e la sua Italia non è un plastico di Porta a Porta. Questi due eventi da soli – aggiunti a una rinnovata attendibilità del Tg1 grazie alla direttrice Maggioni, ma questa è una pulsione professionale – finalmente contribuiscono a mettere in nuova luce la Rai. Sono sempre stato molto critico nei confronti della televisione pubblica, qui e altrove, però adesso mi pare che ci siano risultati dinanzi ai quali bisogna fermarsi e fare quel che nei teatri, da secoli, si fa per approvare una rivoluzione o per celebrare un tentativo fallito di restaurazione, per omaggiare gli artisti talentuosi, per scacciare l’idea imbarazzante che la cultura è solo quella che non si capisce un cazzo, o che parla una lingua per pochi correi.
Applaudire.
E basta.

Sanremo, gewurztraminer e basta così

Non so se quest’anno guarderò il Festival di Sanremo. Andare appresso al mega spettacolo dell’Ariston, in un lontano passato, è stato anche il mio mestiere. Da critico musicale mi sono sorbito millenni di dirette televisive sino a tarda ora per consegnare il pezzo con tutte le sue ribattute in tempo per essere impaginato: ebbene sì, ci fu un tempo in cui esistevano i giornali, e soprattutto esistevano lettori che aspettavano l’indomani per leggerli. Più fortunato di me (ma se chiedete a lui negherà) è stato il mio amico Totò Rizzo, giornalista sopraffino e grande esperto di musica e teatro, che veniva inviato a Sanremo e se la spassava tra sala stampa e dietro le quinte, scrivendo cronache indimenticabili. Insomma io alla tv, lui nell’arena.
Ma non è di questo che volevo parlarvi.
Voglio tentare di spiegare il motivo per cui il Festival mi interessa poco, nonostante su questo blog ne abbia parlato un po’ nell’ultimo decennio e forse più.
Quel che conta, nel mio disamore, è la formula della competizione a rate, la finta sorpresa della finta sorpresa, e il gewurztraminer.

Ho maturato una vera allergia nei confronti di tutto ciò che è gara spalmata su maratone lunghe giorni. Un tempo, anche per ragioni sportive, tutto ciò mi avrebbe attratto: oggi invece mi deprime. Mi piacciono le prestazioni sul lungo termine, a patto che non siano parcellizzazione dell’audience, ma concatenazioni di esperienze. Non corro più le (mezze) maratone, ma preferisco il Cammino del Nord.

La finta sorpresa, poi, è il sintomo più fastidioso di un’epoca di rarefazione della verosimiglianza. La finta sorpresa di una finta sorpresa è l’annuncio di qualcosa che non dovrebbe accadere pur dovendo accadere, ma che ineluttabilmente accadrà perché se non accadesse nulla potrebbe accadere. Insomma una minchiata col botto. In epoca di binge watching centellinare le finte sorprese in estenuanti serate in diretta (con finte rivelazioni calibrate al TG1 delle 20) è come andare a cercare l’entusiasmo di un gruppo di animalisti trapiantati nel pubblico di una corrida.

Infine il gewurztraminer. Il passaggio più umanamente fallace di questo ragionamento, proprio perché forzatamente soggettivo. È un vino che ho amato, in altre circostanze, sotto altri cieli. Ma c’è un momento in cui le cose cambiano e se il corollario che le avvolge non le segue, diventano desuete, magari irritanti. Per me ci sono vini immortali e vini passeggeri. Musica immortale e musica passeggera. E non è colpa né dei vini né della musica. Ma di chi ascolta, beve, vive.
Insomma quest’anno non so se guarderò il Festival, di certo non berrò gewurztraminer.

Soloni fa rima con…

Tra gli effetti più indesiderati dell’indesiderabile sciatteria che ci inquina, tutti quanti, quando siamo davanti a una tastiera a digitare su un social – cioè quando l’effetto della battuta risente al massimo della rapidità di esecuzione – c’è quello della sbarellata percezione del tempo che passa.
Pur di twittare, propalare, cliccare siamo disposti a tutto: persino a sfregiare la storia, la nostra storia, seppur minima.
Prendo ad esempio una frase di Massimo Mantellini, “uno dei massimi esperti della rete internet italiana” come lo definisce la sua bio per Einaudi editore: “Benigni non fa più ridere da vent’anni…”

L’occasione era ovviamente l’apparizione di Benigni al Festival di Sanremo e la sua rilettura del Cantico dei Cantici.
Ora, la frase di Mantellini la prendo come esempio per spiegare un fenomeno – non ho nulla contro questo signore di cui apprezzo alcune analisi, ma di cui non condivido il protagonismo social che rasenta spesso le pulsioni di un teenager – quello dell’azzeramento della prospettiva temporale.

“Benigni non fa più ridere da vent’anni” significa, dato che Benigni è (anche) un attore comico “Benigni non significa un cazzo da vent’anni”. E attenzione al tono assoluto: “non fa più ridere” e non “non MI fa più ridere” che già sarebbe una frase dietro il paravento di un’opinione.
No, stando a questo assunto Benigni non ha inanellato niente negli ultimi decenni.
Eppure basterebbe pensare che 21 anni fa (appena un anno prima del confine mantelliniano) Benigni si era messo dentro un Oscar. E poi aveva portato la Divina Commedia nel mondo. Nel 2009 aveva attaccato, proprio dal palco di Sanremo, l’intoccabile Berlusconi, mentre il “massimo esperto” digitava chissà cosa dal suo abbaino. Due anni dopo, sempre a Sanremo, aveva parlato dell’Unità d’Italia raggranellando uno share del 60 per cento: e siccome la spiegazione non era stata poi così male, il giorno dopo gli aveva scritto il presidente Napolitano per complimentarsi. Nel 2014 i suoi Dieci comandamenti in Rai avevano ottenuto una citazione di Papa Francesco in un’omelia. Tutto questo, sempre in vent’anni del cazzo, diluito nel conferimento di dieci lauree honoris causa, di una Medaglia d’oro ai benemeriti della cultura e dell’arte e di una onoreficenza come quella di Cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana.

Questo per cercare di ragionare sull’effetto delle parole a effetto, sulla stordente simbiosi tra battuta e minchiata storica che il web ci propone, dalla quale nessuno è immune.
Poi a me Benigni manco mi entusiasma, ma ce ne corre a scrivere che dopo “Johnny Stecchino” è tutto un declino (e c’è pure la rima). A proposito, chissà se su Twitter le rime premiano, perché trattando di Soloni…  

Junior Cally vive, Tupac no

C’è questo gran parlare di Junior Cally e del suo testo violento e sessista che ha scatenato le immancabili polemiche politiche su Sanremo. Solo che, come spesso accade in Italia, preso un problema, si tende a polverizzarlo in mille coriandoli per farne effetto speciale anziché analizzarlo.

Il rapporto tra musica e violenza, per non dire di quello tra arte, etica e politica (un secolo fa ne scrissi qui), non è mai stato recensibile senza le adeguate precauzioni: ergo conoscenza, conoscenza e ancora conoscenza.

Tupac Shakur, il più grande e controverso rapper che abbia mai ascoltato, era legato alla criminalità afroamericana di Los Angeles, adorava Shakespeare, si batteva per i diritti civili dei neri, scrisse una canzone meravigliosa alla mamma attivista delle Pantere nere, e morì nel 1996 dopo una sparatoria a Las Vegas al termine dell’incontro di boxe tra Mike Tyson e Bruce Seldon all’MGM. Dichiaro che non sono un patito del genere, il mio rap ideale rimane quello della Sugarhill Gang che al massimo ammetteva una deriva del tipo:

“He can’t satisfy you with his little worm
But I can bust you out with my super sperm!”

La tentazione di piallare tutto con la scusa di un sentire comune o, come si diceva una volta, di un immaginario collettivo è sempre stata fortissima. Ma l’arte non è uguaglianza, altrimenti sarebbe welfare. Arte e welfare sono sistemi distanti, spesso antitetici. Ecco perché ogni tentativo di censura è odioso, quando si parla di opere dell’ingegno.

Questo vale per Wagner, per D’Annunzio, per Wilde, per Pasolini, per Tupac e per tutte le stelle che cadevano all’incontrario.

C’è solo un limite a questo ragionamento. L’arte non può mai essere un alibi o un paravento. Chiunque spari una cazzata e ci metta sotto una musichetta o la verghi su carta pregiata non acquisisce nessun diritto. Junior Cally, per quel che mi è dato sapere, non ha fatto nulla di congruo al di fuori delle sue bighellonate sgangherate. Quindi non facciamone un gran parlare e soprattutto non oltraggiamo la memoria di chi sapeva ferire le nostre coscienze ammaliandoci con la droga del bello.

Quello che penso di Garko

Voglia di novità

Matteo Renzi primo ministro.
Arisa vincitrice di Sanremo.

Se anche fosse viceversa, questo Paese non avrebbe sussulti.

Se la musica è questione di antipatia

Un’ultima cosa su Sanremo e poi basta, lo giuro. Analizzando i voti, salta all’occhio come la Sanremo Festival Orchestra abbia stroncato il duo Dalla-Carone relegandolo all’ultimo posto, e abbia invece premiato la coppia Bertè-D’Alessio con una perentoria seconda posizione.
Qualunque telespettatore di buona volontà non può che insospettirsi dinanzi a giudizi così strampalati (la canzone di Dalla, orchestralmente parlando, era una delle migliori). Che abbia pesato quell’elemento poco musicale, piccino eppure tagliente, come l’antipatia personale?

Grazie alla Contessa.

Viva i fischi

Secondo Gianni Morandi e il clan Celentano i fischi dell’Ariston al Molleggiato erano pilotati. Al di là degli indizi – poltrone vuote in platea dopo l’esibizione e protesta sinergica – colgo l’occasione per stigmatizzare l’intolleranza molto italiana nei confronti della protesta dello spettatore.
Da sempre resto un sostenitore della libertà di dissenso anche nei luoghi di culto dell’arte. Se uno spettacolo non piace, è facoltà di chi assiste manifestare la propria delusione. Altrimenti si diventa folla adorante, che ha altre garanzie e modalità di reclutamento. La politica ci ha abituati all’allergia del potere verso i fischi, e proprio per questo noi andiamo al cinema, al teatro, ai concerti. Per dimenticare la grettezza degli arroganti che stanno in alto senza alcuna virtù e che pretendono silenzio intorno.
Pilotati o no, i fischi a Celentano potevano essere meritati o meno. Ma comunque, e inderogabilmente, leciti.

La lingua di Bingo Bongo

Tra le cose che ho letto a favore di Celentano – poche a dire il vero – ci sono alcuni equivoci travestiti da argomenti: un artista deve aprire gli occhi al mondo; finalmente qualcuno ha parlato chiaro; però canta benissimo.

Oppongo una manciata di obiezioni a buon mercato.
1)    Un artista non è un mahatma.
2)    Un mahatma usualmente non parla dal palco dell’Ariston.
3)    Il palco dell’Ariston è il trampolino della canzone italiana.
4)    La canzone italiana non c’entra un tubo con i giornali cattolici.
5)    I giornali cattolici fanno il loro mestiere e non gli si può chiedere di fare i giornali di Bingo Bongo.
6)    Bingo Bongo parlava la lingua degli animali e non quella di Celentano.
7)    Celentano ha dato sfogo alle sue pulsioni senza il filtro dell’arte.
8)    L’arte è una cosa seria.
9)    La serietà impone scelte e mal si concilia con l’insulto a ruota libera.
10)  A ruota libera – a parte pochi eletti dotati di grande saggezza –  vanno i gli pseudo (intellettuali, politici, giornalisti): almeno durante il Festival di Sanremo lasciateci cantare.

 

Il pessimo Celentano

Poche parole, ieri sera su Twitter si è detto tutto e di più sul monologo di Celentano a Sanremo.
La differenza tra un artista e un predicatore sta nella verosimiglianza delle argomentazioni. Il primo può debordare a patto di usare una cifra originale per completare il suo affresco, il secondo deve rispettare i discepoli prima di se stesso e deve anteporre gli interessi comuni ai propri.
Celentano ieri è stato un mediocre artista e un pessimo predicatore, debordando – eccome – per anteporre i propri interessi a quelli degli altri.