Più ingiustizia per tutti

Da decenni viviamo in una quarta dimensione in cui vige, indecente, l’illusione che tutto sia possibile se solo lo vogliamo. Cittadini al governo come liberazione dalla disonestà della politica, scienziati del web che deridono scienziati delle università, promulgatori della violenza come atto di nonviolenza, elargizioni a pioggia a chi non ha intenzione di lavorare e se lavora lo fa in nero (in modo da avere un doppio stipendio), dilettanti sul ponte di comando e professionisti umiliati a vogare, premialità senza merito, ultima parola al più prepotente, applausometri dell’odio, killer della speranza travestiti da monaci della Nuova Verità Rivelata.  
Siamo circondati da parole finte, drogate, ingannevoli.
Si tenta in ogni modo di farci credere che la verità sia anfibia, quando anche un bambino sa che così non può essere: la verità anfibia è un inganno sopra e sotto il livello del mare. È la violenza strisciante del “sì però”: di fronte a un evento incontestabile e indiscutibile nel quale c’è da ammettere solo una sconfitta, si erge il totem del “sì però” a rimestare nelle certezze per alzare polvere o impastare fango.
Non è vero che è sempre stato così. Così come non è vero che si stava meglio quando si stava peggio. Però è vero che il livello di mistificazione politica e sociale negli ultimi trent’anni è cresciuto esponenzialmente.

Per questo un Nobel come quello al professor Giorgio Parisi (tra parentesi un uomo bellissimo nel suo candore fisico e intellettuale) oggi è una pietra nello stagno ghiacciato.
Perché provoca e rompe, consola e squassa.
Perché ci accarezza i pensieri con un’antica certezza: il merito conta ancora, il merito vince, il merito non è demerito. E andando controcorrente rispetto alla politica maggioritaria di questo paese, ci dice che un fisico che si è fatto un mazzo così per tutta la vita può ancora valere di più dell’improvvisatore social che decide di farsi un nome sposando idee balzane, salendo su palchi balzani, contando su intervistatori balzani e conquistando l’intestino retto dell’Italia.
Servono unità di misura e metri attendibili.
Serve una dittatura del merito in cui sta avanti chi sa. Gli altri dietro (possibilmente in silenzio).
Se dare la parola a tutti significa che tutti possono ciarlare impuniti, serve un po’ di ingiustizia: meno libertà, anzi “libertà”, per tutti.

Questo significa per me il Nobel a un grande fisico italiano nell’anno di grazia 2021.

Delitto di assistenzialismo

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Il caso dei lavoratori che non si trovano in Sicilia in quest’estate di agognata ripartenza è da manuale. E ci spiega, se mai ne avvertissimo il bisogno, il fallimento di antiche politiche assistenzialiste e di recenti provvedimenti come il reddito di cittadinanza. Accade che albergatori, ristoratori e manager siano alla disperata ricerca di qualcuno che accetti di lavorare per la stagione estiva. Ma molti disoccupati scelgono di restare tali perché, facendo i calcoli, ritengono più conveniente continuare a campare coi soldi che lo Stato gli elargisce per restare spaparanzati sul divano e integrare con qualche lavoretto in nero. Un caso da manuale, dicevamo, che certifica il fallimento di un provvedimento come il reddito di cittadinanza che era nato come “misura di politica attiva del lavoro e di contrasto alla povertà”, e si è rivelato invece un freno per quel treno che avrebbe dovuto portare migliaia di disoccupati fuori dalle gallerie dell’incertezza. Ora che la frittata è fatta, e nell’attesa che si rivedano i meccanismi del sostegno economico separando in modo netto gli strumenti di lotta alla povertà rispetto ai sostegni al reddito in mancanza di occupazione, qualche bruciacchiatura resta anche nelle mani di alcuni di quegli imprenditori che oggi protestano e che ieri magari erano i primi a incentivare il lavoro in nero. La Sicilia e la sua economia hanno affondato le radici in questa furbizia di rimbalzo, dove la “messa in regola” è ancora vista come la kriptonite da generazioni di disoccupati che vogliono restare tali. E non è ottenere il massimo col minimo sforzo. No, è semplice scelta (in)culturale. È inchino a quell’assistenzialismo che ha finto di allevare il Sud Italia e invece lo ha affamato. Di sapere, di specializzazione, di dignità.

Se il reddito di cittadinanza è cosa nostra

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Lo spaccaossa, l’estortore, il presunto mafioso con villa e piscina: tutti col reddito di cittadinanza. La notizia fa sensazione perché accosta due concetti complicati come criminalità e stato di bisogno. Invece dovremo prendere un bel respiro e usarla laicamente, la notizia, come catalizzatore di attenzione su un provvedimento nato storto e finito peggio, nonostante l’intento fosse di cristallina civiltà. Il reddito di cittadinanza, così come si sta disvelando, è la ciliegina sulla torta di una politica che vorrebbe incoronare statisti e invece promuove parvenus. Una vera misura “di politica attiva del lavoro e di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale”, come da definizione governativa, dovrebbe arrivare da un sistema che conosce i confini dell’impero, che ha contezza di dover sviluppare un programma in un Paese in cui l’inganno è spesso il germe della legge, soprattutto quando si parla di soldi. Il concetto stesso di povertà cambia da quartiere a quartiere (figuriamo le differenze tra una città e l’altra) poiché tutti sanno che essa non è esclusivamente riconducibile alla mancanza di lavoro, ma è la complicata somma di molti fattori: salute, aspetti abitativi, psicologici, sociali, eccetera.

Quando un partito fonda il suo programma su un aiuto economico a largo raggio senza saperlo impermeabilizzare all’acido del populismo, fa un danno innanzitutto a se stesso. E lo spaccaossa fa sensazione, ma in fondo mica tanto.

La cazzata di cittadinanza

Funziona così. Il migliore argomento per demolire il nemico è ridicolizzarlo con tesi ridicole. Sembrerà incredibile ma è questo il metodo di successo con cui il sottosegretario all’Interno Carlo Sibilia, twittatore indefesso nonché complottista che non crede all’allunaggio, avanguardista che propone il matrimonio fra specie diverse “purché consenzienti”, no-vax della prima ora, mette alla berlina gli avversari politici. In questo tweet ad esempio indica al popolo i veri nemici del reddito di cittadinanza appendendoli al cappio del loro stipendio.

Per Sibilia e i suoi accoliti infatti i guadagni altrui sono una vergogna. La ricchezza è un orribile reato in un mondo fatto di gettoni a pioggia, più nulla per tutti: del resto un partito politico che ha abolito qualsiasi merito non può concepire che ci sia un ruolo che valga più di un altro, altrimenti Sibilia non dovrebbe stare dove sta, su una poltrona chiave per la sicurezza di questo Paese. Cottarelli, Boeri, Caldenda, Fedeli possono essere democraticamente criticati per i loro (eventuali) errori, ma pretendere di condurli alla forca – per di più da sottosegretario all’Interno – per la loro dichiarazione dei redditi è un’operazione ignobile. Non è neanche un colpo al di sotto della cintola, è l’indecente uso del ridicolo che fa audience in tempi bui quando una cazzata si trasforma con un clic in un argomento di vasta trattazione politica.