Tutti da Fiorello, come Fiorello

E’ davvero un peccato che la trasmissione di Fiorello sia finita, anche se è immaginabile che la Rai – a meno di follie suicide – abbia fatto tesoro dell’esperienza.
Come ci siamo detti sin dall’inizio, la grandezza dello showman siciliano è quella di far sembrare nuovo ciò che è antico e collaudato. E questo in una nazione di dilettanti allo sbaraglio (magari con la spinta di papi) è una bella cosa. Però se una critica può essere mossa a Fiorello, senza il rischio di finire crocifissi su Twitter, questa riguarda la sudditanza degli ospiti. Tutti, da lui, parlano come lui, citano lui, si muovono come lui. Persino Roberto Benigni risparmia sulle battute e fa il verso al padrone di casa.
Ecco, in un prossimo spettacolo del più grande showman dopo il weekend sarebbe bello che la vecchia regola del varietà fosse rispettata: ognuno resta fedele al suo personaggio.
E poi Fiorello è così piacevolmente debordante che si può anche risparmiare sugli ospiti.

Pilastri di fango

La crisi dell’Italia ha, secondo me, un riferimento preciso nell’abolizione per decreto del rapporto causa-effetto. Se un’azienda va male si cambia l’amministratore delegato, se un giornale va male si cambia il direttore, se un partito perde voti si cambia il segretario.
Invece no. Non accade così, dalle nostre parti, quasi esclusivamente ai livelli dirigenziali più alti. In altre parole, ci si accanisce con la base per ignorare colpevolmente i vertici.
C’è una sola spiegazione a questo fenomeno tutto italiano, e la si deve cercare/trovare nel sistema di garanzie trasversali che la nostra politica ha messo in atto per neutralizzare gli effetti immediati delle sue nefandezze: il capro espiatorio, nella versione italica, non ha durata limitata ma è addirittura riciclabile. Altrove un Minzolini che lascia precipitare nel baratro il telegiornale più seguito del Paese scomparirebbe dalla scena durante la pausa pubblicitaria. Invece –  scommettiamo? – ce lo ritroveremo tra qualche tempo a capo di un’authority, su uno scaffale della nomenklatura della Rai o, chissà, in parlamento.
Nel resto del mondo i servi sciocchi sono la merce più sacrificabile, da noi vengono valorizzati dai fallimenti.
In un Paese di macerie, anche il fango diventa pilastro.

Fiorello e la novità di una tv antica

Perché Fiorello piace? Perché è rassicurante. Perché propone una tv antica che, dopo anni di buio catodico, sembra quasi nuova.
Con la sua verve da animatore – un tempo si sarebbe detto da animale da palcoscenico –  coinvolge anche i clienti più svogliati: grida, saltella, ripete le battute per i distratti. Dà soddisfazione a quelli delle prime file, ammaestrati per una comparsata a favore di telecamera, e suona la sveglia a quelli che sonnecchiano in fondo, i follower di Twitter.
E soprattutto è talmente bravo da spacciare l’acqua calda per novità dirompente. Se più di trent’anni fa Renzo Arbore con la sua “Altra domenica” avesse potuto rubare qualche minuto alla diretta (finta) di Canale 5, lo avrebbe fatto di certo. Solo che allora non c’era il Biscione e la competizione tra le reti televisive era solo una questione di lottizzazione.
Fiorello è un gran cazzeggiatore e ha il merito di riuscire a portare sul piccolo schermo tutti i suoi pensieri trasversali. Ogni tanto ci azzecca (geniale la trovata di fregare Mimmo Foresta alla D’Urso), ogni tanto no (quella con Caparezza si capiva a distanza che era una marchetta discografica o qualcosa del genere).
Alla fine ci si diverte, come nei vecchi varietà dove tutto era in qualche modo annunciato, anche le sorprese, e dove la serena professionalità degli autori garantiva un intrattenimento garbato.
#ilpiùgrandespettacolodopoilweekend è un programma che merita perché, almeno per una volta, vale l’investimento economico: belle scenografie, ospitate non banali, orchestra tosta, regia senza fronzoli.
Unico interrogativo: che lo hanno pagato a fare Daniel Ezralow?

Sgarbi senza sorprese

Dopo il flop della prima (e conseguentemente unica) puntata del suo nuovo programma, Vittorio Sgarbi, pur facendo autocritica, dà la colpa alla Rai perché non sarebbe interessata alla cultura.
E in qualche modo instilla il ragionamento secondo il quale, con questo pubblico, in prima serata hanno successo solo morbosità di cronaca e reality.
Non siamo lontani dalla realtà.
Tuttavia è giusto chiedersi se Sgarbi sia il protagonista ideale per un programma di buon livello culturale. E qui dobbiamo distinguere il critico dal personaggio. Se da un lato Sgarbi, piaccia o no, ha tutte le carte in regola per parlare di arte, dall’altro la sua frequentazione continua di ogni salotto televisivo in cui si discetta di Avetrana come del Grande Fratello, di sesso come di politica, di veline come di santi, lo rende mediaticamente vulnerabile: perché la sovraesposizione toglie appeal, e un personaggio che si rispetti deve (anche) incuriosire.
Invece di Sgarbi sappiamo tutto, anzi sappiamo tutto di ciò che Sgarbi sa.
Il programma su Raiuno doveva essere il contrappeso alla tv di sinistra, la celebrazione della fulgida cultura nazionale, un kolossal costosissimo, il nuovo modello di televisione di qualità.
Gli italiani non l’hanno guardato. Probabilmente perché non era scritto bene, probabilmente perché preferivano qualche tetta e qualche culo, probabilmente perché a nessuno piace aprire un pacco in cui c’è scritto “sorpresa” e trovarci dentro la solita bottiglia di whisky avanzata da Natale.

Autobiografia

Per la prima puntata del suo nuovo programma su Raiuno (“Il mio canto libero” dal 18 maggio), Vittorio Sgarbi ha scelto come argomento Dio. Evidentemente partire con un’autobiografia gli dà sicurezza.

Nessuno tocchi l’elefantino

Vedo il programma di Giuliano Ferrara, non mi piace, ma sono felice che ci sia (il programma, più che Ferrara). Perché la pretestuosità delle polemiche alimentate da un Pdl a corto di argomenti (che non riguardino barzellette, after hour e vizi privati) è messa a nudo dalla messa in onda di “Qui Radio Londra”, dopo il tg delle 20 su Raiuno. Ogni sera Ferrara attacca magistrati (ieri sera Fabio De Pasquale), opposizione e non allineati senza che nessuno batta ciglio. E il bello è che così deve essere, è giusto che sia.
La democrazia vera si misura tra i picchi delle opinioni, non nelle pianure nebbiose della censura. Non si può invocare il contraddittorio come ingrediente fondamentale del giusto processo alla verità, quando in realtà è solo un condimento del verosimile: le idee non si imbrigliano per decreto legge.
Insomma, le apparizioni quotidiane di Giuliano Ferrara sono la legittimazione di qualunque altro opinionista la pensi in modo diverso da lui.
Nessuno tocchi l’elefantino.

Auditel, buone notizie

I dati Auditel di febbraio ci dicono che Canale 5 è in netto calo e che crescono Raidue, Raitre e La7. Raiuno è in piena emorragia di telespettatori, nonostante febbraio sia il mese di Sanremo.
Su Raidue pesa l’effetto Santoro, dato che è la prima serata quella che segna il maggior incremento. Raitre e La7  vedono premiata la loro programmazione attenta.
Secondo me, sono tutte buone notizie che fanno il paio con il tonfo dell’Isola dei famosi, di cui parlavamo qualche giorno fa.
Una televisione con meno reality, più fiction e più approfondimenti spingerebbe molti di noi a riconciliarci col telecomando.

Svegliate il manutentore

de La Contessa

Ogni giorno mentre va in onda lo streaming de La vita in diretta, il sito di Raiuno ci racconta una storia di due anni fa: leggete cosa c’è scritto in piccolo (basta cliccare sull’immagine per ingrandire).
Michele Cucuzza c’era sì, ma fino al 2008.
Ora ci sono Lamberto Sposini e Mara Venier.

Peggio la domanda o la risposta?

Voglio dire che la vita è molto lunga e a volte anche breve.

Lapo Elkann ieri pomeriggio a La vita in diretta, rispondendo alla domanda: cosa consiglia ai gggiovani?

Grazie a la Contessa.