Saviano condannato per il reato di sopravvivenza

roberto-savianoNon mi piace il Saviano scrittore, dell’altro Saviano so poco e nulla. Credo però che adesso si debba evitare il seguente ragionamento semplicistico: siccome i boss che avrebbero minacciato lo scrittore sono stati assolti, lo scrittore stesso non aveva diritto di esistere come caso editoriale.
E ciò perché una cosa sono le minacce di delinquenti, più o meno provate, un’altra è il reale disagio sociale, culturale e fisico nel quale Saviano è stato costretto a vivere.
Per farla breve, provo a cedere io al ragionamento semplicistico: quando c’è di mezzo la sicurezza, la dietrologia è il miglior modo per sbagliare. Giudicare una persona a rischio come fanfarona solo perché non è stata ancora accoppata o solo perché non si è fatta acchiappare dal casalese di turno, è un torto alla ragione più elementare: sopravvivere non è ancora reato in questo Paese. Come non lo è scrivere libri sopravvalutati. O sparare a zero contro tutto e tutti dal comodo divano di casa.

Faceva l’amore non la guerra

la guerra dei vent'anni ruby berlusconi

Quindi la “Guerra dei vent’anni” era tutta una questione di sesso. Almeno così sembra, a dar retta all’imbarazzante ricostruzione fatta ieri da Canale 5 dei disastri giudiziari di Silvio Berlusconi.
Il programma di un irriconoscibile Andrea Pamparana ha infatti presentato uno spaccato molto personalizzato delle vicende giudiziarie dell’ex premier: accuse e accusatori inconsistenti (si attendeva una rivelazione sui calzini della Boccassini), telecamere ammesse nei luoghi eleganti delle cene eleganti, Ghedini sbrodolante, Ruby monastica, Silvio consolante.
L’alibi era solido (quello della rete, non quello dell’imputato): Canale 5 è privato quindi non scassateci la minchia e cambiate canale se non vi va. Come se il conflitto di interessi e la questione delle concentrazioni editoriali fossero acqua fresca.
“La guerra dei vent’anni” ci ha raccontato una fiction travestita da cronaca, perché è facile ricostruire la realtà con l’audio originale delle deposizioni in un’aula di giustizia: basta saper lavorare di forbice e di montaggio.
Per il resto, un concentrato di omissioni, ammiccamenti, falsità che spero finiranno in un dossier dell’ordine dei giornalisti. Mai un intervistatore che non fosse genuflesso, mai un accenno alla singolarità di un procedimento in cui l’imputato stipendia regolarmente i testimoni, mai un riferimento ai famosi vent’anni del titolo (la corruzione, l’ombra della mafia, i fondi neri, eccetera). A un certo punto la giornalista che reggeva il gioco a Ruby ha abbozzato una domanda premettendo: “Scusa se te lo chiedo…”. E lì si è capito tutto: brutta cosa quando per portare a casa uno stipendio si sceglie di vendersi.

Andreotti, la mafia e il passo falso di Caselli

GIULIO-ANDREOTTI

Il motivo per cui Giulio Andreotti è morto essendosela fatta sostanzialmente franca dall’accusa di mafia è tutto nel titolo di un libro, edito nel 1995 da Tullio Pironti Editore: “La vera storia d’Italia”.
Il volume raccoglie l’atto d’accusa dei giudici di Palermo nei confronti di Andreotti e dà ampia testimonianza della pretenziosità del castello di indagini nel quale si voleva intrappolare il più potente uomo politico italiano.
Nello scrivere “la vera storia d’Italia” infatti ci si dimenticò, per foga o imperizia, di incardinare prove e testimonianze con una logica di stringente plausibilità e si badò più all’effetto che alla sostanza. Risultato: l’imputato fu assolto in primo grado addirittura perché il fatto non sussiste (solo in seguito si arrivò a dimostrare che almeno fino al 1980 era colpevole di aver aiutato Cosa Nostra, ma il reato era purtroppo prescritto). Continua a leggere Andreotti, la mafia e il passo falso di Caselli

La più marocchina di tutte le egiziane

Ruby Rubacuori protesta a Milano

Riassumendo. C’era una ragazza marocchina che la sera del 27 maggio 2010 era stata accompagnata in questura in quanto sospettata di furto e senza documenti addosso. La ragazza era minorenne e abitava a casa di una prostituta brasiliana, la quale quella sera pensò bene di chiamare l’allora presidente del consiglio per avvertirlo dell’increscioso contrattempo. Questi non esitò un attimo, una minorenne che vive con una prostituta va aiutata comunque, specie se – come lui stesso disse – si tratta della nipote di Mubarak, e telefonò subito al capo di gabinetto della questura per chiedere che la ragazza fosse affidata a una consigliera regionale anziché, come prevede la legge, a una comunità per minorenni. Così avvenne e la giovane sfortunata finì tra le braccia della premurosa esponente politica.
Sette mesi dopo l’ex presidente del consiglio finì indagato dalla procura di Milano per concussione, per aver approfittato della sua carica di premier per esercitare una pressione indebita sui funzionari della questura al fine di coprire il reato di prostituzione minorile: la ragazza sfortunata infatti non era sconosciuta all’allora premier poiché avrebbe partecipato, con l’esponente politica premurosa, ai festini che si svolgevano nella famosa villa dell’illustre politico. Non gratis, s’intende.
Il 15 febbraio del 2011 l’ex premier venne rinviato a giudizio. Se esistesse il reato di eccesso di panzane sarebbe stato costretto a dichiararsi colpevole, ma siccome proprio quel reato nei codici non c’è, il premier pochi mesi dopo fece approvare alla Camera e al Senato un conflitto di attribuzione in cui si sanciva che la ragazza sfortunata era la nipote di Mubarak pur non essendolo e pur essendo marocchina e non egiziana.
Il 3 ottobre 2011 nello stesso filone di inchiesta vennero rinviati a giudizio la caritatevole consigliera regionale, il direttore del TG4 e un importante talent scout. La accuse: induzione e favoreggiamento della prostituzione minorile.
Riassumendo, ieri la sfortunata ragazza marocchina – sospettata di furto, favorita da un premier, indicata dai magistrati come prostituta, partecipante a notti magiche non a titolo gratuito, oggi animatrice di serate in discoteca non a titolo gratuito e personaggio di copertina non a titolo gratuito – ha inscenato una protesta davanti al palazzo di giustizia di Milano prendendosela coi giudici e con la stampa che la violenta. Probabilmente perché non pagano.

Legittimo turbamento

Credevo di averle viste tutte, ma mi sbagliavo. L’arroganza del sistema berlusconiano, nella fattispecie incarnato nei legali del premier, ha raggiunto oggi una nuova vetta di non invidiabile primato.
L’abbandono dell’aula, nella quale si celebra l’appello del processo per i diritti tv, degli avvocati difensori dell’ex premier è infatti un atto di disprezzo nei confronti della legge e dei suoi rappresentanti. E poco c’è da discutere su codici e norme.
Il legittimo impedimento invocato per sospendere il processo durante la campagna elettorale è solo l’ennesimo, ridicolo, pretesto per diluire i tempi del giudizio nei confronti di un uomo che per troppo tempo si è sentito al di sopra di ogni giudizio.
A Berlusconi non gliel’ha imposto il medico di impegnarsi in una nuova campagna elettorale quindi non si capisce perché le sue pendenze legali debbano risentire di impegni non inderogabili.
Agli avvocati-dipendenti-compagni di partito-colleghi di parlamento del padrone si può solo dare un’indicazione semplice e terra terra: legittimo impedimento non significa che tutto si blocca se uno ha altro da fare.
E’ più chiaro così?

Kant, l’Ilva e la quinta di reggiseno

Alla fine, quello che sta emergendo è che c’era questo illuminato signore, miliardario e potente, con un Paese sulle spalle e una tremenda voglia di fare e distribuire.
Costui organizzava serate con decine di giovani belle e pettorute che avevano una sola pulsione: sapere, apprendere, imparare.
Si parlava di filosofia, in questo cenacolo di intellettuali: lui, Lele Mora, Emilio Fede.
E’ tutto scritto nei verbali di un processo ingiusto, orchestrato da chi vorrebbe mettere alla forca questo benefattore. Perché lui solo bene faceva, ci aveva pure costruito su un progetto politico: ricordate il partito dell’amore?
Assisteva giovani sbandate che dimenticavano le mutandine a casa, dava una mano a povere modelle senza fortuna, pagava gli studi a ex gieffine, assumeva soubrette disoccupate (senza tuttavia dar loro la pena di lavorare). C’era per tutte, a qualsiasi ora del giorno e della notte.
E’ un peccato che non si sia trovato nessuno all’Ilva con una quinta di reggiseno e con un briciolo di passione per Kant.

La coerenza della Santanchè

Daniela Santanchè, oggi a Skytg24

Se io avessi soltanto un sospetto che Silvio Berlusconi avesse dei comportamenti non consoni agli uomini, sarei la prima a fare una battaglia senza se e senza ma; invece io ho una certezza di come Berlusconi tratta le donne, sono dalla sua parte.

Daniela Santanchè, 26 marzo 2008

Vorrei fare un appello a tutte le donne italiane. Non date il voto a Silvio Berlusconi, perché Silvio Berlusconi ci vede solo orizzontali, non ci vede mai verticali. Lui non ha rispetto per le donne, lo dimostra la sua vita giorno dopo giorno.  Berlusconi ha sempre utilizzato le donne come il predellino della sua Mercedes: un punto d’appoggio per sembrare più alto dei veri nanetti di cui si circonda.

 

Grazie a Massimo Murianni.

Vista lunga, gonna corta

Con quel che sta venendo fuori nel processo a Silvio Berlusconi per il Rubygate si alimenta una domanda che, giorno dopo giorno, diventa sempre più ingombrante. Perché a Barbara Faggioli non è stato dato uno scranno in Parlamento? Ovvero, perché quest’odiosa discriminazione tra intellettuali dalla vista lunga e dalla gonna corta?
Forse è bene rassegnarsi e non aver fretta di trovare la risposta: davanti a certe ingiustizie la cronaca non può nulla, meglio attendere la Storia.
Possibilmente sorseggiando un daiquiri.

La rincorsa

Come qualsiasi divinità, anche per il Dio Denaro c’è bisogno di una religione che ne definisca le pratiche, i riti, il calendario, la liturgia, onde poter far emergere dall’indistinto del Sacro il bene, indicando dove il Demone può diventar malefico.

Sul suo sito David Riondino prende una tale rincorsa per tentare di argomentare il rimpatrio di soldi in nero attraverso lo scudo fiscale, che dimentica di parlarne.

Party e parti (lese)

Ci pensavo ieri mentre correvo (penso sempre quando corro, infatti mia moglie dice che dovrei correre ancora di più): questa storia delle ragazze di Arcore considerate dai giudici come “parti lese” è abbastanza ridicola.
Tralasciando le argomentazioni più trite – dalla partecipazione volontaria alle feste, alla remunerazione  – mi è venuto in mente un collegamento ideale con l’ormai celebre passaggio parlamentare in cui si sanciva che Ruby era la nipote di Mubarak.
Due cazzate simili e opposte non si annullano a vicenda, ma possono fornire nuovi orizzonti.
Se è possibile che un’aula di deputati imponga alla nazione una ricostruzione cialtronesca, è legittimo che un’aula di giustizia suggerisca alla stessa nazione una ricostruzione grottesca. Tutto logico, idealmente conseguenziale.
Basta sterilizzare tutto con una risata.