Non c’è problema

Ho scritto un messaggio a un caro amico e collega, uno che lavora attivamente nei giornali, mica come me che approfitto dello spazio che mi concedono: “Bisognerebbe farsi l’Italia a piedi, fuori dai grandi circuiti (turistici, economici, politici) e raccontarne le storie. Molto istruttivo…”.
Perché da questa Francigena personalizzata ciò che sto traendo ha a che fare con le vicende umane, più che altrove, in altri viaggi in giro per il mondo.
Il merito è innanzitutto del mezzo sul quale viaggio: le mie gambe. Muoversi a piedi, più che farlo in bicicletta (per citare il parente stretto della camminata), ha un effetto di moltiplicazione delle sensazioni. Una specie di catalizzatore di emozioni. Ti muovi lentamente, con il tuo zaino sulle spalle, aspetti e pregusti, soffri e godi, sudi e ringrazi. Non esiste, a mio parere, esperienza così totalizzante come un lungo viaggio a piedi, senza sherpa e passaggi abusivi, senza scorciatoie fisiche e soprattutto mentali (un concetto sul quale torneremo prossimamente).

In questi giorni le uniche persone che ho incontrato sulla Francigena erano fuori dalla Francigena: il percorso dei camminatori è praticamente deserto, perché di questa parte del cammino non gliene frega niente a nessuno, col caldo, le zanzare e la maggior parte dei centri vitali chiusi per ferie.
Anima di giornalista impone: laddove non va nessuno, tu ci devi essere.
Questa è la teoria.
La pratica è che mi piaceva riprendere da dove mi ero fermato lo scorso anno (con un piccolo sconto di sacrificio nelle lande impossibili del Vercellese).
E il mio passo continuato diventa esperienza umana col contadino di Gambolò (andatevelo a cercare questo posto) che ha un piccolo B&B e che si offre di farti parcheggiare la macchina per il tempo necessario al tuo cammino, nel mio caso 15 giorni, senza chiederti nulla in cambio: “Ho spazio lì, se non le secca”. Ed è magia constatare che il riposo di una Toyota Hybrid sarà accanto a un trattore alto due metri e passa: la pacificazione del progresso con la tradizione, di ciò che arriva con ciò che consente che arrivi. Senza trattori non saremmo nulla, ricordiamocelo noi stolti cittadini freschi di manicure.

A Gropello Cairoli mi trovo in un posto splendido, Villa Cantoni, gestito da una coppia di curiosi, la migliore categoria di persone che esista. Quando capiscono chi sono e cosa ci faccio (lì e altrove) improvvisano un aperitivo per liberare la loro voglia di raccontare. Il posto in cui siamo trasuda storia. Casa natale del filosofo Carlo Cantoni e crocevia di antiche passioni risorgimentali, l’edificio, circondato da un giardino maestoso, meriterebbe un museo. Se ci fosse stata mia madre, avrebbe prenotato per i prossimi sei mesi. Ma si tratta di una cattedrale nel deserto, infatti Gropello Cairoli pur essendo inserito nel circuito della Via Francigena, non ha altro da offrire in questo periodo. Manco un ristorante, a parte un postaccio di affabili volenterosi dove puoi scegliere se mangiarti un panino sulla strada a favore di scappamento, all’interno con 35 gradi, o in una specie di cortile disastrato tra contenitori dell’immondizia e zanzare col bidoncino.

Chiusa la parentesi del misfatto di Pavia dove, come vi ho raccontato, un tale pretende di spacciare una stamberga per un appartamento in cui (soprav)vivere ad agosto, c’è la storia più emblematica di quelle raccolte finora.
Sono a Castel San Giovanni, Hotel Rizzi. Il percorso per arrivare qui è quasi tutto su asfalto, per fortuna la tappa è breve: appena 13 chilometri. L’hotel è distante dal centro abitato, in una landa semideserta: del resto se volevo trovare una accoglienza unz unz, andavo a Riccione.
Arrivo in tarda mattinata, come spesso accade, provato. L’hotel è deserto. Alla reception un ragazzo dissimula la pietà. Prendo possesso della stanza e sommessamente chiedo come fare a mangiare qualcosa. Il centro abitato è a due chilometri abbondanti: il che significa quattro chilometri a pranzo e quattro chilometri a cena. Otto chilometri in più per uno che viaggia a piedi (a 59 anni) sono un pessimo investimento sulle gambe che devono reggere sino alla fine.
Il ragazzo mi guarda e mi dice, con un fare che non so come reputo meravigliosamente meridionale: “Non c’è problema”.
Il tempo di farmi una doccia e c’è pronta un’insalata ricca come raramente ho visto. Fatta con le sue sante manine, che il dio dei receptionist lo abbia in gloria.
Più tardi incontro il proprietario dell’hotel, un tipo affabile e pacato, che mi spiega: “Solitamente in questo periodo chiudiamo il ristorante, ma siccome quest’anno ho alcuni dipendenti di una ditta che continua a lavorare nelle vicinanze, non mi è sembrato giusto piantarli in asso”.
Cucina on demand.
Nella grande sala ristorante (nella foto), che comunque mantiene tutti i tavoli apparecchiati (“sennò sembra triste”), siamo in otto a cenare stasera, cinque – i dipendenti di cui sopra – sono immigrati.
In cucina c’è il cuoco. In sala ci sono il titolare e la sua figlioletta che servono ai tavoli con una cura commovente.   
La cena è ottima. E, capite bene, non solo per il cibo.

4- continua

Le altre puntate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Eravamo io, un iraniano, un egiziano e una pizza

I Cammini sono fatti di passi. Alcuni anche falsi. Tutti i Cammini hanno una quota di imprevisto che va considerata ontologica e che non è scindibile dalla parte poetica e da quella prettamente fisica (i Cammini sono faticosi, devono esserlo altrimenti diventano passeggiate ai giardinetti).
In questo blog vi ho raccontato molti imprevisti: dalle strade sbagliate in piena montagna e senza copertura telefonica all’albergatore che si inghiotte la tua prenotazione lasciandoti all’addiaccio, stanco, sudato e incazzato (immaginate il conseguente mix micidiale di attributi rotanti).
Più prosaicamente, magari a favore di citazione, i successi sono impastati anche con la sabbia dell’insuccesso, che può avere varie graduazioni, ma qui non ci impelaghiamo in distinzioni sterili tipicamente social e altrettanto tipicamente stupide.
Un’avvertenza.
Scrivo queste righe da una pizzeria alla periferia di Pavia. Uno dei pochi locali aperti in questo periodo nella zona in cui mi trovo. Quando uno in estate cammina, e cammina a lungo, la sera non può farsi altri chilometri per sfamarsi dal momento che i piedi e le gambe sono già belli e andati: ma questo è l’ABC. Il vero disastro è girare con sandali (i piedi devono stare sempre nudi durante il riposo) e pantaloncini in luoghi frequentati da persone “normali”: non è proprio il passepartout per un ristorante stellato.

Insomma sono in una pizzeria dove il proprietario è un iraniano, con un egiziano che lo aiuta e un non meglio identificato locale che sovrintende alle paturnie del proprietario-pizzaiolo-manager. Dettaglio non troppo dettaglio, parlano tutti pavese. Nel senso che hanno un’integrazione attiva che certi malacarne improvvisati proprietari-pizzaioli-manager delle mie parti se la sognano. Quindi chapeau prima ancora di assaggiare.
Ho chiesto asilo in questo locale non solo per la pizza, ma anche per stare un po’ a scrivere, per i fatti miei.
Loro hanno sorriso.
Io ho chiesto cosa c’era da bere, of course.
Loro hanno tirato fuori il loro pezzo migliore, una Peroni ghiacciata (Fantozzi docet). Mi hanno fatto accomodare in uno dei sette tavoli vuoti del locale (questa è una pizzeria da asporto che non aspira ad altro) e mi hanno sparato un ventilatore in faccia: il fresco condizionato qui sarebbe un’offesa al buon nome del locale.

Insomma sono qui, con la mia Peroni e gli iraniano-egiziani sorridenti che si sbattono per tirare a campare. Una tranche de vie memorabile alla mia età. Perché io faccio il turista e loro stanno qui a trattarmi con riguardo non affettato. Io scrivo e loro stanno lì a sgobbare al caldo, che arriva anche al mio tavolo, ma grazie al ventilatore il fastidio diventa persino spunto di narrazione: siamo fatti di paragoni e troppo spesso sbagliamo a mettere a fuoco.
Sono finito qui perché ero stanco. E ora ci rimango perché, all’improvviso e senza alcuna giustificazione recensibile, sto bene. Al caldo nell’afa, con una birra che non berrei mai, in mezzo a un viavai di clienti che ordinano, aspettano impazienti e se ne vanno.

Perché sono finito qui?

La risposta sta nelle prime righe di questo post e la sublimo in una parola.
Imprevisto.
Una seconda parola, mi voglio rovinare.
Contrattempo (ma trattasi di sinonimo quindi non vale).
Avevo prenotato un appartamento in un posto che pareva figo. Si chiama Mood Villa Glori, tenetelo a mente quando volete scansare qualcosa. Un posto dall’altra parte della città, in centro.
Quando sono arrivato per prendere possesso della stanza, dopo venti e passa chilometri sotto il sole, non ho trovato nessuno. Ho cercato il numero di telefono nella prenotazione dell’agenzia e ho chiamato. La voce è stata sbrigativa: mi mandi foto della carta di identità e codice fiscale e le invio le istruzioni, si ricordi di lasciare 10 euro domani per la sanificazione (ma non avevo pagato un tutto incluso?).
Poi tutto accade via whatsapp.
Io eseguo e quello mi manda una schermata di istruzioni standard. E qui mi sarei dovuto insospettire: la schermata standard è piena di refusi e strafalcioni. Ma come, neanche ti dai la pena di scrivere qualcosa di personalizzato per uno che ti sta pagando (non poco) e per giunta mandi un jpeg che Marta Flavi al confronto è un Nobel per la Letteratura?
Niente, sono troppo stanco, sudato, sfatto.
Raggiungo la stanza e trovo una stamberga. In pieno centro, ma una stamberga. In fondo anche i portici delle Poste di Palermo sono in centro, ma dormirci sotto – se non sei un santo in terra come Biagio Conte – non ti fa certo sentire nel groove della città.
Seguono rapidi dettagli tecnici. Stanza angusta in cima a una scala angusta. Niente aria condizionata nell’estate più calda di sempre. Manco un campioncino riciclato di bagnoschiuma. Un solo interruttore per tutte le luci: che se tu vuoi leggere devi metterti a favore di plafoniera centrale e soprattutto alzarti, quando ti stai per addormentare, in modo che ti possa svegliare in tempo per recuperare il letto e non assopirti per terra.
Niente wi-fi, a parte una “saponetta” anteguerra messa lì per fare da comparsa. E soprattutto niente connessione ordinaria con il tuo telefono dal momento che alcune compagnie, tra cui la mia, lì sono in zona d’ombra: un dettaglio non indifferente se dialogate con un tale che non si manifesta di persona e che chatta solo via whatsapp. Della serie un muto dice a un sordo, ma il sordo ha già i soldi in tasca e di quello che il muto gli dice non gliene può fregare di meno.
Singhiozzo le mie proteste, non piangendo ma sperando nel refolo di connessione in questo angolo infausto di (in)civiltà, e faccio quel che alla fine mi riesce meglio. Mandare a fanculo, ahimè.
Imprecando mi trovo un’altra sistemazione con un corredo di problemi che a voi possono sembrare insignificanti e che io riassumo in poche parole: fatica, piedi doloranti, caldo asfissiante, voglia di doccia e letto.

E ora sono qui. Nel meraviglioso opposto del Mood Villa Glori.
Alla pizzeria Aselli.
Col ventilatore che mi allieta l’orecchio sinistro e la compagnia che, involontariamente, mi regala il sottosopra della mia mission.
Ascoltare, esplorare, isolare.
Tracciare un perimetro tra ciò che siamo e ciò che ci influenza a prescindere di ciò che siamo.
E chissà, scoprire l’imperdibile ispirazione di una Peroni ghiacciata.

2-continua

Le altre puntate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.