L’attimo

L’articolo pubblicato oggi su La Repubblica.

Nel più grande romanzo fantasy che sia mai stato scritto, “Alice nel paese delle meraviglie”, Lewis Carroll descrive l’eterno mistero dell’attimo facendo rispondere il Bianconiglio alla domanda “per quanto tempo è per sempre?” con la celebre frase: “ A volte, solo un secondo”. Di attimi è fatta la nostra vita e negli attimi si insinua la morte, nostra e del nostro universo, sparigliando le carte sul tavolo dell’esistenza. Nella tragedia di Catania, con un bimbo che muore nel chiuso di un’auto rovente perché dimenticato dal padre, l’orrore non si consuma nelle cinque ore in cui la vita abbandona il piccolo, respiro dopo respiro, nel parcheggio della cittadella universitaria, ma nel nanosecondo in cui la mente del padre cancella la presenza di quel figlioletto addormentato sul sedile posteriore. Nella nostra umana consapevolezza che tutto ha una causa ma nulla è evitabile possiamo tentare di trovare giustificazioni nello stress, nella routine, nella distrazione di un’era tecnologica, ma è solo una paradossale e disperata ricerca di conforto: perché noi siamo quel padre trafitto in eterno dalla colpa e non ci serve una ragione, ma una benda con la quale tamponare la ferita. E intanto facciamo fatica a confessarci che non siamo solo la biochimica che regola sonno e veglia, depressione ed euforia, ma anche l’eterea forza che ci spinge fuori dalla nostra orbita di razionalità. Siamo il piede che schiaccia l’acceleratore quando non ne abbiamo bisogno, siamo il battito di ciglia prima del passo fatale, siamo il pensiero che ci distrae quando non abbiamo pensieri. Siamo attimi senza padrone, che arrivano e se ne vanno senza che nessuno se ne accorga e ogni tanto intercettano il momento cruciale come angeli sterminatori. Prendono il tempo, lo rendono eternità di brandelli e spariscono, lasciandoci soli nell’inferno latente delle nostre vite.

Alto Godimento

Uno dei ricordi più nitidi della mia infanzia è legato a Gianni Boncompagni. È il 1971, ho otto anni, ho gli orecchioni e non sono andato a scuola. È quasi ora di pranzo, ma i miei non sono ancora rientrati a casa. Mia nonna si occupa in un’altra stanza di mio fratello che è ancora piccolo. Io mi chiudo nella mia cameretta con la radio Voxon di mio padre. Vorrei smontarla (la radio o forse anche la cameretta), a quell’età smontavo tutto, pezzo per pezzo senza arrivare a nulla che non fosse la vite primordiale. Ho gli attrezzi e una voglia matta di usarli. Deve essere stato in quel periodo che mi è cresciuta l’insana voglia di decostruire tutto quel che è ordinato, di scardinare insensatamente: che siano transistor, parole o pezzi di vita sarà il caso a stabilirlo.
Eppure prima di svitare (avevo anche un insensato martello, pronto per le occasioni di maggiore resistenza), accendo. E dalla radio escono due voci che mi catturano. Parlano di un esperimento mai provato prima: la radio dell’olfatto. Dicono: “Avvicinate il vostro naso all’altoparlante e annusate… cosa sentite?”. Io ovviamente mi lascio ammaliare, ci mancherebbe, sono sensibilissimo alle droghe logiche, alle sirene della stranezza. E annuso: sento odore di metallo… sento odore del dopobarba di mio padre. E penso che la radio Voxon non sia adatta a questo esperimento. Annuso di nuovo. Ma quelli parlano di rosmarino, di menta…
E io ho il naso inutilmente spalmato sulla Voxon.

Ci ho messo anni per metabolizzare questo ricordo.
Era Alto Gradimento e la panzana della radio dell’olfatto era una briciola dell’immenso bagaglio di scherzi e genialate che i due conduttori, Renzo Arbore e Gianni Boncompagni, avevano inventato.
A questo ho pensato quando ho appreso della morte di Gianni Boncompagni. A quanto la radio e la tv che lui e Arbore hanno inventato ha condizionato la nostra esistenza.
Alto Gradimento è stata la base di una radio trasversale, fuori dagli schemi e irriverente. Per capirne il peso pensate che il programma radiofonico più ascoltato in Italia oggi è lo Zoo di 105, un versione infinitamente più volgare sboccata e piccola del capolavoro di Arbore e Boncompagni.
Poi il tempo ha diviso le strade dei due geni e anche dei miei gusti.
Sono sempre stato un arboriano convinto: più L’altra domenica (Arbore) e meno Discoring (Boncompagni).
Non ho mai visto una puntata di Non è la Rai, ma solo per motivi anagrafici. Si narra che l’intuizione di Boncompagni fu quella di aver inventato un programma che per immagini e palinsesto intercettava l’orario della pippa degli adolescenti appena rientrati dalla scuola (e chissà i perversi padri…). Però, d’altro canto, ritengo che Il mondo, Ragazzo triste e Tuca Tuca siano canzoni geniali, ognuna col suo carico di innovazione e irriverenza.
Ecco, in soldoni, perché la morte di Boncompagni ci riguarda. Perché riguarda tutti quelli come noi, assetati di musica, oltre i cinquanta, diffidenti nei confronti della tv ma pronti a farsi stregare dalla prima minchiata tecnologica. Combattuti tra la compulsione del nuovo a tutti i costi e la drammatica arrendevolezza con cui Arbore ha ricordato ieri il compagno di mille, incredibili avventure: “Ci siamo divertiti moltissimo e ora non ci divertiamo più”. Ma in fondo va capito: amara può essere la vecchiaia di chi ha avuto una vita dolce.

Addio al nostro alfabeto musicale

Ci si abitua alle assenze, non ci si abitua mai alle voragini. Perché un’assenza è metafisica, una voragine è fisica. Quella di Prince è una voragine per noi affamati di rock, per noi ex giovani sopravvissuti agli anni Settanta, per noi mediocri strimpellatori in cerca di un genio da imitare.
Prince era in grado di sconvolgere tutto l’universo musicale conosciuto. Toglieva eco ed effetti laddove una teoria di delay copriva le nefandezze di un cattivo esecutore, cambiava nome quando il suo era troppo famoso, riempiva di note il vuoto di mille esistenze che, come la sua, venivano dal nulla senza aspirare ad altro che non fosse poco più del nulla.
Ci ho pensato per qualche ora, come se dovessi elaborare un lutto personale. Ed effettivamente non di lutto personale si tratta, ma generazionale. Nell’epoca in cui una generazione ha perso pilastri come David Bowie, Maurice White e (per l’Italia) Pino Daniele, c’è poco da sperare: quando un artista passa dalle cronache alla storia è il momento di fermarsi e respirare. Come quando arrivi a cinquemila metri di altitudine e guardi quel che c’è sopra pensando a quel che hai sotto: null’altro da fare, solo tesaurizzare l’esperienza, che sia ossigeno, musica o nostalgia compressa non importa. Devi respirare e basta.
Respiro.
Ok.
Prince era l’alfabeto di chi aveva due orecchie collegate a un centro del desiderio. Poteva non piacere, perché certe sue performances erano davvero urenti. Ma non importava: a nessuno piace la consecutio temporum, ma tutti sanno a che serve. E Prince serviva. A sognare una pioggia viola senza chiedersi nulla sul colore pernicioso. A chiedersi quando le colombe piangono. A implorare un bacio come un’ossessione violenta.
Non so quanti vi racconteranno della vita spericolata del genio di Minneapolis, non immagino quanti saranno i link con la sua fama di simbolo (bi)sessuale, né mi interessano i dettagli di una morte misteriosa come la sua vita privata.
So soltanto che Prince l’ho inseguito per il mondo, che l’ho raggiunto in un remoto bosco della Danimarca: e lì l’ho trovato meravigliosamente snob (non eseguì neanche uno dei suoi cavalli di battaglia). Che l’ho apprezzato anche per le sue trovate più commerciali (perché lo stile non è acqua).
Che mi mancherà come il caffè la mattina, quando hai gli occhi ancora chiusi e ti rifugi in una certezza antica, un riff in la maggiore, una frase nota in una bocca impastata, una voce amabilmente stridula, la chitarra che urla, buongiorno mondo ma che cazzo di buongiorno ti meriti se è sempre lo stesso mondo di merda? Buongiorno lo stesso. E buonanotte Prince Roger Nelson, un nome paradossalmente lungo per uno che a un certo punto ha scelto di far passare l’apocalisse sul suo stesso elemento anagrafico, con un’ambiguità ostentata come la maschera di Pulcinella.
Buonanotte all’uomo che rinnegò se stesso per darsi una libertà maggiore, quella di superare i confini di una popolarità che rischiava di omologarlo anziché esaltarlo.
Buonanotte al macho di un metro e cinquantotto centimetri, sul quale nessuno ha mai avuto il coraggio di ironizzare.
Buonanotte e vaffanculo, maledizione
Chi ci darà il risveglio domani?

Bowie, il paradiso negli inferi

Non c’è discografia da citare, non c’è neanche un esempio da fare. Di David Bowie ognuno di noi ha un ricordo unico e singolare. Non esiste, a mia memoria, artista più variopinto e meravigliosamente indecifrabile. Era rock, era pop, era soul, era punk, era attore, era pittore, era mimo, era tossico, era extraterrestre, era manipolatore dei media, era libero, era schiavo della popolarità, era avanti, era unico nella moltitudine, era eterno ancora prima che morisse.
Non ha avuto fans, ma adepti. Perché Bowie ti includeva nella sua musica come se dovessi aderire a una setta: ogni giorno un miracolo, ogni album un sortilegio, ogni ricordo una colonna sonora. Il suono asciutto dei suoi dischi – chiamiamoli ancora così nonostante cambi il formato, erano e rimarranno dischi – si riconosceva sin dall’attacco del primo ascolto. Sentivi un giro di basso, i primi due colpi di rullante, il graffio di una chitarra elettrica e dicevi: “Cazzo, questo è Bowie”.
Per molti era un trasformista, per tutti gli altri era il dio di una trasformazione che ti portava a credere che anche negli inferi c’è un angolo di paradiso. Dove il rock sgretola i confini tra bene e male, tra bianco e nero, tra vita e morte.

La morte felice

Mango morto

Mango se n’è andato guardando il suo pubblico che lo guardava mentre moriva. La morte più felice, quella di un artista che lascia il palco della vita mentre è ancora – fisicamente – sul palco di un teatro, colpisce come un ossimoro biologico, come un azzardo del destino.
L’unica fortuna che ci viene incontro quando moriamo è probabilmente legata al nostro ultimo sguardo. C’è chi vede l’asfalto, chi la faccia stralunata di un medico, chi il ghigno di un killer, chi le lacrime di coloro che ci sopravvivono, c’è chi chiude gli occhi per non vedere e chi li sgrana per rubare l’ultimo filo di luce. Ma è sempre questione di fortuna.
Mango è uscito di scena tra gli applausi e non importa se erano disperati. Andarsene così, quando si percorre quella impervia strada obbligata che è la vita, è un modo per lasciare lo spartito sempre aperto, per far suonare all’infinito la canzone più bella.
Quand’ero giovane pensavo spesso alla morte, ma sempre quando non avevo nulla da fare: non accadeva mai, ad esempio, che ci pensassi mentre mi arrampicavo su una falesia o mentre correvo in moto. Probabilmente perché la felicità è l’antidoto migliore contro l’overdose di realtà. Oggi alla morte penso pochissimo, mi dà più fastidio l’idea di non saper/poter più fare certe cose, che realizzare l’implacabile avanzamento del countdown.
Si è davvero fortunati quando ci si trova al cospetto della morte senza che ci sia stato il tempo di fare le presentazioni. Ecco perché sono convinto che Mango se ne sia andato felice.

La storia di Armando

Ieri è morto a Palermo Armando Vaccarella, un anziano giornalista che è stato punto di riferimento per un paio di generazioni di giornalisti. Sul web ci siamo ritrovati in molti a ricordarlo, colleghi, ex compagni di scrivania, amici, ex amici. E il bello è che almeno per una volta abbiamo raccontato tutti la stessa storia. Quella reale, di Armando, l’uomo che ci forgiò col suo rigore scanzonato.

Liberaci dal prosciutto

Non esistono città sbagliate. Esistono uomini sbagliati.

Su diPalermo Francesco Massaro dice con semplicità quello che molti hanno paura persino di sussurrare. E cioè che se un delinquente muore durante una rapina, in fondo bisogna tenere conto che se l’è andata a cercare (lo so, è brutto da sentire o da leggere) e la società non deve per forza sentirsi colpevole. La violenza e la sopraffazione non si combattono con le minestrine dei buoni sentimenti, ma con la certezza delle conseguenze che la natura stessa ci consegna: se impugni una pistola, quella pistola potrà ucciderti; se vivi nel male, quel male potrà toccarti.
E per dire/pensare queste cose nell’anno di grazia 2012 non bisogna necessariamente essere fascisti. Basta vivere con gli occhi aperti e lasciare il prosciutto nel piatto.

Senza D’Avanzo

Senza Giuseppe D’Avanzo la nostra repubblica, quella che non si sfoglia ma nella quale viviamo e ci disperiamo, ha un guardiano in meno. E’ facile immaginare la gioia tra i delinquenti in giacca e cravatta che erano da sempre i nemici di D’Avanzo. Non so come, ma facciamo in modo da guastare la festa a tutti quelli che in questo momento gioiscono per la scomparsa del migliore giornalista d’inchiesta italiano.

Notizia: non sono morto

Da qualche giorno, complice l’algoritmo di Google o più probabilmente la cronaca, si è acceso un nuovo dibattito su un vecchio post di questo blog in cui si parlava di quella strana propensione politica del centrodestra per le belle ragazze.
Qualche strano personaggio è entrato in modo virulento nella discussione e ha cercato di provocare il sottoscritto e i lettori. Ovviamente nessuno ha abboccato.
Nulla di strano fino a quando, ieri, mi sono accorto che qualcuno aveva stravolto la mia voce su Wikipedia scrivendo, tra l’altro che sono un attivista politico, che sono morto improvvisamente il 19 gennaio 2011 per un abuso di psicofarmaci o droghe e che, nonostante la mia dipartita, questo blog veniva aggiornato attivamente da una segreteria organizzativa che continuava a scrivere a mio nome per rispetto delle mie misteriose volontà.
Wikipedia ha ovviamente corretto la voce.
Tutti i dati relativi agli IP sono stati registrati.
Questa mattina sporgerò denuncia penale per diffamazione, non senza promuovere una causa civile per il risarcimento dei danni.
Ciliegina sulla torta: il pirata di Wikipedia è uno dei provocatori di cui sopra. L’IP lo incastra. Furbo, eh.