Martirio quotidiano

C’è un’evoluzione nel metodo Travaglio, quella sorta di cerimonia sacrificale e laica che consiste nel prendere un preconcetto ed elevarlo a fatto acclarato senza inciampare in un minimo scalino di coscienza. È il finto martirio dopo la condanna. Marco Travaglio ha diffamato il padre di Matteo Renzi e un giudice lo ha condannato. Accade, purtroppo, di sbagliare: solo che il Fatto quotidiano ha sbagliato non una, non due, ma tre volte nello specifico dato che sono tre gli articoli contestati. D’accordo, accade di sbagliare e reiterare l’errore. Si può scegliere di chiedere scusa oppure di tirare dritto a testa alta. Invece Travaglio che fa? Usa il suo preconcetto per martirizzarsi da solo, affermando di essere stato condannato per una parola sbagliata inserita in un contesto in cui la sostanza dei fatti era fondamentalmente esatta. Che è come dire: io scrivo che sei un ladro disteso su un campo di margherite, mi condannano per il ladro, ma le margherite c’erano tutte. Poi la ciliegina sulla torta: Renzi non ha mai pagato per le sue balle. E qui si rasenta il sublime, accostando in pieno stile travagliesco un reato (il suo, cioè la diffamazione) a un’eventuale panzana (quella di Renzi) che reato non è.
Gran finale con appello ai lettori del Fatto quotidiano a sostenere il giornale in questo momento così difficile. I lettori rispondono, ed è un sollievo per tutti che un giornale riesca a sopravvivere agli errori di chi lo dirige.

Travaglio, l’acido e il diritto di metafora

C’è questa battuta di Marco Travaglio sulla legislatura da sciogliere nell’acido che ha suscitato l’indignazione di molti, tra cui Lucia Annibali che con l’acido, quello vero e non quello metaforico di Travaglio, ci ha avuto purtroppo a che fare davvero.
Effettivamente il linguaggio è crudo e la memoria ci riporta, specie qui in Sicilia, a ricordi orribili legati all’orribile pratica della mafia e alle povere vittime, tra cui il piccolo Giuseppe Di Matteo.
Però, come si dice, c’è un però.
La permalosità del web legata alla necessità di dover per forza trovare un totem da abbattere, un argomento contundente, un sasso da lanciare nello stagno delle polemiche, crea delle distorsioni che vanno osservate con occhio sereno e senza ditino alzato (lo dico a me, innanzitutto). Ho detto che l’uscita di Travaglio è infelice, ma credo che esista ancora il diritto di metafora soprattutto nel giornalismo d’attacco (che può piacere o no, ma che deve continuare a esistere perché una vita senza sale e pepe non si augura a nessuno). Credo che serva un attimo di riflessione su questa nostra foga censoria, su quest’aggressività tanto social e poco real. Di questo passo non potremo più dire che “a questo governo vanno tagliate le gambe” senza suscitare le ire di un povero amputato. Non potremo più accusare un partito di “essere la stampella” di un altro per paura di offendere un povero cristo che ha bisogno di quei sostegni. O dovremo correggere la frase di Falcone sulla mafia cancro “che non prolifera per caso su un tessuto sano” affinché i pazienti oncologici non si sentano in alcun modo accomunati all’associazione criminale.
Ci sono contesti, ambiti e controindicazioni, lo sappiamo tutti perché siamo grandi e vaccinati.
Per questo – specialmente noi giornalisti, io per primo – dobbiamo cercare di andare oltre l’impeto commentizio e  provare a occuparci di cose un po’ più serie della frase di un Travaglio di questi.

Formiglisti e travaglisti, cosa rimarrà?

travaglio formigli

Ho seguito ieri Piazzapulita con l’intervista a Pietro Grasso non tanto perché mi interessavano le ragioni del neo presidente del Senato (sono sempre stato convinto della sua buona fede e della correttezza del suo operato) quanto perché volevo comparare due metodi giornalistici molto in voga: il formiglismo e il travaglismo.
Corrado Formigli è scattante e nodoso quanto Marco Travaglio è rilassato e appuntito. Il primo saltella, interrompe, desume e ammicca nervosamente. Il secondo si spalma sulla sua tesi, sorride acido, gioca di appostamento. Formigli inoltre dà l’impressione – l’impressione, ripeto – di non capire proprio tutto quello che dice, ma del resto il giornalismo è anche l’arte di raccontare ciò di cui non si sa niente. Travaglio invece non si cura affatto di sapere tutto quello che c’è da sapere su un evento o su un personaggio: lui ha il suo presupposto, il suo punto di partenza vero o falso che sia e nulla lo sposterà dai suoi binari. Qui va ribadito che l’ho spesso apprezzato per i suoi articoli e i suoi interventi televisivi. Però ciò non vuol dire che abbia il mio incondizionato assenso. Ad esempio non mi è piaciuto il suo sottrarsi al confronto con Grasso. Ma probabilmente sul faccia a faccia Travaglio non è ferrato, come ha dimostrato la figura rimediata (da lui e da Michele Santoro) nell’ormai tristemente nota puntata di Servizio Pubblico con Silvio Berlusconi.
Riassumendo.
Formiglismo, ovvero il botta e risposta con poche botte.
Travaglismo, ovvero il botta e risposta senza risposte.

L’occasione sprecata

Chissà quante ne leggerete su quella che doveva essere la resa dei conti e che è invece si è spenta come un’occasione sprecata. E allora cerchiamo di usare la sintesi per elencare i difetti della puntata di “Servizio pubblico” su e con Silvio Berlusconi.

Uso smodato della rassegna stampa e poca fantasia.
Due intervistatrici fuori luogo e fuori forma.
Assoluta impreparazione per smontare i luoghi comuni del Cavaliere.
Autoreferenzialità imbarazzante con citazioni di antiche puntate come se fossero la Bibbia.
Ritmo zero.
Finto aplomb e vero imbarazzo.
Implacabile tendenza all’autogol.

Praticamente un necrologio

Oggi il  Fatto Quotidiano saluta così Luca Telese.

Un giornale non è una democrazia

l mio primo direttore Orazio Mazzoni (ex Il Mattino) diceva che un giornale non è una democrazia. Assomiglia invece a una caserma. Ci sono generali, colonnelli, capitani, soldati. Se i soldati decidono come fare la guerra, allora è il caos. Nei giornali c’è un direttore, un vicedirettore, i capiservizio, i cronisti. Se il responsabile di una sezione – ad esempio le pagine di Politica – vuole decidere la linea del giornale, allora è il caos. Inoltre, diceva Mazzoni, se i cronisti vogliono decidere quale notizia far uscire, allora il giornale rischia di non andare in edicola.

Enzo Di Frenna spiega in parole semplici perché Luca Telese, che ha lasciato il Fatto quotidiano criticandone la linea editoriale, ha torto.

Concetti molto alti di sé

Il Grillo distratto

E su Twitter Beppe Grillo non segue nemmeno Travaglio. Il guru di internet, profeta dello scambio di libere informazioni, mostra qualche distrazione.

Grazie a Tanus.

Fatti la fama e vai a nanna…

Il passaporto Tweeter di Marco Travaglio. Il nostro eroe segue solo Beppe Grillo, del resto non gli importa niente: come è certificato.

Notizie a sentimento

Foto di Paolo Beccari

Rientro da una settimana di vacanza al mare e ho qualche spunto da sottoporvi: ne parleremo nei prossimi giorni.
Intanto, leggiucchiando senza troppo impegno giornali e siti web, mi ha colpito questa lettera aperta di Fabio Lannino nella quale si fotografa una situazione che a prima vista sembrerebbe banale.
Si chiede Lannino: perché un giornale decide di non dare notizia di un evento importante per la città? Basta l’avversione che quel giornale ha per la persona che sta dietro l’evento per privare i cittadini di un’informazione?
Tanto per essere chiari, il giornale in questione è il Giornale di Sicilia, gli eventi dei quali si è taciuto sono lo spettacolo di Marco Travaglio e il concerto di Mario Venuti (ma sono solo due esempi recenti), la persona che non è gradita al quotidiano è Francesco Foresta col suo gruppo editoriale, lo scenario di questi eventi è villa Filippina (gestita da Foresta con la direzione artistica di Lannino).
Qui non c’è da giudicare l’opportunità giornalistica di dedicare più o meno spazio a uno spettacolo, ma di prendere atto che un quotidiano decide deliberatamente di non dare un’informazione ai suoi lettori.
Se io compro il Giornale di Sicilia, pretendo di essere informato su quel che accade in città: e non me ne frega niente se al suo condirettore fa simpatia quel tale e antipatia quell’altro. Io non pago per le sensazioni e i sentimenti di Giovanni Pepi (il condirettore di cui sopra), pago per l’obiettività di un foglio di carta che deve dirmi quel che è accaduto e quel che accade nelle mie lande.
Travaglio e Venuti sono cronaca, come lo è qualunque altro evento che può colorare le notti vuote di una città in agonia.
Un giornale è un prodotto, come una scamorza: ha un prezzo, un valore, deve offrire garanzie. Se vi rifilano un formaggio che fa male il suo lavoro di formaggio voi protestate col salumiere.
Per questo la lettera di Lannino è importante. Perché ci dice che in certe aziende editoriali il rispetto per il lettore è un argomento sconosciuto.
Insomma, io che compro quel giornale voglio sapere perché non mi è stato detto che c’erano Travaglio e Venuti in città. Perché mi è stata rifilata una scamorza ammuffita.
Tutto qui.

P.S.
La foto di Paolo Beccari c’entra solo con la prima riga del post. Ma anche di questo parleremo con calma.