Quando arrestarono mio padre

È una storia di ventisette anni fa. E mi è tornata alla mente – che è una maniera imprecisa di dire che è riaffiorata dato che non se n’è mai andata – leggendo di questa storia.  Nel 1994 mio papà venne arrestato per una storia di abuso d’ufficio nell’ambito di un’inchiesta sulla sanità siciliana. Non mi inerpico nei dettagli, dico solo che era una ramificazione giudiziaria e mediatica del mood “mani pulite” che pure aveva più di un attaglio nel clima di illegalità diffusa in Italia. Ma la storia di mio padre è emblematica.

Presa una tesi, nella pubblica amministrazione si ruba, si costruì un’architettura che la giustificasse. Si inventarono consulenti al limite del ridicolo – bastava che parlassero un qualunque dialetto nordico e i pm siciliani della procura di Caselli li accoglievano a braccia aperte – e soprattutto si rovinarono molte vite per illuminare altrettante carriere che altrimenti sarebbero rimaste nell’ombra di una normale e dignitosa attività lavorativa. Perché, va detto (e ve lo dice uno che si è sempre battuto pubblicamente per l’indipendenza della magistratura e contro il malaffare in tutte le sue declinazioni) in quel tempo un magistrato era nulla se non aveva un titolo sul giornale. Ho mille ricordi e testimonianze su questo punto, avendo fatto il capo delle cronache siciliane dell’allora maggiore giornale dell’Isola per vent’anni: magari un giorno vi racconterò.

Intanto torniamo a mio padre.

Lo arrestarono con un tam tam di annunci che raggiungeva me per primo, suo figlio, in quanto giornalista. La sera in cui scattò il blitz – erano una dozzina di “pericolosi delinquenti” da bloccare – io lo avvisai: per prepararlo, non certo per farlo scappare. Infatti lui si consegnò con serenità ai finanzieri e si beccò tre giorni di arresti domiciliari. Certo, a quei tempi erano niente tre giorni di arresti a casa: gli altri suoi colleghi si fecero mesi di Ucciardone, perché avevano l’accusa di corruzione che lui non aveva (nessuno avrebbe mai potuto accusarlo di corruzione, neanche il più fantasioso dei pm).
Prima di dirvi come finì, vi dico come continuò. Che è la cosa più scandalosa.
Non avendo nulla contro di lui, lo sommersero di inchieste – oltre una dozzina – sempre con la stessa accusa: abuso d’ufficio, un reato che è acqua fresca per un amministratore pubblico giacché a quei tempi se facevi rischiavi questa incriminazione, se non facevi rischiavi l’opposto, l’omissione. Si sorbì anni e anni di processi, a forza di frequentare il tribunale di Palermo diventò amico di avvocati e magistrati (tutti, tranne quelli che lo avevano inquisito, erano troppo protervi persino per lui che era l’uomo più comunicativo dell’universo conosciuto), e a un certo punto ammise di masticare più di codice penale che di medicina nonostante le sue quattro specializzazioni.

Alla fine fu assolto da tutto. Ovviamente.

La sua fortuna fu di essere lui, ironico, ottimista, buongustaio, lucido estimatore della vita vissuta. Ne discutemmo a lungo nel corso degli anni e lui ne parlava sempre con un sorriso di duplice lettura: di ammirazione per la nostra tenuta e per la fiducia nelle cose sane, di compatimento per quei poveri magistrati che si erano dati pena di dipingerlo come parte di un sodalizio criminale che era solo nel loro insano protagonismo. Gli rivelai anche di un carteggio che avevo tenuto con Caselli sul tema, rimasto sempre una cosa privata tra me e l’inchiostro verde della stilografica del procuratore.

La nostra famiglia, per fortuna, si riprese dagli strattoni di quelle inchieste sgraziate che produssero solo una sequela di assoluzioni e una manciata di condanne (a conferma che a sparare nel mucchio si fa una strage ma ci si può sempre inventare la scusa della “guerra giusta”). Eravamo ben strutturati e, tutto sommato, non avevamo subito i disastri che altri avevano dovuto sopportare. Insomma eravamo stati fortunati, in un’epoca in cui la giustizia era la mano che faceva girare la ruota della (s)fortuna.

A tutto questo e a molto altro pensavo leggendo delle sventure del sindaco di Lodi arrestato ingiustamente, deriso da giornalisti come Travaglio, oggetto di odio social-comandato da parte del Movimento 5 stelle.
L’odio è un modo subliminale per odiare se stessi. Ricordiamocelo quando sputiamo sentenze su cose di cui non sappiamo nulla e, soprattutto, non ci interessa avere un parere che sconvolga il nostro pregiudizio.  

Ma ne riparleremo, promesso.    

Sapone per mani pulite

La Minetti si faceva rimborsare il libro Mignottocrazia.
Renzo Bossi le Red Bull.
Un consigliere, i proiettili da caccia.
Un altro, hamburger e patatine per i figli.
Un altro ancora, le sigarette.

L’ennesimo scandalo che coinvolge la giunta regionale lombarda ci dà un’ulteriore chiave di lettura della malapolitica. La cattiva gestione dei fondi si mescola col cattivo gusto.
Non si rubacchia più per arricchirsi, ma semplicemente per dar sfogo a quella perversa soddisfazione di fottere il prossimo nelle infime cose. Un libretto, una lattina, un cheesburger  e via, con lo scontrino untuoso tra le mani da allegare al modulo di risarcimento.
Mani pulite? Oggi oltre alle manette il sapone, per favore.

Affari sporchi, mani pulite

Berlusconi dice che con la sua riforma della giustizia nuova di zecca non ci sarebbe stata Mani Pulite e ammette che aspettava dal 1994 questo momento. Insomma in un colpo solo lascia trasparire anni e anni di malafede, di tentativi di infrangere la legge, di bluff e di magagne.
Ridurre Mani Pulite a una “invasione della magistratura nella politica” che ha portato “nel corso della storia degli ultimi venti anni a cambiamenti di governo, a un annullamento della classe dirigente nel ’93” significa qualcosa di peggio che turarsi occhi e orecchie davanti alla realtà, significa cercare di passare una benda chilometrica su occhi e orecchie di milioni di italiani e pretendere che nessuno si lamenti, e anzi ringrazi per il buio e il silenzio improvvisi.
Pensate: l’ossessione personale di un uomo inseguito dai guai che lui stesso ha provocato, sta alla base di una rivoluzione senza precedenti. Un premier che è costretto a citare “il caso Ruby” mentre illustra una svolta storica della giustizia è la metafora più azzeccata di questo Paese: un tempo si citavano santi, scrittori e filosofi, oggi si rimedia con le signorine disinibite.

Giustizia, un fascino perverso

Non so se ci avete fatto caso, ma c’è una recrudescenza di notizie di cronaca giudiziaria non di poco conto. Nel giro di poche ore, su e giù per lo Stivale, si è arrivati al giro di vite per un’inchiesta sugli appalti a Napoli che ha mandato in carcere un paio di assessori comunali e ha coinvolto un manipolo di altri affaristi (imprenditori e parlamentari compresi), si sono chiesti quattro anni per l’avvocato Mills in ragione di un rapporto di sudditanza nei confronti di Berlusconi, si sono indagati per bancarotta i vertici pregressi di Alitalia, si sono chiuse le indagini per l’inchiesta Why Not, si è assistito a uno scontro tra un giudice e un ministro sul destino di un essere umano in stato vegetativo.
E’ inevitabile che qualcuno – e non certo sbagliando – si interroghi sul peso della giustizia nella vita di questo Paese. E non certo per quello strapotere di cui si vagheggia, quanto per una certa indole molto italica che vuole la giustizia difesa da tutti, ma tenuta a distanza dagli interessi di ciascuno. Come i bambini vivaci: belli, cari, ma a casa d’altri. La giustizia, insomma, esercita una sorta di fascino perverso.
Sono di quella corrente di pensiero che sostiene l’importanza di una cura efficace, anche dura e dolorosa, al di sopra di qualunque palliativo. Non credo che Mani Pulite avrebbe sortito gli effetti indesiderati che ha avuto, se non ci fosse stato un cancro politico e sociale da aggredire. C’era una metastasi, si doveva ricorrere a un intervento mutilante: nessun altra via.
Tuttavia farei la figura del pesce in barile (e io odio le conserve ittiche) se dimenticassi un passaggio della lettera dell’anarchico conservatore Giuseppe Prezzolini a Giovanni Amendola: la giustizia e i suoi palazzi sono qualcosa da cui è saggio cercare di stare il più lontano possibile.
Il consiglio vale solo se lo si pronuncia con avvilimento.