Quel no a Peppino Impastato

Nella storia dei ragazzi del liceo di Partinico che dicono no all’intitolazione a Peppino Impastato perché “troppo politicizzato” e/o “divisivo” ci sarebbe da andare a fondo che più non si può. Cioè bisognerebbe presentarsi a questi ragazzi, ascoltarli, impiantare una redazione in quella scuola, ora, subito. Spogliarsi di tutte le certezze giornalistiche prêt-à-porter e mettersi in dubbio, noi giornalisti, noi raccontatori di storie, noi orecchianti di vite che non sono le nostre. Perché in quel “troppo politicizzato” e/o “divisivo” c’è un sintomo importante: che sia malattia o evoluzione, ribellione o strumentalizzazione è tutto da scoprire.
In “1979” (scusate se ci torno ma è una ferita ancora aperta, come tutte le creature artistiche sono ferite felicemente sanguinanti) c’è un paragrafo dedicato a Impastato che definisco come bell’immagine trendy dell’antimafia, bella nel volto e nel messaggio (“la mafia è una montagna di merda” era uno slogan geniale, allora). Sino a ieri Impastato era un’icona intoccata in quello che un tempo si chiamava immaginario collettivo e che oggi potremmo chiamare mainstream.

Ora i ragazzi di Partinico lo hanno messo in dubbio. E avranno le loro ragioni se gli preferiscono l’ex sindaco Gigia Cannizzo o Rosario Livatino (che non sono concorrenti, ma semmai comprimari – ognuno col suo ampio merito – di Peppino).
La tentazione sbrigativa è quella di guardare alla giunta di centrodestra per trovare un appiglio di condizionamento. Ma è troppo facile. E le cose troppo facili sono per noi giornalisti una mano su una campanella: quando suona bisogna drizzare le antenne, almeno così dovrebbe essere.
Mi piace pensare che il Peppino Impastato politicizzato e divisivo sia in fondo il vero Peppino Impastato, perché dividere, far discutere e (ri)animare il cuore della politica è in fondo il vero ruolo dei leader. Un bell’esempio è colui il quale scuote gli animi nelle buone intenzioni che vanno oltre la messa cantata. Di santi e unti dal Signore siamo pieni fino all’orlo di una indecente sopportazione (in fondo siamo il Paese che celebra corrotti e riabilita criminali conclamati). E comunque per loro ci sono già chiese, opere pie, programmi tv. Insomma c’è spazio a sufficienza.
Una scuola intitolata a un ribelle, eroico e ironico, geniale e solitario, è secondo me il migliore omaggio alla rivoluzione nonviolenta contro i violenti di ogni epoca, di ogni censo, di ogni colore politico.
Questo, se avessi un giornale, direi a quei ragazzi.

Colpi di spugna e colpi di teatro

Le sentenze, anche quelle della Suprema Corte, si devono rispettare ma si possono criticare”. La frase, con sicurezza lapidaria, la scrive il magistrato Nino Di Matteo nel suo ultimo libro che ha un titolo spoiler, “Il colpo di spugna. Trattativa Stato-mafia: il processo che non si doveva fare”. Se mai si cercassero frasi dipinte su un personaggio, o in questo caso sull’autore (che comunque è anche personaggio), che meglio ne rispecchiano le caratteristiche, di migliori e più calzanti non se potrebbero trovare.
Quindi le sentenze si possono criticare, persino quelle della Cassazione, ce lo dice Di Matteo, tutto a posto. Postilla: magari sono criticabili solo quando non rispecchiano le nostre aspettative fermo restando la nostra facoltà, negli altri casi, di impugnare la spada in difesa della magistratura e soprattutto del suo verbo fatto sentenza.

Nino Di Matteo è un coraggioso magistrato da anni nel mirino delle cosche mafiose. Ma nei suoi confronti si è sviluppato un paradosso tutto italiano. Quello del dibattito abortito per timore reverenziale. I pochi che si azzardano a criticarlo o a cercare di porre domande sul suo umano operato – sul resto vige l’impalpabilità di una sorta di divinità – vengono marchiati a fuoco che manco i vitelli di Yellowstone (la serie): solo che lì è senso di proprietà, qui è senso di infamia.
Insomma Di Matteo può dire quello che vuole perché è coraggioso (che è vero) e sotto scorta (che è vero). E chi osa non essere d’accordo con lui non è uno che dissente normalmente come accade col restante della popolazione mondiale (che è vero), ma uno che delegittima.
Ci ha provato più volte, in un’aula di giustizia, l’avvocato della famiglia Borsellino, Fabio Trizzino, a cercare di mettere in fila le responsabilità di Di Matteo nella gestione del pentito farlocco Scarantino. Il magistrato, insieme con tutti i suoi colleghi di allora, non è stato ritenuto responsabile dell’indecente depistaggio della strage di via D’Amelio. Anzi, lui e tutti gli altri, hanno riscosso promozioni e si sono mossi agevolmente nel sotto vuoto spinto del clima di distrazione collettiva che ha caratterizzato le indagini sull’eccidio e sulla sistematica deviazione dell’inchiesta.

Disse Trizzino: “Il Pm Di Matteo nel 2009 fece una dichiarazione sul collaboratore di giustizia Spatuzza (colui il quale svelo l’impostura di Scarantino, nda) senza alcuna competenza. L’elemento incredibile è che Di Matteo, quell’anno, da pm di Palermo, non aveva alcuna competenza per entrare nei processi Borsellino uno e Borsellino bis, a meno che non temesse qualcosa che potesse compromettere la sua carriera professionale. Bisogna avere il coraggio di dirle queste cose”.

Purtroppo il coraggio non basta. Perché ancora oggi, a distanza di 32 anni dalle stragi, pare che a nessuno importi nulla di quelle menzogne. Menzogne di Stato.
Il cortocircuito non è solo giudiziario, ma mediatico e sociale. La stessa libertà con cui un magistrato critica una sentenza di Cassazione non ha la stessa eco dell’indignazione dei cittadini che reputano scandaloso che nessun magistrato – anzi nessuno in assoluto – abbia mai pagato per lo scempio della verità sulla strage di via D’Amelio. Avete mai visto una manifestazione, un flash mob per stigmatizzare espressamente quel che combinarono la procura di Tinebra e i poliziotti di La Barbera?

Il massimalismo antimafia di cui l’antimafia sta morendo per asfissia ci ha insegnato che, ad esempio, lo stesso movimento delle “Agende Rosse” che ha contestato pubblicamente il sindaco di Palermo Roberto Lagalla per l’appoggio di Cuffaro e Dell’Utri nel corso della campagna elettorale, non ha avuto nulla da dire sulle accuse di Trizzino a Di Matteo. Anche qui non uno slogan, non un corteo sullo specifico: eppure l’agenda rossa da cui prende il nome quel gruppo di cittadini (sul cui impegno tanto di cappello) è proprio al centro del cratere lasciato dal depistaggio in cui i magistrati della procura di Caltanissetta hanno brillato quantomeno per inadeguatezza.
Al contrario, dalle Agende Rosse solidarietà sempre e comunque – che ci sta perché comunque Di Matteo non è che viva spensierato a Disneyland, oddio sindrome da timore reverenziale in agguato –  e addirittura una proposta di cittadinanza onoraria, lassù al Nord.
Il massimalismo è una scelta poco conveniente, perché a forza di spingere sull’acceleratore ci si dimentica dell’utilità dei freni. È lecito contestare chiunque, dicevamo, ma è lecito anche chiedere una lettura uniforme dei fatti.
Se uno manifesta per la scomparsa dell’Agenda Rossa di Paolo Borsellino e poi si dimentica di chi per anni si è fatto intortare di minchiate dal “pentito” meno attendibile dell’universo mondo, qualche problema c’è.
E dobbiamo smetterla di considerare che il problema è chi dice che c’è un problema.

“Non può succedere a me”

Questa è la storia di uno sparo nel buio e di un morto che si risveglia. Ma non è una storia di morti viventi. Al contrario è la storia di un vivo che scopre la vita nella memoria, che scava nelle sue distrazioni, nel nostro egoismo. E che si rianima giusto in tempo per raccontare la sua vicenda e quella delle anime che ha incrociato prima che la sua vita finisse in un angolo oscuro del palcoscenico. Perché in teatro siamo e in teatro resteremo per tutti i settanta minuti de “L’altro”, la nuova opera che andrà in scena il 22 giugno prossimo al Teatro Massimo di Palermo.
È così che il nostro protagonista incrocerà personaggi che sembrano arrivare da lontano e che invece stavano lì, aspettando solo che qualcuno si desse la pena di notarli. Sono le tante versioni dell’altro: un bambino, un prete, un imprenditore, un poliziotto. Vivi e morti, che gli ricordano le cinque parole più rischiose della loro vita: non può succedere a me.
Attraverso un gioco di specchi il nostro ex morto andrà a caccia di chi lo ha ucciso, prima di tornare alla sua quiete orizzontale. E lo farà con l’unica certezza che l’altro gli ha dato: esistono vittorie assolutamente inutili e sconfitte meravigliosamente feconde.

Dal 2017 a oggi, il Teatro Massimo ha avuto il coraggio di sperimentare nuove forme di narrazione attingendo da ambiti delicati come la cronaca, afferrando la realtà più cruda per i capelli e trascinandola al cospetto dell’arte. Grazie a Francesco Giambrone prima e a Marco Betta poi (ci vuole coraggio a ideare, ma ci vuole più coraggio ad approvare idee altrui) abbiamo usato la parola, la musica, la danza, la tecnologia di immagini digitali per raccontare la memoria che si cela nell’attualità e la realtà che tende a oscurare il ricordo.
Dopo la trilogia dedicata dal Teatro ai misteri delle stragi di Capaci e Via D’Amelio, “L’altro” è un ulteriore passo avanti verso una nuova concezione di opera che, è inutile negarlo, suscita ancora troppe resistenze (e non di pubblico) e che si nutre quasi clandestinamente dei resti. Ma questo è un tema troppo serio per essere liquidato in poche righe.  

Qui mi preme dirvi che oltre che nel linguaggio artistico e nella sua multimedialità (sul palcoscenico i protagonisti se la vedono coi loro ologrammi), lo spettacolo ha due elementi di dirompente novità: da un lato vede coinvolti per la prima volta in un’opera originale cento ragazzi delle formazioni giovanili tra orchestra e cantoria, dall’altro contiene una dedica struggente a don Pino Puglisi nel trentennale del suo omicidio.

L’altro
Teatro Massimo di Palermo – 22 giugno 2023 – ore 20:30

Scritto e diretto da Gery Palazzotto
Musiche composte ed eseguite da Fabio Lannino e Mauro Visconti
Interpretato da Gigi Borruso
Coreografie e movimenti scenici: Gaetano La Mantia con Alessandro Cascioli
Danzatori: Alessandro Cascioli, Gaetano La Mantia, Yuriko Nishihara
Massimo Youth Orchestra diretta da Michele De Luca
Cantoria del Teatro Massimo diretta da Salvatore Punturo e Giuseppe Ricotta
Videomaking di Antonio Di Giovanni e Davide Vallone
Assistente musicale: Vincenzo Alioto

I biglietti li trovate qui.

Il mago dei soldi (in un podcast)

Nell’estate del 1990 a Palermo non c’è solo la febbre dei Mondiali di calcio allo stadio della Favorita con i gol dell’eroe di casa, Totò Schillaci. In quell’estate c’è un miracolo, il miracolo dell’affare della vita, quello che potrebbe cambiare tutto in un batter d’occhio. Gira voce che c’è un tale, un ragioniere dalle mani d’oro che moltiplica i soldi. Tipo che gli dai un milione, lui nel giro di poche settimane te ne da due. E non fa niente se quel ragioniere si fa chiamare avvocato anche se avvocato non è. L’importante è che il miracolo si compia.
Lui è Giovanni Sucato da Villabate. Ha 26 anni e si è inventato un futuro in un modo tanto miracoloso quanto improvvido. Raccoglie soldi e come ricevuta scrive due righe su pezzi di carta: sono e saranno sempre queste il suo unico documento ufficiale, la sua unica garanzia. Due righe e una firma. E il bello è che lui dopo paga davvero.
È così che diventa il mago dei soldi.

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Una favola storta

Non vi parlerò dei possibili nuovi equilibri nella mafia dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro. Non vi parlerò nemmeno delle strategie dello Stato per affrontare il nuovo corso di Cosa Nostra, perché un nuovo corso ci sarà per forza (e speriamo che sfoci nelle fognature). Non vi parlerò di politica né di magistrati. Di tutto questo vi parleranno i miei colleghi, quelli bravi, in tv e sui giornali.
Io vi voglio parlare di una favola storta che finalmente ha un suo lieto fine. E il lieto fine di una favola storta deve essere dritto per compensare un’obliquità che disturba il mondo, facendolo sembrare storto a sua volta.
Una favola che inizia con una lettera d’addio a una innamorata. Una lettera che contiene una grande imperdonabile bugia.

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Gery Palazzotto
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Butterfly Blues, il podcast

Le piccole battaglie quotidiane, le grandi scommesse di sogni infranti, l’antimafia, il gioco di specchi della politica, le promesse e le disillusioni. “Butterfly Blues” è il canto dolente di una generazione che voleva cambiare il mondo e invece si è accapigliata solo per cercare qualcuno su cui scaricare le sue stesse colpe. “Butterfly Blues” è stato uno spettacolo che negli anni si è evoluto. Nato nel 2019 come orazione civile per voce narrante e pianoforti per “Piano City”, si è evoluto negli anni in opera corale e danza. Da oggi è anche un podcast, liberamente ispirato a quello spettacolo di cui trovate qui dettagli e protagonisti.
P.S. Grazie sempre a Gabriella Guarnera per la voce e la pazienza.

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Eretici

Hanno la forza di mettere in discussione il sistema senza negarlo, usano le verità rivelate per tirare fuori verità nascoste, hanno il coraggio di fare rivoluzioni di saggezza e bellezza.
Sono un prete (Cosimo Scordato), un prete mancato (Biagio Conte), e un mangiapreti (Antonio Presti).
Tre moderni eretici. In questo podcast vi racconto le loro storie.

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Materia Prima

Strana storia quella in cui c’è un delitto, c’è il movente, ci sono i colpevoli, c’è il tempo che ha provato a lasciar sedimentare la rabbia (anche se la rabbia non sedimenta mai, al limite si cementifica, cresce in verticale come un pilone di autostrada) eppure non c’è la fine. Una storia senza fine non è una storia, è una bici senza ruote, un coltello senza lama, una minestra senza ingredienti.
In questo podcast si ripercorre la vicenda dimenticata di Libero Grassi, l’imprenditore coraggioso che osò ribellarsi al racket delle estorsioni a Palermo e che per questo fu ucciso in uno dei più annunciati delitti di mafia. Ma soprattutto si ricostruisce il contesto in cui quell’omicidio nacque: tra imprenditori apertamente collusi, giornali ipergarantisti, antimafiosi incauti e giudici soli.
Soli come lui.
Cadaveri ambulanti come lui. Buon ascolto.

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Per chi suona Eddie Van Halen?

Per chi sta suonando ora Eddie Van Halen? Domanda oziosa. Eppure me lo chiedevo stasera mentre rientravo a casa ascoltando, a volume adeguato, “Main Street”, una delle canzoni meno memorabili dei Van Halen. Probabilmente è una cosa che succede sempre più di frequente con l’età che avanza, o è questione di influssi astrali, oppure ancora è semplicemente indole trasversale. Ma a me capita sempre più spesso di interrogarmi su ciò che potrebbe accadere là dove non sappiamo se davvero qualcosa accada. Prevalentemente roba di defunti quindi.

Giuro, non penso quasi mai alla morte. Ma ai morti sì. Del resto come faremmo senza i morti? O meglio, senza la gioia di quel che ci hanno lasciato.

Io a Oscar Wilde farei passare egoisticamente altre mille pene dell’inferno pur di avere un secondo De Profundis. O affonderei dieci Endurance per avere ancora il brivido di impersonare il capitano Shackleton che conta i suoi uomini dopo due anni di tribolazioni inaudite e scoprire che sono tutti vivi, grazie a me. O riascolterei mille volte la tragica avventura di Walter Bonatti sul K2 per ribadire che non si muore mai invano se in ballo c’è la più importante delle nostre missioni, quella di dimostrare che non si vive invano appunto.
Insomma chiedendomi che minchia sta facendo Eddie Van Halen adesso, lì nell’alto dei cieli con adeguata amplificazione I suppose, mi sono ricordato da dove originava questa domanda.
Dalla mia complicata visione dell’aldilà.

Premesso che non sono ancora – almeno lo spero – in età di rendiconti affrettati, è giusto che dichiari la mia provenienza incolpevole: sono cresciuto dai preti.
È un capitolo complesso della mia infanzia perché mi sono trovato, per scelte ovviamente non mie, a essere convogliato in una scuola di gesuiti nella quale stavo malissimo e dalla quale sono venuto fuori a tentoni. Dopo è stato tutto più semplice, ma durante è stato un casino.
In ogni caso – poi magari ne parliamo un’altra volta – in tutti quegli anni di scuola cattolica-bene-imbalsamata ci fu un solo avvenimento che mi colpì positivamente. Anzi che mi stravolse.

Era un pomeriggio di inverno, nel 1977.

Il mio insegnante di religione si chiamava Giovanni Pintacuda, ed era il fratello ignoto di Ennio un prete che di lì a un decennio sarebbe diventato un pilastro della società civile antimafia e della cosiddetta Primavera di Palermo.
Io a scuola non andavo bene. Facevo il chitarrista rock, scrivevo canzoni al limite dell’orribile, avevo ottimi voti nei temi d’italiano nonostante certi professori che 45 anni dopo hanno il coraggio di seguirmi sui social (probabilmente perché oggi come ieri non capiscono un cazzo di quello che scrivo), organizzavo cose teatrali, inseguivo le femmine, non mi drogavo e galleggiavo in quella realtà che mi era stata imposta (in buona fede) dalla mia borghesissima famiglia borghese.
In quel pomeriggio padre Giovanni Pintacuda mi aveva convocato per parlarmi. Io mi ero presentato, capelli lunghi e maglione alla coscia, annoiato a dovere: immaginavo la solita ramanzina. Tra l’altro mia madre aveva scoperto proprio pochi giorni prima che avevo marinato la scuola, falsificando le giustificazioni, tipo per due settimane di seguito… Quindi immaginate il clima.
Nel viale alberato dell’Istituto Gonzaga di Palermo padre Giovanni Pintacuda mi venne incontro e mi prese sottobraccio.
Lui era piccolo di statura e io, che non ero un gigante, lo sovrastavo di almeno una decina di centimetri di pura adolescenza post puberale.
Facemmo due passi e lui dal nulla disse: “Gery, parliamo di donne”.
Poteva dirmi qualunque cosa, tipo che cazzo combini, o che cosa ci fai qui, o fai finta di niente e parliamo in playback.
Invece disse proprio quella frase.
“Gery, parliamo di donne”. Un prete colto e un adolescente pulcioso.
Fu un flash. Una sventola. Un pugno e un abbraccio.
Una svolta.
Nessuno mi aveva mai parlato così. Anzi, nessuno mi aveva mai svegliato così.
Quel pomeriggio padre Giovanni mi porse il primo dei mattoncini di Lego coi quali edificare il mio castello. Mi insegnò a guardare dritto per capire cosa sta ai lati e cosa mettere al fuoco anche se non sta al centro, mi diede la prima lezione di vista periferica insomma. Come Messi.
Ci raccontammo cose che rimarranno sempre tra noi e che del resto non sarebbero interessanti per nessuno.
Però ci fu un concetto che allora presi sottogamba e che invece col tempo imparai ad apprezzare sino addirittura a farne un mantra (invecchiando ci rincoglioniamo di cose note, un tempo sottovalutate, fingendo stupore tipo scimmie primordiali davanti al Meteorite): la vita non è come il cinema, tra il primo e il secondo tempo quello che conta è l’intervallo.

Ecco, nell’intervallo io mi sono chiesto cosa accade quando la proiezione è finita.
Per chi lavorano gli artisti a sala chiusa.
Che pubblico ha il privilegio di godersi uno spettacolo che non va più in scena.
E da lì ho trovato la risposta alla domanda di stasera: per chi sta suonando ora Eddie Van Halen?
Magari l’avete trovata anche voi. Anche se non avete avuto il privilegio di aver conosciuto padre Giovanni Pintacuda.              

Brusca, la legge, la ragione

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Se c’è un caso in cui legge e ragione, morale e obiettività sono in maggior conflitto, è il caso di Giovanni Brusca. Parlarne non risolve certo gli attriti di coscienze che, come sabbia negli ingranaggi, rischiano di mandare in tilt il motore della buona creanza. Ma almeno serve a rendere meno tollerabile la tentazione di veder contrapposta la ragione di stato allo stato della ragione.

Il mafioso Brusca è stato scarcerato a norma di legge nel maggio scorso, proprio in uno dei mesi cruciali per gli effetti a lunghissimo periodo dei suoi crimini. Per via della sua collaborazione con la giustizia – e mai metter via la parola “pentito” fu caso più opportuno – è stato tirato fuori dalla cella nella quale era rimasto per 25 anni. Nei giorni scorsi Repubblica ha reso note le motivazioni per cui i giudici di Palermo hanno comunque imposto la sorveglianza speciale: in poche parole l’indole e la personalità criminali permangono, da qui la pericolosità sociale. Insomma Giovanni Brusca è sempre Giovanni Brusca, l’assassino che ha sciolto cadaveri nell’acido, ha fatto saltare in aria magistrati e poliziotti, ha strangolato con le sue mani un ragazzino, ha commesso e ordinato quasi duecento omicidi dei quali, in molti casi, non si ricorda niente. E quando l’assassinio diventa routine se non sei in un film, sei in un inferno. Un inferno nel quale oggi Brusca è demonio sorvegliato, ma a piede libero.

Si discute nei circoli polverosi dell’antimafia se non sia il caso, adesso, di seppellire una volta per tutte i nostri morti, di dare ai martiri l’onore della storia e toglierli dagli sbuffi banali della cronaca. Nobile intento, ma inaccettabile fin quando gli incubi del torturato saranno ancora i sogni del carnefice.