Tranquilli, non ci aspetta nessuno

Da Luarca a La Caridad.

Camminare per più di un mese, senza fermarsi mai, ha un vantaggio al quale si pensa solo quando si scarpina per più di un mese, senza fermarsi mai, e si cerca disperatamente un vantaggio a cui pensare. Per una volta si azzerano le ipocrisie, si abbandonano i laccioli delle convenzioni e ci si culla deliziosamente in un sano cinismo.

Non ci aspetta nessuno.

Non ce ne rendiamo conto, ma al di là dei vincoli di sangue (e spesso nemmeno quelli costituiscono un’eccezione), le cose cambiano in un modo talmente vertiginoso che manco un passe-partout potrebbe aiutarci ad aprire porte alle quali improvvisamente è stata cambiata la serratura. Paradossalmente l’elisir di lunga vita è proprio la coscienza della caducità delle cose della vita, almeno per quello che appartiene al vivere e non al sopravvivere.

Ci scherzavo su qualche giorno fa con un’amica via sms: “Manco Alexa mi riconoscerà al ritorno”. E non era un azzardo giacché la tecnologia, che sempre più vuole scimmiottare le cose umane, sa come gestire il senso di mancanza: provate a non usare un account di un social per qualche giorno e vedete come vi comincerà a tampinare.

Non ci aspetta nessuno.

E quel nessuno non è il genitore o il figlio che ha un nucleotide calamitato nel Dna che attrae o respinge a seconda della polarità (e spesso manco funziona troppo bene), ma è il 99,99 per cento del tuo resoconto sociale. È il collega di lavoro che ti saluta con un sorriso in cui l’unica cosa genuina è il tartaro dei denti, è l’amico che ti chiama perché dice che ha voglia di sentirti ma che poi ti infilza con un problema che “solo tu puoi risolvere”, è la persona alla quale manchi quando a lei mancano tutti gli altri. È l’ordinario travestito da straordinario, il superfluo che pare vitale sino a quando non lo guardiamo con altri occhi, o altri occhiali.

La verità è che proviamo vergogna a dirci queste cose perché, sbagliando, le cataloghiamo come possibili fallimenti. In realtà basta rompere il vincolo dell’ipocrisia, magari camminando con un benedetto zaino in spalla che è tutto insieme casa e lavoro, per capire la reale essenza della questione. Non aspettarsi nulla dagli altri è il miglior modo per lasciarsi sorprendere dagli altri. È il più grande atto di fiducia nei loro confronti. E in noi stessi.

P.S.
Si vede che la tappa di oggi era lunga e monotona, eh…  

(22 – continua)    

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Beh, si muore

Da Ballota a Luarca.

Talvolta capita di imbattersi in foto attaccate a un albero, o in mazzi di fiori depositati all’angolo di un sentiero. Sono le “vittime del Cammino”, quelle che giornalisticamente sono parte della cosiddetta “Spoon River” di Santiago. Si stima che negli ultimi trent’anni i morti siano stati intorno ai duecento. Nel 2017 due testate giornalistiche, La Voz De Galicia e FrancigenaNews, hanno fatto un po’ di statistiche e hanno constatato che si muore prevalentemente di infarto, ictus e, in questo periodo, di disastri causati dai colpi di calore (immagino l’ebollizione di pensieri di mio padre a tal proposito, ma questa è un’altra storia). Poi ci sono gli investimenti su strada, gli annegamenti e, pochissimi, gli omicidi. Famoso il caso di un maniaco omicida che modificava le indicazioni del Cammino a mo’ di trappola: lo arrestarono quattro anni fa ed è tragicamente una storia da film. Circa duecento morti quindi, in trent’anni. Il dato può impressionare se buttato lì, senza altri parametri.
E allora mettiamoli in campo, ‘sti altri numeri. 

Nel 2018, l’ufficio del Pellegrinaggio di Santiago di Compostela, secondo le stime ufficiali, ha accolto 327.378 pellegrini, la maggior parte sono donne: il 93,49 % sono arrivati a piedi, il 6,35 % in bicicletta, lo 0,10 a cavallo (il Galoppo di Compostela?), e lo 0,2 in carrozzina. Parliamo di pellegrini, cioè di persone che si registrano: da questi numeri è quindi esclusa quella parte di camminatori che, come me, marciano invisibilmente anarchici.

Quindi a fronte di una folla che si cimenta in un’impresa – parlo del Cammino del Nord o anche del Cammino Francese – qualcuno muore. È un mio problema, lo so, ma quello del rapporto con la morte è un tema per il quale non mi sento allineato col sentire comune (e non è un motivo di orgoglio). Secondo i miei parametri del dolore, la morte durante una missione, durante una gara, durante un’esperienza che ci vede concentrati è altra cosa rispetto al game over per il vaso che cade sulla testa dal terzo piano, al boccone che ci va di traverso (“assassinato dal pane e panelle”). È una morte contestualizzata, è l’addio al palcoscenico con l’orchestra che suona e non l’inghiottimento nel gorgo di un cesso del quale non abbiamo manco tirato noi la catenella. Mi è capitato più volte di polemizzare qui e altrove contro chi invocava, ad esempio, la sospensione di una maratona dopo la morte di un concorrente. Una bestemmia innanzitutto per la vittima che quella maratona voleva chiuderla col tempo migliore e che si sarebbe rivoltata nella tomba nell’apprendere di aver bruciato la gara a migliaia di persone che, come lei, si erano rotte il culo per un anno prima di cimentarsi in quella prova estrema. 

A tutto questo pensavo stamattina mentre, dopo Cadavedo, in cima a una salita mozzafiato ho trovato una foto attaccata a una ringhiera: “In loving memory of Kyriacos Zindilis”. Ero talmente stanco che ho fatto una foto indecente (concedersi la debolezza di essere palesemente deboli è una forza che sto sperimentando nel Cammino), ma l’ho fatta più per ricordarmi di non dimenticare che per altro.

Per i restanti chilometri roventi – oggi c’era un caldo tragicamente palermitano – mi è rimasto impresso il volto di quell’uomo sorridente. E mi sono immaginato i suoi ultimi frame. L’entusiasmo della partenza alla mattina, le chiacchiere, la stanchezza che arriva, il sudore tra la maglietta e lo zaino, la prova da superare, la felicità per la cima raggiunta, un doloretto ma chissà, il cielo, il sole in faccia come al mare, come in vacanza. E all’improvviso la concitazione attorno, degli altri che si chiedono cosa accade e lui che si compiace anzichè preoccuparsi: ve l’avevo detto che ce la facevo, è bellissimo, anche questo sole… poi non fa così caldo, tranquilli che ora si riparte, si ricomincia.

E lui tranquillo che ricomincia. Altrove, senza fatica.

(21 – continua)          

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.