Nei panni di un SS (e il nazismo non c’entra)

C’è una categoria mai ben classificata, che attraversa strati sociali, posizioni politiche, che risente di varie stratificazioni etiche e anche di molti pregiudizi. È quella dei cosiddetti single stagionati (SS, per usare, anzi osare un’abbreviazione) e comprende le persone cosiddette libere nella cosiddetta età stagionata, cioè diciamo dopo i cosiddetti cinquanta.

Ci sono vari elementi che certificano il valore civile dei SS ed è giunto il momento di tirarli fuori, perché come accade per ogni fenomeno incompreso, da Van Gogh al generale Pappalardo, è noioso che sia sempre la storia a giudicare le distrazioni della cronaca.

Innanzitutto la disponibilità. È il maggiore fattore di appeal per il conferimento della quinta stella a un SS. Sono quelli che ci sono sempre, dalla prima ora all’ultimo minuto, telefono amico e citofono complice, ore pasti e ore piccole, letto divano sedia poltrona tappeto balcone a disposizione a seconda del casino (altrui) che devono disinnescare. Per un SS è naturale accogliere perché nessuno più di lui sa cosa significa non essere accolti.

Poi c’è il sentimento, la parte più noiosa. Un SS è come un reduce del Vietnam dell’amore: forgiato e un po’ disilluso, ma mai indifferente al tema. Sa benissimo che l’amore più grande è quello che finisce, perché solo in quel modo se ne può tastare l’imponenza e l’importanza, ed eventualmente avere la libertà di esercitare il diritto di paragone senza un partner che rompa i coglioni. Ma sa anche che si troverà di fronte a non single non stagionati che cercheranno di rimbecillirlo con le loro storie che reputano uniche e irripetibili e dalle quali non riescono a emanciparsi (infatti vanno da lui, mica vanno a pentirsi da Giletti tipo Baiardo).

Inoltre c’è il tempo. Un SS paga a caro prezzo il bene più prezioso che chi non sa niente di queste cose pensa che sia l’indipendenza. E invece è la gestione del tempo. Imparare a impiegare le ore, i minuti è un dono meraviglioso che vale da solo tutto il compendio di sacrifici ai quali un SS si sottopone, spesso non per libera scelta. È sempre una questione di S: solitudine, spesa, sesso, stress, sincerità. Un SS sa che questo benedetto tempo, dato che oltre che single è anche stagionato, non va mai sprecato, ma senza assillo (che non inizia per S ma ne ha due comunque).

Prendetevi la briga di osservarlo, un SS, quando si muove nella sua casa, al supermercato, al lavoro, a cena con gli amici. Ha il migliore controllo del tempo: non è soffocato da impegni che non ha scelto; ha una discreta libertà di movimento; regge lo stress test del last minute meglio di chiunque altro.

In più un SS ha sviluppato – perché non proviene da un altro pianeta – una sensibilità in quelle aree della socialità che gli altri tendono a trascurare. Sa come sta l’amico/a che non si fa più sentire dopo che gli ha tritato i coglioni per anni: evidentemente si è riparato sotto lenzuola confortevoli nel primo accampamento disponibile. Sa come funziona il meccanismo della convenienza, quello stesso meccanismo che l’ha portato a pesare il colpo di fulmine e il colpo di genio. Sa perché imboccare la via più difficile non sia dirimente, ma utile per conoscersi: indipendenza e felicità sono strade ben diverse, ma hanno un paio di bivi in comune, basta fermarsi un attimo e scegliere invece di tirare dritto per inerzia.

Ascolta il podcast Non è un paese per single

La libertà non è una preda

Settore long form, al confine tra la regione dei cazzi miei e quella della mobilitazione civile. Ieri a Palermo c’era un appuntamento delle Famiglie Arcobaleno alle quali sono particolarmente affezionato per motivi che qui è inutile spiegare.
Per loro ho scritto un breve monologo – recitato da Gigi Borruso per le parole, e da Fabio Lannino per le note – liberamente ispirato all’opera “L’altro” che andrà in scena al Teatro Massimo di Palermo, il 22 giugno prossimo.
Per chi non c’era, e per chi c’era ma ama pensare di non esserci stato perché riassaporare è gustare due volte (ah, che meravigliosa debolezza!), ecco il testo.

Avete presente l’estintore del supermercato, incorniciato nella sua vetrinetta col megafono e la scritta: “Usare solo in caso di incendio”?
Ci avete mai pensato che in realtà vi sta dicendo: “Minchia, ho detto solo in caso di incendio!”
Ecco, il concetto è quello.
Il problema del “tempo di pace” è che funziona solo in funzione dei “tempi di guerra” in cui è incastonato, quindi si porta appresso una vagonata di incomprensioni.
Domande.
È giusto pensare al peggio quando si sta benissimo?
Esiste una zona franca delle intenzioni?
Chiunque si dia dato la pena di sopravvivere sa che il filo sul quale ci muoviamo, da acrobati improvvisati quali siamo, è solido.
Che il vero problema è la nostra capacità di rimanere in equilibrio. E l’equilibrio è solo un artifizio metaforico che non garantisce un bel nulla: esistono persone infide e disequilibrate che se la passano infinitamente meglio di esemplari umani corretti e ottimamente bilanciati. Questo è il labilissimo confine tra ingiustizia e figata, tra religione ed epopea della bestemmia.
Quando ci sono problemi che non ci interessano, nel senso che manco lambiscono il nostro orticello, generalmente ci rifacciamo a una parte intermedia del nostro corpo, che non è né capo né piedi, né arto né vessillo: le spalle.
Alziamo le spalle.
Voltiamo le spalle.
E ci trinceriamo dietro alle cinque parole più pericolose del nostro universo.

Non
Può
Succedere
A
Me

Credere nel “non può succedere a me” è come comprare le azioni di una società di cui non si conosce il prodotto, come salire su una macchina del tempo che ha le marce bloccate.
In realtà le cose accadono a tutti, nessuno escluso, e quelli che si ritengono in salvo, o sono incauti e lo sanno, o sono defunti e non lo sanno.
Se io non ho figli e non ho intenzione di averne, se sono eterosessuale e strafottente, se sono omosessuale ed egoista, se sono bianco o nero, alto o basso, vero o falso, se mi piaccio come normale in un mondo anormale o come anormale in un mondo normale, posso misurare tutti i passi incauti che mi separano dal mio pregiudizio, posso alzare o voltare le spalle e gridare:

Non
Può
Succedere
A
Me

Ma una cosa sola non posso fare: usare la libertà come una preda.  
I custodi della tradizione con la T maiuscola, i detentori del libretto di istruzioni della vita con la V maiuscola hanno un problema col tempo.
Il tempo non passa invano. E rendersene conto è già un bel regalo che possiamo farci.
Loro, quelli del libretto delle istruzioni, del manuale Cencelli applicato al sentimento non sanno che comunque sia, qualcosa ci ha lasciato detto, il tempo.
Non sanno che non è vero che si stava meglio quando si stava peggio: quando si sta peggio ci vuole poco a sentirsi meglio e non c’è vergogna a spogliarsi delle solite, trite, visioni nostalgiche.
La nostalgia è il vizio dei pigri: i pigri usano il passato per riverniciare gli ostacoli che non sono riusciti a superare e spacciarli per buone intenzioni.
Ci hanno fatto credere che servono nemici per mostrarsi uniti: che sia famiglia, religione, coalizione politica.
Qui a Palermo abbiamo una grande fortuna che sta proprio nelle nostre contraddizioni. Viviamo in una città in cui accadono cose complesse e semplici al tempo stesso, e non c’è da stupirsi di questa mistura logica in salsa agrodolce perché complessità e semplicità sono categorie soggettive della nostra visione sociale. L’una non esclude l’altra. Come altre categorie meno soggettive: la munnizza e la cultura, il traffico e la libertà di manifestare, lo straniero e il nativo. Siamo terreno fertile per far germogliare la preziosa pianta delle differenze.
Bambini e amore. Servono anime nuove e sentimenti antichi.
Per dipingere un nuovo mondo non basta requisire tutti i pennelli e pasticciare qualcosa sulla tavolozza davanti alla folla plaudente, sui balconi del potere. Servono piuttosto una sana allergia alla noia e la felicità intellettuale di chi sa che l’unica uguaglianza alberga nelle diversità. In tutte le diversità.
C’è un’espressione molto in voga in questo presente storto dove, ironia della sorte, ci riempiamo la bocca di parole inutili come “intelligenza artificiale” (una cosa che non è né intelligenzaartificiale).

L’espressione è “Veri Genitori”, degna scempiaggine di chi confonde la biologia con gli affetti, la scienza con il sentimento.
Non c’è peggior forma di controllo (governativo e non) di quella costruita sulle bugie.
I bambini sanno benissimo che i “Veri Genitori” sono una scemenza di alcuni adulti che vogliono mettere le mutande alla loro felicità, senza sapere che la felicità è nuda, che la felicità non tollera finzioni e travestimenti.
Esistono solo bambini che crescono nell’amore e bambini meno fortunati: il resto è grottesca ipocrisia.
Ecco perché alzare le spalle e fottersene dinanzi a un diritto negato agli altri e non a noi, dinanzi a un’ingiustizia che non sporca il nostro tinello è un peccato grave (in religione per chi ci crede, o in cuor nostro, per chi un cuore ce l’ha).
Se non siamo in grado di amare, perché purtroppo la borsa dei sentimenti non ha sempre i cordoni allentati, si può sempre provare a godere di riflesso dell’amore degli altri per gli altri. Vietarlo per decreto è una forma di violenza strisciante che non riscatta nessuno, ma fa solo ostaggi innocenti.
Vi siete mai chiesti da dove deriva la prosperità?
Io un’idea ce l’ho: la prosperità deriva dall’uguaglianza e dall’istruzione. Dalla libertà di guardarci allo specchio che ci spia dall’anta dell’armadio, di leggere i libri che non abbiamo scritto, di ascoltare frasi che non abbiamo pronunciato, di visitare luoghi che non abbiamo conosciuto e di esplorare emozioni che abbiamo fatto finta di conoscere, di guardare l’altro che fa cose che tu non sai fare, che dà baci che tu non hai dato, che accoglie chi hai lasciato fuori.

La libertà non è una preda.

Siamo zaino

Siamo zaino e portatori di zaino. Viviamo per caricarne uno e svuotarne un altro. Lo teniamo in spalla ma ci siamo anche dentro. Perché uno zaino è casa, e una casa è vita.
Chi ha mai viaggiato con uno zaino con dentro tutto tranne che le mura e il letto di casa, conosce il livello di amore e odio che si instaura con un manufatto del genere. Parliamo di una cosa che ti metti in spalla come una croce, che ti trascini come un peccato originale, che proteggi come un tabernacolo.
Per la maggior parte di quelli della mia generazione lo zaino è protesta, controcultura, passato che non ritorna. Per quelli che sono venuti dopo è perlopiù un attrezzo desueto, quasi da barboni o comunque una cosa poco pratica, poco igienica, da tenere nel ripostiglio.
Per me invece – e per un manipolo di altri viaggiatori di ogni latitudine generazionale – lo zaino è un raro esempio di simbolo che diventa catalizzatore: libertà è la parola che mi viene, e non so se a voi ne viene una migliore (minchia, meglio di “libertà” cosa c’è nella vita?).
Ora che la mia porzione di Francigena è terminata ho chiare alcune cose.
Innanzitutto che la mia esperienza con questo cammino italiano è conclusa. La Francigena è un itinerario di persone più che di luoghi, è bistrattata da chi si occupa di turismo e cultura, ed è bellissima malgrado tutto. Ha passaggi di traffico pericolosissimi, ha Comuni che se ne fottono delle sue potenzialità, ha tappe dove non c’è nulla da mangiare e da bere in agosto mica a dicembre. Ma ha soprattutto un patrimonio umano pazzesco, tanti piccoli centri arroccati in posti impossibili, un campionario di ospitalità ineguagliabile, un assortimento di storie, sacrifici, scommesse che diventano tesoro non appena varcano la soglia del ritegno familiare, della discrezione paesana. Io mi sono immerso, per delicata volontà dei miei interlocutori, in storie memorabili. Ho camminato nel buio della notte senza luna senza mai aver paura di perdermi e ho goduto di una pizza nel posto più improbabile per una pizza, ho costeggiato ettari di terra coltivata a pomodori e ne ho mangiato il giusto per rimanere al di sotto della quota umana possibile, ho trovato chi voleva ascoltare le mie storie in una piazza improvvisata (che gioia, che emozione!) e chi invece voleva raccontarmi le sue all’ombra di un castagno, ho scalato con fatica l’ignoto e mi sono confessato con sincerità con ignoti (più difficile la seconda).
Poi con la mia amica Sarah (la trovate qui) abbiamo imbastito, nei rari momenti di connessione social, un parallelismo di Cammini: io sulla Francigena, lei sul Cammino Portoghese. E lì ho stravolto la mia bibbia sociale applicata a queste cose. Lei che è molto cattolica, e altrettanto femmina, va in chiesa con la naturalezza con cui va dal parrucchiere. Che, se ci pensate, è un bel messaggio: non è mai troppo tardi per una bella messa in piega dell’anima. “Perché ‘sta storia che la pellegrina deve essere pulciosa deve finire…” dice, e lì ci sarebbe da ricostruire tutta un’iconografia del sentire comune soprattutto della sinistra italiana, con ampia licenza di metafora.
Nella conclusione del mio cammino oggi ho affrontato una salita tremenda – quasi sette chilometri di scalata, più che salita – e da qualche migliaio di chilometri lei ha confermato a proposito dei suoi dislivelli: “Ho visto più bestemmiatori su queste salite che allo stadio” ha scritto dal Portogallo. Conoscendola, so che dio non smentirebbe e, magari, convocherebbe il suo CDA in sessione estiva.
Di questo cammino mi resta, a parte la felicità di tutti queste centinaia di chilometri (manco li ho contati), la consapevolezza che col sapone di Marsiglia ho lavato tutto e di tutto, tranne che i denti. Che siamo abituati a detestare le zanzare solo perché non conosciamo il potere demoniaco delle formiche e soprattutto delle mosche. Che con certe temperature nell’estate padana (ed era il caso di fargliela fare a Bossi e Salvini ‘sta Padania a patto che col caldo restassero tutti confinati nella loro bella repubblica indipendente/rovente), ti stupisci di scegliere se l’ultimo goccio della borraccia deve andare sulla testa rovente o nella gola arsa. Che, se provi a usare Google Maps cedendo alla pigrizia tecnologica anziché fidarti delle mappe su carta, nella maggior parte delle volte finirai in un sentiero cieco, meritatamente sperduto.
Insomma ridiamo, scherziamo, rubiamo tramonti a posti che abbiamo visto di striscio, citiamo autori che mai abbiamo letto, ci impadroniamo di musiche che non conosciamo, usiamo “Easy” dei Commodores per le storie di amore senza sapere che la canzone parla di un amore di cui l’autore si è finalmente liberato, e via condividendo. Alla maggior parte di noi di queste cose non gliene frega niente.

Ecco perché alla fine di questa cronaca – che è sì telematica ma soprattutto umana, ergo analogica – mi piace pensare che siamo zaino e portatori di esso. Perché il giorno in cui ci sarà il liberi tutti, senza zaino non si salverà nessuno.

10-fine

Le precedenti puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Ventisei parole

Sto scrivendo una cosa che riguarda l’altro. Proprio l’altro, il diverso da noi, il vicino che ci spia o lo sconosciuto che ci ignora da lontano. Ma anche l’altro inteso come altra parte di noi stessi, quella che guardiamo allo specchio e che ci illudiamo di conoscere.

Un passaggio fondamentale per occuparsi dell’altro (in questo contesto non considereremo l’altruismo che è una virtù e non un’entità) è la capacità di saper stabilire un perimetro all’interno del quale i ragionamenti hanno un’unica cittadinanza. Questo è il perimetro della libertà certificata, cioè quella che va oltre il “faccioilcazzochemipare”.  
In tempi di Coronavirus il mondo nel quale cercare e trovare un altro da osservare, additare persino ignorare (ma con gusto), è quello del web. E per capire di cosa stiamo parlando è utile tornare al 1996 e alle seguenti 26 parole: “Nessun fornitore o utilizzatore di un servizio interattivo telematico sarà trattato come un editore o un portavoce delle informazioni prodotte da un altro fornitore di contenuto”. È un passaggio fondamentale (eppure sconosciuto al 99,9 per cento dei fruitori di internet) contenuto nella sezione 230 del Communications decency act approvato dal Congresso americano, sotto la presidenza di Bill Clinton. In pratica con quel provvedimento si evitava che i primi provider, tipo Prodigy e CompuServe, fossero responsabili di ciò che si scriveva negli spazi primordiali di interazione (chatroom, bulletin board, newsletter). Il concetto cardine fu quello di considerarli come intermediari, come mezzi di trasmissione e non come editori: alla stregua di una libreria o una di biblioteca che ospitano tutti i libri che vogliono e/o possono.

Ecco, il nostro concetto di libertà, fondamentale per indagare l’altro senza incorrere in sanzioni o in errori di prospettiva, dipende almeno nell’era moderna soprattutto da quelle 26 parole. Perché più di altre legislazioni al mondo, la sezione 230 degli Usa ha protetto la libertà nel web e l’ha veicolata nei mille rivoli delle sue stesse contraddizioni: la diffusione dell’odio online, l’impossibile differenza tra provocazione e offesa, la tomba del diritto d’autore, l’agonia dei giornali, la nascita di nuove forme di violenza. Tutte sviluppatesi al riparo di un provvedimento che doveva garantire la forma più ampia di democrazia, quella orizzontale, e che invece oggi rischia di elargire impunità a chi manco sa cosa sta maneggiando. Perché l’attenzione verso l’altro risente degli strumenti che servono ad accorciare la distanza: un cannocchiale, un libro, un pensiero trasversale, un account di Facebook, o una pistola.  

Battipanni, liberi tutti

È complicato smontare i luoghi comuni, soprattutto quando sono più luoghi che comuni cioè più simboli che stati d’animo condivisi. Mi capita ogni giorno da quando combatto una battaglia solitaria contro il già detto, il già sentito, il dichiarazionismo a effetto.

Penso che se dovesse nascere un nuovo partito – uno nuovo nuovo davvero – dovrebbe innanzitutto organizzare una campagna di debunking contro il trito da soffritto non commestibile, cioè contro tutta quella fuffa che ammorba le nostre coscienze da prima dell’avvento di Facebook e compagnia chattante.

Sarebbe bello trovarsi in un consesso dove si parla di ciò che è vero, di ciò che si conosce, senza mistificazioni, senza rubare meriti agli altri. Aggirando cioè quella pratica diffusa – e non da ora – secondo la quale se una cosa buona è accaduta il merito è di chi lo dice prima. Tipo “battipanni liberi tutti”.   

So che il discorso può risultare sibillino quindi faccio un esempio alla portata di tutti. Cioè di quei “tutti” che stanno generazionalmente a tiro di questo blog.
Woodstock.
Tutti blaterano di Woodstock senza sapere che quel festival, passato alla storia come esempio di gioia e libertà, in realtà fu un disastro organizzativo ed economico. La mitologia di quei “Three Days of Peace & Rock Music” ha nascosto la cruda realtà. E cioè che quattrocentomila persone, in quel fazzoletto di tempo dal 15 al 18 agosto 1969,  vissero per quattro giorni in un inferno di sporcizia e droghe, e che godettero tutte di un miracolo inaspettato: quasi nessuno morì in quel disastro di igiene, ad eccezione di un ragazzino che fu travolto da un trattore. Il migliore dei peggiori collateral damages, diremmo oggi.
Il festival fu organizzato da quattro amici di cui uno aveva ereditato un casino di soldi da buttare, e costò circa 4 milioni di dollari dell’epoca: cose degli anni sessanta insomma…
Nonostante all’inizio fosse previsto un biglietto di ingresso, l’arrivo inaspettato di una valanga di persone che travolse transenne e ingenuo buonsenso costrinse gli imberbi organizzatori ad aprire i cancelli e a pronunciare la famosa frase: “It’s a free concert from now on”.
Badate bene, non era generosità, bensì paura.
Paura che la situazione sfuggisse di mano. Paura che la droga facesse stragi che manco Charles Manson potesse immaginare, e lui era un criminale che se ne intendeva di sangue spicciolo…

A Woodstock quei quattro improvvidi ragazzi aspettavano ventimila persone, invece ne arrivarono quattrocentomila con un solo ospite realmente scomodo, non invitato e imprevedibile: la storia.
Economicamente persero tutto, ma con gioia. Il resto fu cronaca imperitura: divennero re senza corona, sovrani senza nome. Una sorta di atroce sottosopra rispetto al mood social di oggi.

Ecco cosa ci sta dietro i luoghi comuni. Ci sta ciò che non conosciamo, più o meno colpevolmente. Ci sta la nostra grettezza e la nostra paura di approfondire, ci sta il finto conforto di una versione di comodo e il rifugio dagli effetti collaterali del coraggio.
L’innovazione è di chi se ne fotte. Oggi, domani, sempre.

Libertà

Lo spunto me lo ha dato, qualche giorno fa, la morte del professore Fernando Aiuti, l’immunologo che più di altri riuscì portare avanti la lotta all’Aids con il rigore e la libertà concesse dalla scienza. E se sul rigore nulla quaestio, sulla libertà il campo è aperto. Apertissimo.

L’applicazione della libertà ai temi più svariati e complessi della nostra vita è il vero tema.

Come Aiuti ha interpretato il suo ruolo di scienziato, con rigore e fantasia, cioè con un registro e il suo contrario, così credo che i nostri momenti migliori siano quelli in cui la libertà mostra il suo confine più raggiungibile: che non è un ossimoro, ma il frutto di un’applicazione costante sul metodo per una soddisfazione più o meno istantanea.

Espongo brevemente la mia esperienza.

Quando al lavoro mi sono annoiato, ho mollato tutto e ho scelto una collocazione in cui, pagando, avrei avuto maggiore libertà. Non mi sono assicurato il divertimento, ma la soddisfazione di fare ciò che mi piace nel modo più conveniente (per me e conseguentemente per il mio datore di lavoro) sì.

Quando ho creduto in un sentimento al di sopra della cintola, l’ho fatto sapendo che un legame duraturo non era una prigione bensì un’assicurazione sulla vita. Non mi sono garantito l’amore eterno, ma la soddisfazione di dire che ci ho provato (e di constatare che certe polizze è meglio non riscuoterle) sì.

Quando mi confronto con persone in difficoltà, io che tengo la bontà a distanza con la canna, tendo a misurare il loro grado di affidabilità con la loro resistenza all’ira, alla rabbia. Perché la vera forza della libertà – l’ho imparato solo di recente – è quella della fusione fredda. Risentimenti, vendette, insofferenze, patemi, allergie, odio, repulsione, sono ingredienti che vanno maneggiati con l’occhio del chimico, o del pasticciere: un milligrammo in più o in meno e tutto è perduto.

Capisco che la vera libertà, all’alba dei miei 56 anni, è quella di non pensare chi sarà al tuo capezzale quando te ne andrai, ma quella di abbracciare chi ti chiede discretamente cosa farai il prossimo weekend, chi ti consiglia il film che vorrebbe vedere con te, chi ti chiama perché ha una bottiglia da condividere, chi ti regala sere esilaranti gratis, chi non rinvia ma anticipa, chi se anche ti ha voltato le spalle quando meno te lo aspettavi si scusa goffamente, chi c’è al posto di altri che se la sono data a gambe.

La libertà è trasversale.

E, ontologicamente, è per pochi sopravvissuti quindi preziosissima.         

Taci, il nemico ti inonda

Nel mondo digitale – cioè prima del web, dei social, della comunicazione istantanea – la censura era una cosa relativamente semplice: bastava chiudere qualche giornale, bruciare qualche libro, mettere sotto controllo l’azienda radiotelevisiva. Oggi è tutto molto più complicato, basti pensare che ad esempio nella sola Cina ci sono 4 milioni di siti web, 1,2 miliardi di smartphone, 700 milioni di utenti di internet, 600 milioni di persone che usano WeChat e Weibo per una produzione giornaliera di 30 miliardi di informazioni. Capite bene che ogni forma di controllo diretta sarebbe impossibile. Eppure, spiega John Naughton sul Guardian, “i regimi autoritari godono ancora di ottima salute”. Com’è possibile?
La risposta la dà Margareth Roberts nel suo libro Censored (di cui ho letto su “Internazionale”):

Per impedire ai cittadini di informarsi, nel mondo digitale la censura usa la paura, l’attrito e l’inondazione. La paura è il vecchio sistema: funziona sempre, ma è costoso e può provocare contraccolpi pericolosi per i regimi. L’attrito impone ai cittadini un aumento dei costi – in termini di tempo o di soldi – per accedere alle informazioni: la pagina web che si carica lentamente, il libro rimosso dalla biblioteca online. L’inondazione ci sommerge di informazioni – molte false e inaccurate – per rendere difficile la distinzione tra quello che è utile e tutto il resto. Serve a diluire e a distrarre. È un sistema economico, efficace e senza particolari controindicazioni.

Ho citato la Cina. Ma la Cina è vicina.

La finta libertà del telefonino-dipendente

dipendenza da telefonino

Ho vissuto per qualche giorno in un posto bello e isolato. Niente connessione con internet, niente telefono, niente tv. E’ una di quelle esperienze, moderne al limite dell’imbarazzante, in cui ciò che è regolare, normale e ordinario diventa straordinario, eccezionale.
Parlare con la persona che ti sta accanto senza un trillo che ti interrompa, leggere un libro prima e dopo cena fottendosene del tg, non chiedersi cosa diranno di te quelli che normalmente hanno molto da (ri)dire su quello che scrivi e pubblichi grazie a quei mezzi che adesso non hai: sono frammenti di una vita che sa di vacanza vera e che inesorabilmente si porterà appresso una scia di nostalgia quasi indelebile (il bello di una vacanza indimenticabile è che fa da appiglio per una nuova).
Perché il vero effetto di un ritorno a quelle che potremmo definire relazioni analogiche è la constatazione che la reperibilità eterna e la condivisione continua riempiono le nostre esistenze di una sorta di polistirolo emotivo. Che stabilizza e, soprattutto, isola.
Il resto sono solo frammenti di conversazioni iniziate con uno e finite con centomila, scuse che rimandano al controllo perenne del cellulare (“devo vedere la posta elettronica”), sintomi di noia inconfessabile, brandelli di personalità diluita in invii multipli e polluzioni da social network.
Pensateci quando fate finta di sentirvi liberi e indipendenti.
Ve lo suggerisce uno che con internet ci campa da qualche annetto.

Il complotto mondiale contro il PC

C’è un interessantissimo tema di discussione nel web, in questi giorni. Lo ha lanciato in Italia Paolo Attivissimo sul suo blog, riprendendo la lezione di Cory Doctorow al Chaos Computer Congress di Berlino.
La questione centrale è questa: il PC, inteso come normale computer ordinario, è diventato scomodo per governi, lobbies e aziende, perché non è controllabile. Le macchine generiche su cui far girare programmi piratati o non approvati, con le quali fare qualcosa che non necessariamente debba passare dall’approvazione di Apple o di una qualsiasi autorità politica o economica, sono destinate a scomparire. Al loro posto si vogliono i tablet, le console, i sistemi chiusi che accettano solo “cibo” predigerito.

E’ uno spunto che si ricollega idealmente, anche se da una direzione differente, al concetto di libertà in tempi di tecnologia avanzata al quale avevamo accennato qualche settimana fa.

Ecco il video integrale dell’intervento di Cory Doctorow coi sottotitoli in italiano.

La contraddizione della democrazia

Un amico economista mi ha spiegato in modo elementare la situazione italiana. “Se c’è una forte richiesta di un certo tipo di politica, quel tipo di politica si afferma. Punto”. Il che significa che Berlusconi, Papa, Milanese, Brunetta, Bossi e compagnia bella sono voluti dalla maggioranza degli italiani, quindi è giusto che stiano dove stanno (anche in galera).
Spesso questo concetto viene confuso con la democrazia, come se democrazia fosse sinonimo di libertà. In realtà, come molti sanno, le cose non stanno così.
Si può vivere in uno stato democratico senza libertà, e viceversa.
Dinanzi al fatto che la maggioranza degli italiani vuole Berlusconi e correi al governo, si può sempre invocare la contraddizione intrinseca della democrazia, oggetto di studi da sempre: se il popolo votasse per l’abolizione della democrazia, la si dovrebbe abolire? E cosa sarebbe una democrazia che cassa se stessa?