Mentre Borsellino moriva


Quando ammazzarono Paolo Borsellino io ero in ferie, a Levanzo. Mentre il tritolo lacerava il giudice e gli agenti della scorta, io dormivo.
La mattina ero andato a pescare con i miei cugini per poi rivendere il pesce al ristorante presso il quale avremmo cenato la sera stessa: consumando e pagando più del doppio il pesce che noi stessi avevamo fornito.
Avevo già un telefono cellulare, un Mitsubishi, che incastravo sul bordo di una finestra socchiusa, nella stanza in cui vivevo per quelle settimane di leggendaria spensieratezza. La linea era sempre disturbata e la posizione millimetrica dell’apparecchio era determinante per ricevere una telefonata oppure niente.
Quel pomeriggio quando mi risvegliai mi accorsi che un colpo di vento aveva fatto cadere il cellulare per terra. Non appena lo ricomposi e lo riaccesi, l’apparecchio squillò con tutti gli arretrati di notizie che mi ero perso. Mio fratello fu il primo a dirmi cosa era successo. Poi un collega del giornale. Poi un altro collega di una tv. Accesi il televisore, Canale 5, e vidi un giovanissimo Salvo Sottile, irriconoscibile – che pure avevo visto crescere accanto a me – che biascicava frasi di circostanza davanti al nulla di una strage assurda.
La sera non andai a mangiare al ristorante al quale avevamo consegnato una cernia di quattro chili e optai per una frittata che mi offrì Nitto Mineo, il padrone dell’albergo in cui mi trovavo.
Parlò solo lui, tavolo per due. Mi raccontò delle tonnare, del mare, e di quando uno squalo lo aveva mancato per un paio di centimetri. Poi quasi si scusò per quella narrazione lontana dal fumo oleoso di via D’Amelio.
Io lo ringraziai e, dopo una generosa dose di Fernet, andai a letto.
Ci misi un paio di ore prima di addormentarmi. Poi cedetti alla stanchezza.
Tutto questo mi sembra che sia accaduto ieri. Invece sono passati 19 anni.
Ero giovane, ora non lo sono più.
Si invecchia in un attimo, giusto il tempo di fermarsi a ricordare.