L’anfetamina dei giornali

C’è un tema molto importante che riguarda l’innovazione nel mondo dell’editoria e nello specifico il rapporto tra lettore e contenuti online. Lo ha tirato fuori il direttore di Repubblica Maurizio Molinari in un’intervista su Prima Comunicazione che ha causato uno sciopero dei giornalisti del quotidiano.  
Dice Molinari parlando della riorganizzazione del lavoro che dovrebbe scattare già all’inizio del 2023:

“E’ prevista una continua indicizzazione dei contenuti, per intervenire rapidamente e costruire un’offerta informativa in linea con le preferenze dei lettori. Il nostro obiettivo è di intervenire in tempo reale, più volte al giorno, utilizzando i dati che raccogliamo sui nostri siti, sulle app, sui motori di ricerca e sui social. Se usi bene in tempo reale il seo, il giornale diventa responsive, dinamico”.

L’apparato digitale, insomma, monitora l’interesse dei lettori e propone contenuti in base alle loro scelte. È un metodo tipico del marketing digitale e soprattutto degli algoritmi dei social network.
In Italia già, ad esempio, il Corriere della Sera offre ai suoi abbonati una sezione chiamata “Le tue notizie” introdotta da questa frase:

“Ti diamo il benvenuto nella nuova sezione del Corriere che mostra le news che incontrano i tuoi interessi. Più navighi, più l’intelligenza artificiale di Corriere imparerà quali sono i temi più rilevanti, per proporre le notizie più affini a te”.

Riassumendo, i giornali online tendono ad assecondare il lettore nelle sue scelte: se quello chiede più cronaca nera gli si dà più cronaca nera, se chiede più tette gli si danno più tette, se chiede più politica estera gli si dà più politica estera. E non solo, l’indicizzazione dei contenuti è talmente raffinata che persino le categorie di cui sopra possono essere ulteriormente scremate: cronaca nera della provincia di Palermo, Bagheria esclusa; tette piccole e non medie né grandi; politica estera con risvolti rosa e sudamericani.
A parte la banalità degli esempi, c’è qualcosa che non vi torna?
Pensateci.
Sì, proprio quella cosa lì.

L’omologazione.

In questo modo avremo offerte giornalistiche sempre più omologate e omologanti con la nostra bolla di interessi, sapremo sempre di più di ciò che già in qualche modo conosciamo, e sempre più difficilmente ci imbatteremo in novità.
Molte aziende editoriali – penso al New Yorker negli Usa ma anche al Post in Italia – attuano procedure diverse, opposte direi. Scavano nelle pieghe di ciò che probabilmente non si sa, cercano di stupire il lettore, gli regalano punti di vista inaspettati, gli raccontano storie di mondi a lui lontani, e non solo geograficamente.
In poche parole: cercano di demolire le echo rooms dei social network e di bucare le bolle informative nelle quali si sono andati a cacciare.
Il giornale responsive, cioè a misura del lettore, non è la soluzione alla crisi mondiale dell’editoria, ma al contrario la sua droga. Un’anfetamina che fa finta di combattere la malattia del sistema bombardandolo con gli stessi virus che lo fiaccano. E illudendolo con nuovi sintomi, confusi e sparsi.
Lunga vita ai giornali in cui il seo non scalza le scelte di un caposervizio di esperienza, l’estro di un titolista, il coraggio di un direttore.

La rivoluzione della gentilezza

Prendo spunto da un episodio secondario per cercare di raccontare un fenomeno di primaria importanza. Nella consueta diretta Facebook del Giornale di Sicilia, Marco Romano che del GdS è vicedirettore fresco fresco, ha colto l’occasione per fare le condoglianze a Emanuele Lauria, cronista parlamentare di Repubblica Palermo (ovvero diretto concorrente del Gds), per un lutto familiare.
Non sono uno che ama il buonismo, come sapranno i miei dodici lettori, però sono uno sensibile ai venti che turbinano, che scompigliano capelli e idee. Detesto le smancerie, ma le amo se conducono in un luogo dove la smanceria si vaporizza. Ecco, in questo piccolo gesto del non-eroe Romano io ho visto un’ispirazione. Che dal mio punto di osservazione ha una presunzione di universalità.
Se tutti noi – battaglieri, incazzosi, tronfi di un tesserino, sudaticci perché effettivamente fatichiamo, cazzeggiatori, seriosi al limite del ridicolo, contestati e resistenti, pennivendoli e umiliati da gente che non sa cosa significa pennivendoli – imparassimo che la gentilezza è l’arma migliore contro la barbarie dell’ignoranza, non sposeremmo un ideale religioso (porgere l’altra guancia rimane sempre il miglior modo per assomigliare a qualcuno che non siamo stati e non saremo mai), ma almeno impareremmo a distinguere tra i barbari e tutti gli altri. In un momento in cui la storia la scrive chi non sa impugnare una penna, nel famoso mondo alla rovescia in cui si mangia di nascosto e si defeca tutti insieme allegramente, dare una pacca sulla spalla al concorrente atterrato da un lutto è un atto di grande rivoluzione culturale in una piccola trincea di resistenza.

Nel nome della rosa

Mario Calabresi
Mario Calabresi

Non ci deve essere vergogna ad ammettere le proprie debolezze. Ho quasi tutti i difetti del mondo, e una schiera di testimoni infinita per elencarli, ma so per certo di non essere un invidioso.
Tuttavia devo confessarlo: in questo momento io invidio Mario Calabresi. Non perché è a capo di un grande giornale, non perché ha bruciato le tappe, tutte, di una vita non facile, non per il potere acquisito.
Lo invidio perché è chiamato a gestire un progetto rischiosissimo. Che è motivazione, giustificazione, droga e antidoto al tempo stesso. Lo invidio perché non può perdersi tra pensieri inutili e al contempo affidarsi solo all’utilitarismo. Lo invidio perché è seduto su una sedia scomoda e probabilmente dorme poco e male, a buon dirittto. Lo invidio perché ha una bomba tra le mani che è anche un giocattolo, e sa che la differenza tra una bomba e un giocattolo è solo nel numero degli spettatori che possono parlarne.
Non vorrei essere lui se rinascessi, ma vorrei esserci.
Chissà.
Forse il giornalismo è come la vita, o come certi romanzi. Stat rosa pristine nomine, nomina nuda tenemus.

Trentarighe anche sul web

Siccome un blog solo evidentemente non bastava, me ne hanno affidato un altro. Da oggi su Repubblica Palermo trovate Trentarighe, uno spazio di agili riflessioni che si ricollega (ma senza troppi vincoli) alla omonima rubrica del cartaceo.
Buona lettura.

L’onestà del giornale

Quello che un giornalista fa nasce dalle sue convinzioni e dai suoi principi. Per me, furono fissati dal direttore del Times che per la prima volta mi mandò all’estero nel 1976. A. M. Rosenthal. Abe chiedeva di “mantenere l’onestà del giornale”. Lo disse prima del mio primo incarico all’estero: l’apartheid in Sudafrica, un paese visto come un caso di evidente oppressione. Ma anche lì la necessità di mantenere l’onesta del giornale imponeva, disse Abe, che raccontassimo non solo la storia degli oppressi, ma anche quella di tutti gli altri principali protagonisti della grande tragedia sudafricana, compresi gli afrikaner he avevano fatto diventare il paese una fortezza del pregiudizio razziale. Quelle storie, disse, potrebbero sorprenderci e darci un senso più strutturato della verità.

Oggi su la Repubblica John F. Burns, nel ricordare Tiziano Terzani, ricorda a tutti noi il senso di un giornalismo antico e meraviglioso. Il giornale che ha una sua onestà, che ascolta tutti, oppressori e oppressi perché la verità è un puzzle e non una tesi blindata. Leggendo quelle righe e guardandoci intorno come sembrano piccoli e insignificanti i giornalucoli di casa nostra che sposano cause vincenti per comodità di pregiudizio…
Mi sono spesso imbattuto, purtroppo, in queste fosse comuni del buon senso: giornali che pontificano appoggiandosi sulle spalle del più forte e che non riescono a trovare l’indipendenza per narrare con dura franchezza, per sporcarsi le mani con la realtà. Sono i promulgatori di quelle che un tempo definii notizie a sentimento: che piacciono quindi vanno date (a differenza delle altre che invece vanno sepolte vive). Per fortuna il tempo, oltre a essere galantuomo, è anche discretamente crudele con chi spreca i tesori dell’esperienza e persevera nei propri errori.

L’uomo che vide la luce… e se ne appropriò

imageUn estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.

È tutta una questione di malintesi. A cominciare dal soprannome. Nino u’ ballerino non balla, ma ancheggia quel tanto che basta a evitargli di versarsi la milza sui pantaloni. Del resto non sarebbe prudente sgambettare sulla sugna: anche se di terreni scivolosi, il celebre meusaro palermitano se ne intende. Così quando l’altro giorno i carabinieri lo hanno denunciato per furto di energia elettrica, perché aveva manomesso i contatori dell’Enel, lui dapprima ha chiesto scusa ai palermitani, poi ci ha pensato su e si è rimangiato tutto dicendo che ai palermitani non ha fatto proprio nulla di male. Un altro malinteso. Il furto e la denuncia sono cazzilli suoi, quel che conta è la valenza socio-economica del suo gesto a causa della “pressione fiscale che noi imprenditori non riusciamo più a sostenere”. Manomettere per resistere.
Anche quando lo invitarono al master di Management in Food and Beverage alla Bocconi, Nino (…)  fu vittima di un fastidioso malinteso. I giornali parlarono di lezione universitaria, lo fecero addirittura salire in cattedra, mentre in realtà lui si limitò a presenziare a una conferenza in inglese sullo street food e sul modello palermitano che lui rappresentava, al termine della quale rispose a qualche domanda sorretto da un interprete. E soprattutto si mise a friggere nel bar dell’Università.
Anni fa si scoprì che aveva ceduto agli estortori fin quando non aveva rischiato di lasciarci le penne perché aveva deciso di cedere un po’ meno. Lì, per quel che si sa, non invocò nessun malinteso, ben conscio che il senso critico di Cosa nostra è pesante come un cappotto di cemento armato.
Friggitore da quattro generazioni, Nino u’ ballerino è riuscito persino a condire di metafisica la sua arte culinaria. Parlando del suo bisnonno, ha detto: “Credo nella reincarnazione”. Non si sa se con o senza formaggio.

Lo scisma del consigliere ossessionato dagli atti impuri

Un estratto dall’articolo di oggi su La Repubblica.

Dura è la vita del probo Angelo Figuccia, consigliere comunale di Palermo tra gli altari di Forza Italia, che ieri dopo una vita di fede ha annunciato il suo abbandono della Chiesa cattolica. Motivo? La tutela della famiglia naturale “avendo capito – parole sue, gerundio passato incluso – che la Chiesa cattolica è sempre meno integralista e sempre più tollerante”. In pratica ce l’ha coi gay che, qualche giorno fa, aveva definito “malati da traumi”.
(…)
Incurante della potenzialità scismatica del suo ragionamento, il probo consigliere fissa due cardini storici: la mozione del consiglio comunale per istituire una festa della famiglia naturale e la risoluzione definita “granitica” approvata dalle Nazioni Unite “al Palazzo di vetro di New York” per la protezione della medesima famiglia naturale. E poco importa se nella foga, Figuccia (che pure in tema di questioni sessuali ha un cognome che lo aiuta) ha confuso la sede centrale dell’Onu con il Consiglio per i diritti umani della stessa organizzazione che si trova a Ginevra: Svizzera o Stati Uniti che siano, la crociata contro l’atto impuro s’ha da fare e Dio ci assista. Perché è l’atto impuro, nella teoresi figucciana l’insano nido del peccato. Nel suo comunicato stampa, il Probo si mette a nudo nell’anima per testimoniare di quando da giovane si metteva a nudo nel gabinetto, e rivela: “Ai tempi della prima comunione, quando mi andavo a confessare, la prima domanda che mi rivolgeva il prete era se avevo commesso atti impuri e scattava subito la penitenza”.
Chissà se lo scismatico Figuccia saprà dare risposta a uno dei più grandi dilemmi della fede: la masturbazione mentale è un atto impuro?

Leggere con moderazione

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Oggi i lettori renziani di Repubblica rischiano l’overdose.

Web, la figuraccia della Regione Sicilia

Figuraccia nel webUn estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.
Il flop è flop, ma se è annunciato diventa disastro. E dopo un disastro, ci sono tre fattori da considerare: lo scenario, le vittime, i colpevoli.
La figuraccia dell’assessorato regionale alla Formazione, che ha deciso di assegnare via web duemila tirocini ai giovani senza riuscire a metter su un portale in grado di reggere la prova, è in qualche modo inquadrabile in una categoria di disastri: quella di un sistema pubblico inadeguato e incompetente.
Lo scenario è quello di un’amministrazione che fa i conti senza l’oste, avara di lungimiranze e inguaribilmente prodiga di promesse. Se ci si imbarca in un progetto da terzo millennio – anche se l’ambito informatico della Regione rievoca più il crudele HAL 9000 di “2001 Odissea nello spazio” che la moderna onnipotenza dei computer de “Il quinto potere” – bisogna innanzitutto viverci nel terzo millennio. Continua a leggere Web, la figuraccia della Regione Sicilia

L’arte di trasformare i rifiuti in stipendi

RIFIUTI PALERMOUn estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.

Voi non ci crederete, ma a Palermo l’immondizia non esiste. Quella che vedete lungo le strade, nei parchi urbani, ai piedi dei monumenti non è spazzatura, ma un simbolo di ricchezza, un simulacro di opulenza. Non si spiegherebbe altrimenti la passione con cui molti palermitani si dedicano all’accumulo pubblico di questa risorsa: si sporca perché qualcuno raccolga, in un circuito virtuoso in cui la mano che getta la cartaccia per terra sta in realtà garantendo il posto di lavoro di chi dovrà raccoglierla. In questo quadro di perfetta cooperazione sociale che vede il cumulo di sacchetti puzzolenti come luogo di congiunzione tra domanda e offerta, non c’è da stupirsi se il servizio che deve garantire la gestione dei rifiuti a Palermo ha un costo elevato. Anzi il più elevato d’Italia, 207 euro pro capite contro 158 della media nazionale. Qui si lavora di fino, mica si scherza.
Ve l’immaginate una città finalmente pulita? Migliaia di ramazze orfane, la crisi di astinenza da emergenza ambientale (il fumo del cassonetto dà dipendenza come quello di tabacco e però costa meno), il crollo dell’ideologia madre dell’Amia (“grazie ai rifiuti si mangia benissimo, specialmente all’estero”).
No, la nuova bolletta che i palermitani dovranno pagare per lo smaltimento dell’immondizia non è affatto salata se si considera anche l’attenzione con la quale la Rap si deve occupare della cosiddetta differenziata: il cittadino che deve tenersi in casa per una settimana carte, cartacce, cartoni, plastica, metalli, tipo soggetto affetto da sindrome di accumulo compulsivo, non si distacca così facilmente dalle sue cose. E lì interviene l’operatore ecologico all’avanguardia, un po’ psicologo e un po’ amicone, che quelle cose gliele lascia lì, davanti all’uscio, così fetidamente rassicuranti.
(…)
Da Cartesio ai giorni nostri, una nuova certezza indubitabile si fa largo tra la preziosità del maleodorante e il valore del provvisorio. Lì dove un tempo si inorridiva, oggi si gioisce. Vomito ergo sum