Isolati e contenti

Lo ammetto. Tolte le esigenze sportive e qualche seccatura nell’approvvigionarmi di generi meravigliosamente superflui tipo un certo olio di tartufo bianco, una marca di funghi secchi, qualche bottiglia irrinunciabile e altre fondamentali amenità, questo isolamento non mi è pesato troppo. Perché sono comunque un solitario, anche in tempi di pace. Perché pratico lo smart working dal 2007, perché sono fortunato ad avere una sistemazione confortevole e perché ho sempre preferito una cena a casa fatta con le mie manine al migliore dei ristoranti. È indole. Tuttavia il rischio che una costrizione come quella che abbiamo vissuto abbia effetti indesiderati persino in una persona strutturata per l’auto-isolamento è altissimo. Per spiegare cito una famosa battuta: “Cameriere, un caffè senza panna, per favore”; “Mi dispiace, niente panna, abbiamo solo latte, va bene anche un caffè senza latte?”.

Ecco, il trasformare il caffè senza panna in caffè senza latte ci dà l’idea della differenza tra una privazione imposta e una privazione scelta deliberatamente. Il Coronavirus, anche a noi ottimisti dell’isolamento, ci impone un caffè senza la libertà di cosa non metterci dentro.

Uno psicologo potrebbe dirvi (io ne ho letto qui) che oggi proprio le persone abituate a lavorare a e da casa “sono le più ansiose e le più esposte al rischio delle peggiori fantasie perché a determinare la singolarità di questa situazione nella loro vita quotidiana non è un cambiamento di abitudini”. Cosa significa? Significa che se non si è verificato un reale cambiamento nella nostra realtà quotidiana (quella nella quale eravamo immersi anche prima), “il pericolo viene vissuto come una fantomatica fantasia senza precedenti e per questo è ancora più potente”. A tal proposito va ricordato che nella Germania nazista l’antisemitismo era più forte nelle zone in cui la presenza degli ebrei era minima. Perché era la loro invisibilità a renderli ancora più “minacciosi”.  

Questo è quello che la psicologia può suggerire. Io, che gli psicologi li frequento ma non mi sogno di imitarli, mi limito a farvi una domanda: credete che questa quarantena vi abbia rivelato un aspetto nuovo di qualcuno (anche di voi stessi) o abbia semplicemente messo a nudo ciò che c’è sempre stato e che era sopito?

Isolamento

imageNon so se vi è mai capitato di rimanere bloccati su un’isola a causa del mare mosso. A me è successo molte volte. Lo confesso: è una cosa che mi piace moltissimo. La sensazione di isolamento forzato mista all’inopinato senso di sicurezza che scaturisce dalla solidità dello scoglio sul quale si resta abbarbicati (metafora utile a spiegare che se di isola si tratta, piccola deve essere altrimenti le emozioni si diluiscono troppo) cancellano d’un colpo disagi e paure per il mare che si gonfia a pochi metri dal tuo muso. È come se la scala delle priorità sulla quale ci si arrampica, o si resiste, nel corso della vita si dissolvesse. Cosa conta davvero? Mangiare o nutrirsi? È più importante arrivare in tempo a un appuntamento o perdersi nella contemplazione delle onde? Aspettare non è un ottimo modo per pensare?
L’isolamento forzato è spesso l’unica chance per scoprirsi davvero liberi. L’importante è arrendersi con disperata felicità alle forze della natura.

La finta libertà del telefonino-dipendente

dipendenza da telefonino

Ho vissuto per qualche giorno in un posto bello e isolato. Niente connessione con internet, niente telefono, niente tv. E’ una di quelle esperienze, moderne al limite dell’imbarazzante, in cui ciò che è regolare, normale e ordinario diventa straordinario, eccezionale.
Parlare con la persona che ti sta accanto senza un trillo che ti interrompa, leggere un libro prima e dopo cena fottendosene del tg, non chiedersi cosa diranno di te quelli che normalmente hanno molto da (ri)dire su quello che scrivi e pubblichi grazie a quei mezzi che adesso non hai: sono frammenti di una vita che sa di vacanza vera e che inesorabilmente si porterà appresso una scia di nostalgia quasi indelebile (il bello di una vacanza indimenticabile è che fa da appiglio per una nuova).
Perché il vero effetto di un ritorno a quelle che potremmo definire relazioni analogiche è la constatazione che la reperibilità eterna e la condivisione continua riempiono le nostre esistenze di una sorta di polistirolo emotivo. Che stabilizza e, soprattutto, isola.
Il resto sono solo frammenti di conversazioni iniziate con uno e finite con centomila, scuse che rimandano al controllo perenne del cellulare (“devo vedere la posta elettronica”), sintomi di noia inconfessabile, brandelli di personalità diluita in invii multipli e polluzioni da social network.
Pensateci quando fate finta di sentirvi liberi e indipendenti.
Ve lo suggerisce uno che con internet ci campa da qualche annetto.