Effetto pecora

La cronaca ha un sentimento? No, e guai se lo avesse. Significherebbe che esistono notizie giuste o notizie sbagliate. Mentre esistono quelle buone e quelle cattive, che è altra cosa giacché la loro valenza si rivela nelle sensazioni che suscitano nel lettore. Il dovere di cronaca impone al giornalista di raccontare, di testimoniare ciò che accade a prescindere da tutto, eccezion fatta per i paletti imposti dalla legge e dalla deontologia. Per questo vale la pena ragionare sulle polemiche germogliate sui social a proposito dei video sul tragico incidente sulla circonvallazione di Palermo. Chiariamo subito che qui si discute dei video filtrati e pubblicati da testate giornalistiche e non di quelli spalmati sui social da chiunque in barba alle norme sulla privacy e al buon senso, con dettagli raccapriccianti che nulla hanno a che fare con una corretta narrazione del fatto, per quanto atroce sia. Da sempre il cronista ha il dovere di essere quanto più possibile sul luogo dell’accaduto, di riportarlo fedelmente nei modi che la situazione e i tempi gli consentono. Che sia il rapimento di Aldo Moro o l’omicidio di Piersanti Mattarella, che sia la strage di Capaci o l’eccidio di via d’Amelio, che sia il crollo delle Twin Towers o la strage del Bataclan, il dovere di raccontare è più forte di ogni moralismo, forse perché è la stessa morale che è fatta di verità e non di infingimenti.

Ciò non vuol dire che le immagini drammatiche di un incidente in cui sono morte due ragazze e sono rimaste ferite decine di persone devono essere viste a ogni costo per avere un’idea dell’accaduto, ma che non mandarle in onda sarebbe una scelta contro la cronaca, contro il messaggio crudo che la cronaca ci manda (ad esempio, guidare con coscienza, indossare le cinture di sicurezza, eccetera). È sempre stato così, da quando esiste l’informazione: pensate cosa sarebbe stata la percezione della Seconda guerra mondiale senza i reportage di Robert Capa, o l’impatto dell’11 settembre senza la CNN.

Solo che adesso c’è il corto circuito tra due elementi che hanno sconvolto il nostro rapporto col vivere quotidiano: lo smartphone e i social network. Il primo estende a chiunque la possibilità di entrare nella narrazione da protagonista, ma senza il filtro che un narratore professionista deve imporsi. I secondi alimentano il peggiore moralismo, quello cieco, senza ragione e appiglio culturale: quello del “dico il cazzo che mi pare” perché ne ho la possibilità ed è il semplice fatto di poterlo fare che giustifica la presa di posizione, non il suo contenuto. Quindi le minacce ai giornalisti che mostrano un video drammatico diventano virali perché la minaccia zero figlia conseguenti schifezze che non hanno altra intenzione che auto-sostentarsi. Inutile dire che quel video rappresenta ciò che per decenni i cronisti si sono dovuti sobbarcare per svolgere il loro mestiere. Inutile dire che sui morti i giornali hanno sempre venduto e non per scandalo, ma per peso della notizia. Inutile dire che “rispetto per le famiglie delle vittime” non è tacere sulla loro fine, ma andare a fondo con severo mestiere sulle ragioni che l’hanno determinata. E magari sottrarsi al pericoloso “effetto pecora” che un algoritmo alimenta ogni giorno ingannandoci con la finta libertà di avere sempre ragione senza avere una ragione.

Un certo miracolo

Il miracolo è quella cosa che se la racconti tutti ti prendono per scemo e se non la racconti sei tu a dirti scemo. Poi quello che sta nel mezzo tra ciò che è stato e ciò che poteva essere, attiene ai sedimenti del tuo pensiero, alle good vibrations che siano di origine religiosa o terrena, perché ci sono momenti in cui non è l’attimo che vale ma ciò che lo circonda.

E non conta più la cronaca che ti poteva vedere per una volta dall’altra parte del vetro, dell’oggetto del resoconto, ma quel filo di momenti che ti hanno accompagnato all’appuntamento cruciale e dal quale poi ti hanno tirato fuori con la stessa congerie di coincidenze sulle quali rifletterai per gli anni a venire.

Il prima. Un pomeriggio fastidiosamente fresco e un appuntamento per la famosa visita medica di controllo che hai schivato per mesi. Decidi di andare ma in moto, altrimenti dovrebbero paracadutarti in quell’angolo di città incasinato. Passi davanti al tuo ex giornale e un pensiero di deliziosa malinconia ti riporta a quei venti e passa anni trascorsi lì dentro a macinare parole da impaginare. Poche centinaia di metri dopo, rallenti: c’è traffico. Davanti a te un’auto dei carabinieri. Nelle orecchie hai una canzone di Ligabue che non ti piace. Pensi, che cazzo Ligabue se solo ci mettesse un terzo accordo forse sarebbe diverso…

Al posto dell’accordo arriva una Ford Fiesta guidata da un anziano che, per sua candida ammissione, ha scambiato il freno con l’acceleratore. Ma tu ancora non lo sai, sei preso dalla questione Ligabue, infastidito da quel cazzo di fresco che ti filtra dal casco, e poi c’è il traffico… Quel traffico che a un certo punto non sta più al suo posto, e manco la macchina dei carabinieri. A dire il vero neanche tu sei dove eri prima. Sei in aria, dopo un colpo secco che hai sentito alle tue spalle.

Il momento cruciale. In questa rarefazione di luoghi – perché vedi la tua moto che si allontana? Che ci fa la tua gamba sinistra lassù, verso il cielo? Perché la strada si è capovolta? – capisci che un’interferenza cruciale si è insinuata tra te, quel pomeriggio fastidiosamente fresco e la famosa visita di controllo che tanto ti rompe i coglioni.

Ecco, voli con una leggerezza che qualcuno ti ha donato, perché non è tua, lo sai. Come di incanto, anzi come di schianto.

Il dopo. Non è come te lo aspettavi, ma a questo pensi molto dopo quando ricorderai lo strano tepore dei grandi dolori e la dolcezza degli attimi che possono essere definitivi (chi ha provato l’esperienza del coma può capire). Solo i fortunati possono raccontare di esserlo stati.

Atterri. Il problema non è dove, ma quando. Atterri dopo attimi secolari in cui, molto prosaicamente, messi da parte i grandi quesiti rarefatti (la moto, la gamba, la strada) realizzi ciò che è accaduto: un tale ti ha falciato a tutta velocità e ora si sta schiantando contro la macchina dei carabinieri che sta davanti. Atterri di nuca e di schiena, ma è come se qualcuno ti avesse steso un materasso sotto. Benedetto casco, ti dirai. Ma il casco non ti prende per le braccia e ti adagia, non ti ferma a pochi centimetri da un’auto parcheggiata, non ti alleggerisce di 80 chili facendoti rialzare con una agilità che non ti riconosci. Poi scoprirai che l’investitore ti conosce bene, è un fattorino che ha lavorato proprio in quel giornale negli anni in cui c’eri tu. E che ti riempirà, urlando come un ossesso, delle sue folli attenzioni presentandoti a tutti come se tu fossi l’ospite illustre in una cena del Rotary: vedete l’uomo che stavo ammazzando è mio amico, negli anni d’oro (di chi, di cosa? Ci vuole un contest) faceva questo e quest’altro! Scoprirai che evidentemente quella visita medica oggi proprio non dovevi farla. Che le good vibrations sono come le polpette: nessuno sa cosa c’è dentro, come sono state preparate, ma nutrono ed è una gioia trasversale non chiedersi troppo. Che i miracoli hanno qualcosa a che fare con un percorso la cui unità di misura è l’attimo. Che un dio se c’è, è esplicito in certi suoi segnali. Tipo quello di non fartene andare con Ligabue nelle orecchie.

L’attimo morente

Il “poliedrico riccionese noto sul territorio internazionale come studioso di Arte Liberty e artista alla 54° Biennale di Venezia” – la definizione è sua – che vedendo un ragazzo agonizzare dopo un incidente stradale anziché aiutarlo, chiamare i soccorsi, pregare, fuggire (purtroppo è previsto), ha messo su una diretta Facebook ci dice di questi nostri tempi molto di più di uno studio sociologico o di un editoriale di Selvaggia Lucarelli.
Oggi è facile seppellire questo signore di minacce, ingiurie e maledizioni perché l’esercizio della morale a posteriori è come quello della pedalata in discesa: chi non ha la struttura va in playback.
Ma nemmeno è urgente il bisogno di difenderlo, questo stupido prodotto del colon retto dei social.
In realtà quello che dovrebbe darci uno stimolo di dibattito, non soltanto a me che questi avvenimenti comunque li osservo per mestiere, deriva dalla rarefazione degli attimi cruciali dopo quel tragico incidente.
Il poliedrico assiste al dramma.
Resta sconvolto.
Prende il cellulare.
E qui imbocca la strada sbagliata nel bivio spazio-temporale che divide l’istinto tramandato (quello che tutto conosciamo come semplice “istinto”) e quello acquisito (un ibrido di bieca consuetudine e pigrizia mentale). Sceglie la consuetudine, che come tutti sanno è strettamente personale al contrario di un istinto puro diffuso e di specie.
Prende il cellulare e non telefona al 112, al 113, al 118, all’amico che ha quella stessa moto, alla mamma, alla fidanzata che magari lo ha appena lasciato. No. Accende una diretta Facebook e filma tutto a distanza con una codardia tecnologica che rischia di essere la cifra di una fetta di generazione.
A che cazzo serve la cibernetica (la chiamavamo così decenni fa) se non ci migliora la vita e anzi ce la rende detestabile?
Su questo dovremo interrogarci. Sull’istinto acquisito che ci spinge ad atti innaturali come la diretta Facebook della morte di un ragazzino. Pensate un po’: persino la fuga sarebbe un atto più umano.