L’uomo del sorriso

La sua forza era la leggerezza. Persino nel suo ultimo articolo, quello dell’addio che ancora oggi non si riesce a leggere senza una vagonata di fazzolettini, una risata va e viene tra le parole che pesano come i macigni del per sempre (e noi sappiamo che l’unico per sempre che ci viene dato di tastare con mano è quello dell’estrema assenza).
Eppure Francesco Foresta era un uomo di grande concretezza e di vaporosa razionalità. Al punto da scavare, tra noi sopravvissuti alla sua arte giornalistica, un prima e un dopo di lui.
Del dopo non c’è voglia di discutere: se un dopo è un dopo doloroso, meglio relegarlo all’ordinario terreno dei rimpianti, non serve tirarlo fuori nei momenti speciali come questo, quando la memoria si illude di farci sorridere delle tragedie.
Del prima, di quel prima invece è bello tirar fuori le vecchie foto dal cassetto e accarezzarle senza cedere alla nostalgia: ascoltarle, lasciare che narrino… narrino di lui, di Francesco, la cui confidenza con la tecnologia era limitata al tasto di accensione di un computer. Funzioni basilari: apri file, chiudi file, copia, elimina… Eppure il suo genio non si lasciò imbrigliare: ci mise qualche anno a capire come funzionava il web, sul quale pure aveva avuto molte riserve in principio, poi partorì l’idea cruciale. “Live Sicilia”, il primo vero portale di informazione online in Sicilia pensato con un’ottica moderna, spiazzò tutti. C’erano dentro tutta la sua prorompenza giornalistica e la sua lungimiranza professionale che già qualche anno prima avevano figliato “I love Sicilia”. C’erano soprattutto la sua abilità nel saper scegliere le forze migliori per raggiungere un obiettivo, la sua divertita umiltà nel saper chiedere aiuto quando si muoveva in terreni nuovi. Era un vero capitano, Francesco Foresta: un fuoriclasse che aveva il fiuto del gol, ma che sapeva anche lasciare la palla al compagno per l’ultimo tocco a porta vuota.

Fu così che s’inventò il giornale on demand, la sua trovata più geniale. Capovolgendo il rapporto classico quasi conseguenziale tra lettore e notizia, studiò un foglio che si stampava solo quando il flusso della notizia era tale da farsi largo da solo tra i lettori: sfruttando la forza di certi avvenimenti, mise su una macchina editoriale che si azionava solo quando poteva fare una tiratura memorabile. Era un giornale che arrivava in edicola quasi a tradimento, ma con una solidità di argomenti tale da andare esaurito in poche ore.
Ci volevano abilità e fortuna per certe avventure. E se la prima era garantita da un fiuto professionale incredibile, la seconda andava assecondata in qualche modo. Non era nato con la camicia, Francesco, ma quando la indossava gli stava benissimo (se la metafora può in qualche modo aiutare): la sua fortuna era che della fortuna gli importava pochissimo, come chiunque viva del qui e adesso, ma quando gli passava davanti sapeva come afferrarla senza scottarsi.
E poi le risate, quelle risate che non lo hanno mai abbandonato neanche nei tempi in cui c’era poco da ridere. Rideva per festeggiare, per canzonare, per incitare (gli altri ancora prima che se stesso). Rideva convinto – e a ragione – che il mondo avrebbe riso con lui anche senza capire il perché: perché la musica delle sue risate era la colonna sonora di interminabili giornate di lavoro quando i giornali si facevano di notte e, soprattutto, esistevano ancora. Rideva per esorcizzare la paura che, giunto ormai alla fine, gli rendeva la vita impossibile: ma vaglielo a dire alla paura che nulla è impossibile per uno che non si lascia disinnescare il sorriso neanche dal più subdolo dei mali. Rideva per vivere e sopravvivere, convinto che solo chi piange resta davvero solo. A che servono quindi le lacrime se non a scavare una distanza dagli altri, sembrava chiedersi.

Oggi, a sei anni di distanza da quell’ultimo sorriso, c’è un mondo completamente diverso da quello che i suoi occhi terreni scrutarono. Ma siamo nel dopo, in quel famoso dopo doloroso di cui non c’è voglia di discutere. C’è un pensiero che ricacciamo indietro a forza, ma che emerge galleggiando nel mare di incertezze di questo nostro presente senza emozioni tattili, senza abbracci che non siano metafore, senza la gioia del superfluo e la consolazione del contatto.
Chissà come avrebbe raccontato l’era della tristezza, l’uomo del sorriso.

Se non corri che vita è?

Su I love Sicilia di questo mese.

Corro da sempre. E corro per svariati motivi, ma non per fare una maratona. Qualcuno potrebbe chiedere: e allora perché? Semplice, perché se si è sani e in forze non esiste un solo motivo per non farlo.
Sin da bambino mi sono cimentato in vari sport in cui era fondamentale essere leggeri. Per mantenersi in peso, quale migliore attività della corsa?  Insomma, correvo per necessità.
Col passare degli anni però ho imparato a concedermi la felice schiavitù delle endorfine, quelle deliziose droghe naturali che si diffondono nel corpo dopo un intenso sforzo fisico.
La mia misura ideale è la mezza maratona. A quasi cinquant’anni mi diverto a correrla con mia moglie, e funziona così: io parlo per 21,097 km, lei finge di sopportarmi ma in realtà mi usa come anti-loop cerebrale. Perché il vero problema della corsa prolungata è prendere il comando dei pensieri ed evitarne l’avvitamento, la ripetitività. C’è chi ci riesce subito, chi invece ci prova inutilmente per anni. Io sono stato fortunato, probabilmente perché ho neuroni di marca cavallo. Correndo ho scritto un paio di romanzi, una mezza dozzina di racconti, migliaia di post, ho cantato a squarciagola, ho risolto problemi, ho apprezzato in audiolibro Edgar Allan Poe, ho progettato viaggi, ho sognato, ho indagato i sentimenti, sono persino guarito. E poi ho contagiato questa passione a decine di amici e parenti. Quante tabelle di Pizzolato mi sono ritrovato a fotocopiare, quando ancora non bastava un clic per condividere una passione.
Mi capita spesso, nell’ombra del parco della Favorita o sul lungomare ventoso della Mondello invernale, di essere superato – talvolta bruciato – da qualcuno di questi nuovi runner: ieri erano grassi e catarrosi di tabacco, oggi sono veloci e leggeri e macinano chilometri come se dovessero recuperare il tempo perduto.
Ne parlavo qualche giorno fa con uno di loro.
Lui diceva: “Vedi, noi corriamo da quattro anni. Tu da trenta e rotti. Siamo più riposati”.
E io: “Sì, ma in quei trent’anni ve la siete goduta la vita, eh!”.
E lui serio: “Gery, se non corri che vita è?”
Già, che vita è?

Confini

Un estratto dalla rubrica mensile su I love Sicilia:

A Ustica, in vacanza, ho vissuto in una casa che sta all’angolo tra via Calvario e via Confusione. A parte la sensazione di vivere una condizione toponomastica inquietante (per fortuna la via Calvario non incrocia un vicolo Golgota) mi è venuta la curiosità di andare a censire le altre strade dell’isola. Ho trovato così via Croce, via Corta (abbastanza corta), via Marina, via Cristoforo Colombo (in un’isola ci vuole) e l’immancabile via Umberto I. Non so se si sia mai riunita la commissione toponomastica del Comune, so per certo che l’indolenza è aggiuntata in seduta permanente. Ustica è un’isola in cui le strade hanno nomi qualunque a dispetto dei personaggi non qualunque che quelle strade hanno percorso. Antonio Gramsci, ad esempio, vi trascorse il confino: non ha una via. In compenso c’è via Confini (per lui e per tutti gli altri).

Mai più cool

piazza marina palermo

L’attimino fuggente

di Giacomo Cacciatore

Non esco mai il sabato sera a Palermo. Ieri ho scoperto ancora una volta perché, e mi sono dato ragione per sempre. Appuntamento con amici alla presentazione del nuovo libro di Salvo Toscano. Villa Filippina è un bel posto, l’angolo bar sponsorizzato dalla rivista I Love Sicilia gradevole, i camerieri gentili. C’è anche il fatto che sono le otto meno un quarto. Il sabato in città, quello delle resse ai ristoranti e delle sgommate ubriache, è ancora lontano. Si ragiona, si respira. E si benedice la coazione a ripetere dei festaioli di fine settimana: prima delle nove e mezza non si mette piede fuori di casa. Non è cool. Prossima tappa: piazza Marina. Qui, cambio d’umore. Uno dei posti più cool di Palermo. Nel mio vocabolario: automobili che ti pestano i piedi, posteggiatori con l’indole di don Vito Corleone e cibo da mensa aziendale, data l’affluenza di pubblico. Facciamo un salto a Villa Garibaldi. C’è una manifestazione di giovani alternativi. L’atmosfera è quella triste di una festa dell’Unità liofilizzata. In un gazebo proiettano “Buena vista social club”. Spettatori: il proiezionista. Canta un gruppo Peruviano. O forse Cileno: non lo so, indossano il costume tipico. Capisco perché la sinistra perde le elezioni.  Climax: una pizzeria molto gettonata all’angolo della piazza. Gettonata senza nessun motivo al mondo, avrò occasione di dirmi a fine serata. Il cameriere si offende se uno gli chiede gli ingredienti di una pietanza. Si offende quando un mio amico cerca di stemperare la tensione (dovuta a che? Stai facendo il tuo lavoro!) con una battuta leggera. Si offende quando gli facciamo notare che aspettiamo gli antipasti da due ore e quelli al tavolo accanto al nostro, arrivati dopo, sono già al dessert. Un mio amico giornalista si alza, offeso lui, finalmente. Chiama a gran voce il padrone, minaccia di andarsene. Il padrone si offende a sua volta, malamente. Si arriva alle parole grosse. Il proprietario della pizzeria è quello che le spara più grosse, svelando così da chi ha imparato il cameriere a maltrattare i clienti: da lui. Lungi dall’ammettere che gestire un locale non è cosa sua, la butta sul piano personale.  Il nostro amico avrebbe osato lamentarsi perché è un giornalista del tg 3. Sentendosi un divo comunista, pretende di non essere trattato a pesci in faccia. Insomma, un raro esempio di arroganza. L’amico giornalista se ne va. Dovremmo farlo tutti, ma arrivano le pizze.  Il proprietario condisce la sua brillante ospitalità con un tocco di grazia: si avvicina a me e dice dell’assente che “gli stava sui coglioni”. Si aspetta solidarietà. Stavolta mi offendo io. Mastichiamo antipasti (pessimi) pizze (sbagliate) e offese. Paghiamo. Ci hanno fatto uno sconto, ma su un prezzo gonfiato. Vengo a sapere che la pizzeria è del fratello di un militante storico di destra passato disinvoltamente al pd. Non ci faccio caso: non mi piace che le colpe della politica ricadano sulle gestioni delle pizzerie. Però non liquido troppo presto le mie riflessioni in merito.  Comunque, giuro a me stesso: mai più di sabato. Mai più lì. Mai più cool.