Roma goes to Hollywood

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Poche parole su “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino, dato che non dirle sarebbe omissione e dirne molte sarebbe sbrodolamento in ritardo.
Il soggetto è discreto, ma è la sceneggiatura a essere eccezionale. Servillo si muove con consueta leggiadria nei ruoli più pesanti: riluce nel buio senza abbagliare, ed è un ulteriore segno di grandezza.
I movimenti della macchina da presa 2013/32886/ giochi da casino gratis /SCO dell’ 11 novembre 2013 – Revoca della convenzione di concessione n. scandiscono bene il trascorrere delle emozioni, tra salotti affollati e atmosfere decadenti. E il modello romano che ne viene fuori è piacevolmente irritante, verosimile come la folla di mantenuti che riempie la nostra politica.
Ecco, se una cosa mi è rimasta di tutto il film, è il piacere di assistere a un’opera confezionata con grande cura dei dettagli. Il che nel panorama del cinema italiano, denso di idee senza confezione e di confezioni vuote di idee, è davvero incredibile.
Specchio dei tempi: il simbolo dell’Italia, della città eterna, della genialità mediterranea, è un film tipicamente hollywoodiano.

Otto matrimoni e un funerale

Liz Taylor sarà seppellita nello stesso cimitero di Michael Jackson, Farrah Fawcett, Dean Martin, Truman Capote e possibilmente vicino a Marylin Monroe.
Si dice che i suoi occhi non fossero proprio viola, ma so che da giovane era uno schianto di donna. Si dice che molte delle sue battaglie civili, non ultima quella contro l’Aids, fossero ispirate da motivi personali, ma non mi risulta che un’esperienza diretta vada a detrimento dell’impegno a fin di bene. Si dice che nonostante i sette mariti (sposò Richard Burton due volte) negli ultimi anni trovasse compagnia in un cagnolino di nome Sugar, ma sappiamo come gli animali sappiano essere degni supplenti degli esseri umani.
Si dice che fosse l’ultimo mito di Hollywood, ma ci piace credere che i miti non muoiono mai, anche se per diventare davvero miti hanno bisogno di morire.

Bella e basta

Per Belen un’estate di nubi. Le vogliono togliere la conduzione di Sanremo, i contratti pubblicitari e il diritto di cittadinanza televisiva in generale. Tutto perché è stata coinvolta nell’inchiesta milanese sulla cocaina.
In tv e sui giornali si discute sulla possibile riabilitazione pubblica, sulla resurrezione dell’immagine di chi ha avuto a che fare con la droga. Speriamo che un giorno si discuta anche del perché una bella ragazza – bella e basta – che parla un italiano goffo con una brutta voce, che non ha idea di cosa sia la recitazione e che in fondo non sa far nulla a parte che mostrarsi, debba presentare il festival di Sanremo, pubblicizzare i prodotti italiani e monopolizzare salotti, divanetti e seggiole di ogni trasmissione televisiva di questo Paese.

Un premio per imparare

fratellanza
di Raffaella Catalano

La cerimonia ha uno stile tra Hollywood e Bollywood. Ma si svolge a Palermo, al Teatro Ranchibile dell’istituto Don Bosco. Sul palco dei salesiani c’è un trono d’oro su cui siede la regina della festa, in abito rosso con collo di finto ermellino, guanti bianchi, corona e scettro. Intorno, dieci principesse, tutte belle, giovani, in lungo e supercolorate, in attesa di sapere chi sarà l’eletta del 2009 in un concorso che somiglia a Miss Italia, anche se la prescelta sarà una filippina. Sono quasi tutti filippini, al Ranchibile, a partire dal presentatore, Armand – il capo di questa comunità asiatica a Palermo – che è anche un cantante famoso, non solo nel suo paese e nella nostra città.
I siculi presenti sono pochi. Ma buoni, a quanto pare. Tant’è che sono lì per ricevere il premio per il “Miglior datore di lavoro dell’anno”. Uomini e donne che annoverano dei filippini tra i loro impiegati regolari: in casa, nelle aziende di famiglia, in campagna o in un negozio. Hanno tutti addosso un fiore verde ricoperto di brillantini: le signore in testa, i signori appuntato sulla giacca. Quel fiore consegnato all’ingresso distingue i candidati al premio dai loro parenti e accompagnatori.
Dopo una preghiera, qualche canzone, un paio di video con la storia di famiglie filippine ormai radicate da anni a Palermo – il tutto rigorosamente in lingua tagalog e altri idiomi asiatici – si balla e poi si fa una sosta per il rinfresco. A metà della serata partono le interviste, stavolta in italiano, a chi tra i presenti stranieri conosce e apprezza i datori di lavoro siculi candidati al premio, per ricostruire la storia della loro disponibilità, del loro altruismo, della loro sensibilità e delle altre qualità umane che li avvicinano, secondo i loro impiegati, più a dei benefattori che a dei datori di lavoro in senso stretto. Una specie di agiografia trionfale, insomma.
Il rito culmina con la consegna di una targa d’argento e di diversi altri premi a corollario.
E poi di nuovo canti, balli, drink e stuzzichini, fino all’elezione della “princess” filippina edizione 2009, al calar della notte.
Folclore? Pacchianeria? No, non direi.
Chiedetevi quando mai avete visto un datore di lavoro nostrano celebrare un suo dipendente, anche se impeccabile. E quando mai avete visto un impiegato nostrano celebrare il suo datore di lavoro, pur se magnanimo.
Questo non è colore locale asiatico. Questa è civiltà. E in tempo di scontri e di razzismi idioti è una grande lezione di vita.