In difesa di Chiara Ferragni (una volta tanto)

Questa storia può essere affrontata da due punti di partenza opposti.
Il primo è quello che tende a semplificare le cose. Chiara Ferragni ha fatto una serie di errori nella sua partnership con la Balocco. Sorpresa con le mani nella marmellata dall’Antitrust, ha scelto la via più diretta (e a lei consona) per cercare di mettere una pezza: parlare direttamente alle folle oceaniche che la seguono. Lo ha fatto con toni dimessi, senza spocchia, da brava comunicatrice. Ha ammesso di aver sbagliato e ha promesso di donare un milione di euro (mica bruscolini) all’ospedale infantile Regina Margherita di Torino. Insomma ha fatto quello che pochissimi fanno in questo paese a responsabilità limitata: chiedere scusa e rifondere di tasca propria.
Attenzione, Chiara Ferragni è un’imprenditrice, un soggetto privato che coi suoi soldi fa quello che vuole e che, soprattutto, insieme con suo marito Fedez è abituata a fare beneficenza.

Il secondo punto è invece più complesso. E riguarda il contesto. Chiara Ferragni è tanto amata quanto odiata e su questa condizione ha fondato le sue fortune. Nessun influencer può fare a meno dei suoi detrattori perché proprio grazie a essi riesce a costruire il suo personaggio polarizzante. Senza polarizzazione infatti non può esistere successo nel mainstream: i santi e i demoni trionfano in chiesa o in carcere, nel mondo dell’anno 2023 se non sei divisivo non emergi dalle sabbie della coscienza limacciosa dei social.
Anche quando è stata colta in fallo, Chiara Ferragni ha usato codici precisi, in modo da alimentare il lievito madre del suo successo: i suoi odiatori. Sotto tono, commossa (magari lo era sul serio, ma qui non importa), semplice, ma pronta al colpo a effetto: un milione di euro in beneficenza. Cazzo, un milione di euro.
(Poi è ovvio che le regole vadano rispettate, che si debba vigilare su ogni forma oscura di beneficienza: ma per quello c’è la legge).
L’obiezione più scontata, che mi è stata mossa a più riprese, è una. Anzi sono due, ma collegate.
La prima: lo ha fatto per incrementare la sua audience. Dico: e se non lo avesse fatto? Sarebbe stata coerente? Insomma qualunque mossa avesse deciso di intraprendere, comunque ci sarebbe stato sempre il furbo di turno a svergognarla. Nulla è più patetico dell’anonimo vendicatore con una mano sullo smartphone e l’altra nella patta.
La seconda: eh, ma la beneficenza si fa di nascosto… In questo caso il ditino alzato cozza con il risultato. Mi è capitato di discuterne in occasione delle mie donazioni di sangue che tendo spesso a pubblicizzare proprio per sensibilizzare chi mi segue. La beneficenza, come le donazioni di sangue (che sono una forma di beneficenza), è importante farla: poi se uno sceglie di dirlo o non dirlo sono cazzi suoi. Chi critica, usualmente (non sempre, è ovvio), non ha mai alzato il culo dalla sedia e al massimo ha elargito un euro al posteggiatore abusivo per non farsi rigare la macchina. Insomma, dalle mie parti, si guarda al risultato. Farne un trofeo o meno non toglie nulla alla bellezza del verso. L’importante è farsi avanti e fare qualcosa per gli altri: del resto mi va benissimo un mondo in cui dare gioia al prossimo è una forma di egoismo, di egocentrismo, di esibizionismo. Dieci, cento, mille selfie per raccogliere fondi e sacche di sangue. Ogni volta che vedo uno che si mobilita in prima persona per regalare quel che può regalare, sto automaticamente dalla sua parte. Che sia Ferragni o Donnunzio è un dettaglio che interessa prevalentemente solo chi dona ciò che nessuno vuole: odio, invidia, ignoranza.

La via giudiziaria contro gli odiatori del web

L’articolo pubblicato oggi su la Repubblica.

L’inchiesta giudiziaria della Procura di Palermo contro i farabutti che, il mese scorso, presero di mira con insulti e minacce sui social il presidente Mattarella nel caos della formazione di un nuovo governo, è un raggio di sole nel buio della nullocrazia. La crisi di valori che questo Paese sta vivendo è strettamente legata a un potere che si alimenta di odio compulsivo e uso fraudolento dell’incultura. Trascinare davanti a un giudice e condannare chi offende e infanga sul web come se l’impalpabilità dei byte concedesse una sorta di impunità, significa ricordare a tutti, cittadini reali e patetici avatar, che l’ignoranza se è colpevole deve essere punita in modo esemplare. Sinora, con eclatanti esempi internazionali, la maggior parte dei tentativi di riallineamento della realtà dei social network con quella, vera, dei diritti e dei doveri è fallita. La via giudiziaria è l’ultima spiaggia per scardinare le echo-chambers degli odiatori. Per ripartire da una regola semplice delle vite non qualunque: la volgarità è una scorciatoia, la dignità è una fatica.