Viaggio in America – il cibo

Cibo americanoNon vogliamo rivelare nulla, solo contribuire alla narrazione di una civiltà, di una cultura. La nostra esperienza americana sul fronte gastronomico si sostanzia di alcuni punti fondamentali.
La qualità del cibo non si discute, gli americani sono molto attenti a regole e tabelle. Difficilmente vi capiterà di mandare indietro un piatto per ragioni oggettive, cioè legate a difetti di freschezza del prodotto. Tuttavia è noto che per fare un buon piatto non basta avere buone materie prime.
La principale differenza tra il nostro cibo e il cibo americano è principalmente musicale. Sí, avete capito bene: musicale.
Prendiamo due ingredienti a caso, tipo pasta e salmone. La nostra cucina si preoccupa di garantire una giusta armonia tra i sapori, nello specifico userebbe il salmone come condimento per la pasta. Negli Usa non esiste il bilanciamento: se hanno una fetta di salmone e cento grammi di pasta, li impiattano l’una sull’altra, la fetta intera su un letto di pasta. E pur essendo sempre gli stessi ingredienti, cambia tutto. Perché non c’è il magico accordo, ma solo un insieme di note messe lì senza una scelta. Ecco la musica. Gli americani in cucina accatastano scelte monotonali senza accorgersi che un buon piatto è essenzialmente composizione e orchestrazione, anche nelle ricette più semplici. Lo si nota anche nell’uso e nel bilanciamento dei sapori dolci e salati. Negli Usa il contrasto è netto, se ti propongono un’insalata con bacon e salsa di mele, avrai un pastone che sa di marmellata perché loro le mele le trattano come mele e basta, al contrario di quanto accade in Italia e nella cucina orientale dove il frutto viene dosato e cucinato in modo da far risaltare gli altri sapori. Pensate al nostro agrodolce e immaginate quanti anni luce separi questi modi di cucinare. In generale laddove noi centelliniamo, loro abbondano. Se noi guarniamo, loro impastano. Se noi condiamo, loro annegano. Sono fortissimi con la carne perché hanno un’ottima materia prima che è (quasi) incorruttibile, nonostante i milioni di salse e salsette con cui ti stordiscono quando devi ordinare un semplice hamburger.
La verità è che qui in America tutto è plausibile, per la maniera con cui te lo propongono, per l’allegra sconsideratezza dei loro menù, per l’ingenua curiosità che riescono a suscitarti. Io ieri sera ho mangiato una cosa che se me la avessero proposta a Palermo, avrei allertato i Nas o mi sarei guardato intorno alla ricerca di una telecamera di “Scherzi a parte”: calamari fritti col formaggio. Un piatto che si giudica il giorno dopo.

5 – continua

Il pentito di McDonald’s

Prendo spunto dal dibattito del precedente post per confessarvi una debolezza dell’età. Da qualche tempo mangio la robaccia di McDonald’s.
Sono stato pseudovegetariano per vent’anni, ho odiato quegli hamburger che secondo la pubblicità rendono felici le famiglie e fanno crescere sani i bambini.  Se proprio volevo farmi del male abusavo d’altro, fritture e cocktail prima di tutto (a proposito, vi invito a cedere a un aperitivo di cocktail Martini e panelle). Mai stato salutista, capriccioso sì.
Un mio amico, quand’eravamo piccoli, mi raccontò che gli americani negli hamburger ci mettevano le mucche tritate, coda e zoccoli compresi.  Ovviamente non era così, o almeno lo spero. Però mi rimase il dubbio: se quella era carne genuina, perché sminuzzarla tanto e non tritarla normalmente come fa il macellaio sotto casa?
Probabilmente avevo abboccato a una leggenda metropolitana e magari il mio amico d’infanzia aveva capito che ero un soggetto non troppo acuto.
Fatto sta che non mi trovai mai a tu per tu con un Big Mac e preferii sempre la via solitaria per casa quando la comitiva sceglieva l’approdo di McDonald’s.
Due anni fa, durante una vacanza all’estero, mi imbattei in un McChicken o qualcosa del genere. Avevo maturato una fame pazzesca e una certa indulgenza nei confronti della carne bianca.
Lo addentai e fu l’inizio di un’epoca.
Oggi non mi interrogo su quel che mastico quando mi trovo da McDonald’s, mi curo esclusivamente dell’effetto meraviglioso di certe porcherie sull’umore. E poi, da tirchio, volete mettere la soddisfazione di strafogarsi con un CBO a pochi euro?

L’highlander al fast food

Suocerando

di Abbattiamo i termosifoni

Man mano che il tempo passa, mia suocera ringiovanisce. E’ una specie di highlander femmina. L’ultima sua trovata è in stile Happy Days: con un paio di fuseaux, i calzini corti e un foulard al collo, proprio come le ragazze che nel telefilm americano frequentavano il mitico Arnold’s, questa indomabile ottantenne ha preso l’abitudine di fare due pellegrinaggi bisettimanali. Non, come farebbero tante pie vecchiette, a San Giovanni Rotondo o – per restare in zona – al santuario di Santa Rosalia. Lei da qualche mese va da Mac Donald’s. Dove non era mai stata prima.
Alla sua età ha scoperto il fast food. Con la badante al seguito, si accomoda ai tavolini, beata tra bambini che schiamazzano lanciandosi patatine fritte, musica a palla e puzza di grassi non meglio identificati, e ordina. Rigorosamente un Happy meal. Quello o nient’altro: e non per il panino che c’è dentro – sul contenuto non ha preferenze, purché sia vagamente commestibile nonostante la sottiletta arancione e tutto il resto – ma perché vuole la sorpresa: orsetti, giraffe, delfini di plastica, robot, peluche. Purché non siano viola. Per carità! E’ superstiziosissima e se pesca un gadget di quel colore, protesta e se lo fa cambiare.
In proposito, proprio oggi mi ha raccontato che giovedì scorso le hanno dato (testuale) “il panino con la giraffa”…
Ho sempre pensato che il ripieno dei prodotti Mac Donald’s fosse di dubbia natura, ma non fino a questo punto.
L’unico problema, la prima volta che mia suocera è stata nel suo nuovo paradiso artificiale (è il caso di dirlo, basta appunto guardare la carne che usano), è stato capire dove avesse imposto alla badante di portarla.
“Francesca, dove hai cenato?”, le ho chiesto.
“Da Marco Macchi”, ha risposto senza esitazione. Io ho pensato che fosse il nome di battesimo di un ristoratore che non conoscevo.
La seconda volta non è andata meglio:
“Sono stata da Macchi Macchi”, ha trillato.
“Ah…”. L’interpretazione, per me, si faceva più complessa.
Poi, un giorno, è tornata con un palloncino in mano. Alcune promotrici del Conad che sta accanto al suo Mac Donald’s preferito avevano regalato ai clienti del fast food palloncini pubblicitari gialli, attaccati a un bastoncino. Sulla plastica, in rosso e con caratteri così grandi da non sfuggire nemmeno alle cataratte più accanite, c’era il nome del supermercato.
Così Mac Donald’s, nel vocabolario di mia suocera, è diventato Conàid. Due giorni dopo riadattato in Conàld.
Quando questa bizzarra donna cena lì, da Marco Macchi o da Conàld che dir si voglia, mangia sempre quello che lei chiama l’“amburgo”.
Mastica di certo molti “amburgo”, ma poco, pochissimo, l’inglese.