Viaggio in America – il bilancio

viaggio in America

In una vacanza quello dei bilanci non è mai un momento allegro. Perché vuol dire che la pacchia è finita. Eccoci qua, allora, a tirare le fila di due settimane trascorse tra Illinois, Wisconsin, Michigan e un pezzetto, minuscolo, di Indiana: tremilacinquecento chilometri in macchina, centinaia a piedi, una trentina in bici e con mezzi vari.
In pratica abbiamo percorso in senso orario tutto il perimetro del lago Michigan, compresa la Door County, con ampie incursioni nella Upper Peninsula sino al Lake Superior, da Marquette a Sault Sainte Marie: un itinerario poco battuto dagli italiani che preferiscono mete più classiche come New York, la Florida o la California.
Cibo a parte, siamo convinti di aver fatto un viaggio da consigliare. Gli americani, almeno quelli in cui ci siamo imbattuti, con cui abbiamo chiacchierato al bar e ai quali abbiamo chiesto informazioni (la nostra era un’avventura, senza prenotazioni e senza itinerario prefissato), si sono dimostrati affabili e curiosi: cosa potevamo desiderare di più?
Ci ha impressionato l’abile sfruttamento turistico di ogni dettaglio, di ogni pietra, di ogni ancora arrugginita, di ogni spazio verde. Persino un vecchio legno abbandonato sulla spiaggia del lago, se ha più di trent’anni assurge automaticamente a piccolo monumento, con tanto di scheda illustrativa e corredo di panchina. La capacità con cui gli Usa amplificano la loro storia, brevissima se paragonata alla nostra, è pari alla abnegazione con la quale si dedicano al turista. Ogni cittadina ha il suo centro di informazioni turistiche con anziane signore – tutte volontarie – pronte a spiegare, raccontare, raccomandare e guidare. Persino la più piccola cascatella d’acqua ha il suo parco costruito intorno, con tanto di gift shop e guida gratuita telefonica (ti colleghi tramite un codice QR e ascolti tutta la spiegazione).
Gli americani amano in generale le cerimonie, celebrano se stessi e il loro impatto sul mondo non appena ne hanno l’occasione. Dedicano monumenti ai caduti (sul lavoro, in guerra), dedicano panchine a concittadini scomparsi, dedicano muri a benefattori.
Poi c’è la “contraddizione del ristorante”. Anche nel locale più informale, il cameriere si presenta con affettata ufficialità: buonasera, sono Jack e stasera avrò il piacere di servirvi, sono a vostra disposizione per ogni chiarimento… Poi però ti imbandisce la tavola con le posate avvolte nel tovagliolo di carta, ti piazza l’ascella sul naso per ritirare il piatto, ti porta il conto quando ancora non l’hai chiesto.
Abilissimi nel customer care, gli americani so’ forti anche nel manifestare le loro debolezze. Se per loro sei una sorta di animale esotico – così ci vedevano in certe lande del Michigan dove l’immigrazione italiana non è mai arrivata – non esitano a dirtelo con un contorno di Uaau! e Yeaah!
Ci ammirano ma non ci invidiano.
Ci accolgono ma non ci adottano.
Perché sono diversi da noi e vedono in questa diversità molte ragioni del loro successo.
Sono efficienti e puntano al risultato.
All’aeroporto di Chicago, mia moglie, campionessa mondiale di shopping solitario indoor, è stata abbordata da un giovane piazzista alto e biondo che voleva venderle una vodka francese. Lei è rimasta colpita dal ragazzotto e non gliene fregava niente della vodka, tanto che quando sono capitato dalle sue parti (evidentemente anche noi maschi abbiamo un allarme biologico, eh) si è come risvegliata da un incantesimo e mi ha detto: andiamo va, che è presto per l’aperitivo. Il tipo ha intercettato il mio sguardo curioso sulla bottiglia e ha abbandonato istantaneamente la preda primigenia (mia moglie). “Le posso offrire una vodka?”, mi ha chiesto. “Certo”, ho risposto pensando tu sarai pur modello ma io non sono fesso. È finita con altri bicchierini omaggio e con una bottiglia acquistata. Di vodka francese, bah.

7 – fine

Viaggio in America – il cibo

Cibo americanoNon vogliamo rivelare nulla, solo contribuire alla narrazione di una civiltà, di una cultura. La nostra esperienza americana sul fronte gastronomico si sostanzia di alcuni punti fondamentali.
La qualità del cibo non si discute, gli americani sono molto attenti a regole e tabelle. Difficilmente vi capiterà di mandare indietro un piatto per ragioni oggettive, cioè legate a difetti di freschezza del prodotto. Tuttavia è noto che per fare un buon piatto non basta avere buone materie prime.
La principale differenza tra il nostro cibo e il cibo americano è principalmente musicale. Sí, avete capito bene: musicale.
Prendiamo due ingredienti a caso, tipo pasta e salmone. La nostra cucina si preoccupa di garantire una giusta armonia tra i sapori, nello specifico userebbe il salmone come condimento per la pasta. Negli Usa non esiste il bilanciamento: se hanno una fetta di salmone e cento grammi di pasta, li impiattano l’una sull’altra, la fetta intera su un letto di pasta. E pur essendo sempre gli stessi ingredienti, cambia tutto. Perché non c’è il magico accordo, ma solo un insieme di note messe lì senza una scelta. Ecco la musica. Gli americani in cucina accatastano scelte monotonali senza accorgersi che un buon piatto è essenzialmente composizione e orchestrazione, anche nelle ricette più semplici. Lo si nota anche nell’uso e nel bilanciamento dei sapori dolci e salati. Negli Usa il contrasto è netto, se ti propongono un’insalata con bacon e salsa di mele, avrai un pastone che sa di marmellata perché loro le mele le trattano come mele e basta, al contrario di quanto accade in Italia e nella cucina orientale dove il frutto viene dosato e cucinato in modo da far risaltare gli altri sapori. Pensate al nostro agrodolce e immaginate quanti anni luce separi questi modi di cucinare. In generale laddove noi centelliniamo, loro abbondano. Se noi guarniamo, loro impastano. Se noi condiamo, loro annegano. Sono fortissimi con la carne perché hanno un’ottima materia prima che è (quasi) incorruttibile, nonostante i milioni di salse e salsette con cui ti stordiscono quando devi ordinare un semplice hamburger.
La verità è che qui in America tutto è plausibile, per la maniera con cui te lo propongono, per l’allegra sconsideratezza dei loro menù, per l’ingenua curiosità che riescono a suscitarti. Io ieri sera ho mangiato una cosa che se me la avessero proposta a Palermo, avrei allertato i Nas o mi sarei guardato intorno alla ricerca di una telecamera di “Scherzi a parte”: calamari fritti col formaggio. Un piatto che si giudica il giorno dopo.

5 – continua

Viaggio in America – Grand Island

Grand Island, foto di Daniela Groppuso
Grand Island, foto di Daniela Groppuso

Basta un po’ di vento e il lago Michigan, visto da Nord, diventa scuro e minaccioso come neanche il più grande degli oceani. Potenza delle immensità dell’acqua che qui, a Escanaba, il luogo che abbiamo scelto come trampolino di lancio verso la Upper Peninsula, sono l’unica attrattiva turistica. Alloggiamo al Sunset Lodge, il motel americano più motel e più americano che si possa immaginare: parcheggi l’auto col muso sulla tua porta, dormi in un prefabbricato che non ha mai conosciuto cemento o mattoni (comunque pulito), paghi poco cioè, per quel che ottieni, poco più del giusto (50 dollari a notte circa).
Il passaggio dal Wisconsin al Michigan è netto. Colpisce la rarefazione di anime e bisogna abituarsi a guidare per centinaia di chilometri senza incontrare un centro abitato: foreste da un lato, foreste dall’altro. Gli abitanti di queste terre, gli yooper, sono nordici non particolarmente espansivi che hanno istinti separatisti. Poi leggi che sono stati i primi a voler abolire la pena di morte e ti diventano più simpatici.
Percorsi i novanta chilometri che ci separavano da Munising, eccoci davanti all’immenso Lake Superior: destinazione Grand Island. Sulla guida abbiamo letto che è divertente affittare una mountain bike e fare il giro dell’isola. Divertente? ci chiediamo appena sbarcati: venti miglia (poco più di 32 chilometri) di circonferenza, più di tre volte e mezzo la nostra Ustica. Tra sentieri sconnessi, strade sterrate e salite durissime ci immergiamo nell’avventura. Solo dopo due ore di pedalata/scarpinata (ci sono pendenze che non si possono affrontare sui pedali) leggiamo sei parole cruciali scritte sul retro della mappa che ci è stata consegnata al centro informazioni: non date da mangiare agli orsi. Che quindi sono intorno a noi, liberi e presumibilmente in cerca di cibo.
Riprendiamo a pedalare con maggiore veemenza scommettendo su chi di noi sarebbe più appetitoso. Ci fermiamo solo nei luoghi più popolati – cioè con tre o quattro persone – per ammirare le spiagge che ricordano più le Seychelles che un lago nordico. Poi, affamati e senz’acqua, si va dritti sino alla chiusura dell’anello stradale: ci mettiamo in tutto tre ore e mezza. Sul battello che torna a Munising maturiamo due certezze. La prima: la cena che ci aspetta deve essere monumentale. La seconda: ai redattori della Lonely Planet andrà segnalato che il giro in bici di Gran Island non è un percorso turistico, ma una prova di sopravvivenza. Comunque incantevole, basta allenarsi sei mesi prima.

4 – continua

Viaggio in America – Door County

Foto di Daniela Groppuso
Foto di Daniela Groppuso

Man mano che viaggiamo, la distanza dalle città non è scandita dai chilometri, ma da quella che possiamo definire “caratura della bellezza”. Le profondità di questa fetta di continente regalano infatti una meraviglia semplice, senza le strutture di una storia complessa come la nostra: qui nel Wisconsin si ammira ciò che è evidente, naturale e spontaneo.
Siamo nella Door County, una piccola penisola (piccola per le proporzioni americane, of course) sul lago Michigan. Un felice compromesso tra una clientela in stile Montecatini Terme e un panorama davvero indimenticabile. Foreste, parchi, corsi d’acqua e spiagge, tutto esplorabile con tutti i mezzi, in auto, a piedi, in moto, in kayak, in barca, in bici (con due o più ruote). Così si passa dal turismo agé di Sturgeon Bay, dove abbiamo fatto base, all’incanto del Pensinsula State Park, dal rischio di rimanere digiuni la domenica sera perché il novanta per cento dei locali è chiuso anche in piena estate, all’ebbrezza di pedalare in mezzo ai boschi alla ricerca dell’insenatura perfetta, magari sovrastata da un faro del secolo scorso. Tutto provato sulla nostra pelle. L’unica avvertenza che ci sentiamo di darvi è questa: quando vi lascerete ammaliare dalla three wheel bike (perché la bicicletta a due ruote la conoscete sin da bambini e questo non è un triciclo), tenete conto che state scegliendo il modo più faticoso per esplorare la zona.
La Door County si può tranquillamente visitare in due/tre giorni. Noi siamo stati all’Holiday Music Hotel, un grazioso motel pervicacemente aggrappato agli anni ’50 dove i proprietari mettono a disposizione dei clienti decine di strumenti musicali, e dove i materassi sono nuovi (uno l’abbiamo inaugurato proprio noi).
Panorami a parte, questi luoghi brillano anche della luce della loro gente, affabile e furbamente attenta alle esigenze del turista. Se andate in un qualsiasi centro informazioni, sarete accolti con gli onori dovuti a un’autorità per un motivo semplice: voi siete il loro datore di lavoro. Funziona così da queste parti.
Certo, ci sono le eccezioni. Tipo lo Stone Harbor Restaurant, dal quale siamo fuggiti dopo esserci imbattuti in un paio di cameriere troppo distratte e in un menù prefabbricato per polli in batteria.
Comunque, in generale, il nostro consiglio è quello di memorizzare l’indirizzo di un Walmart al quale ricorrere in caso di emergenza: da un’insalata a un panino, attraverso mille tentazioni esageratamente etniche, in questi supermercati c’è tutto a tutte le ore. Del resto, anche nell’ordinario, l’America è il Paese delle mille opportunità.

3 – continua

Viaggio in America – Oshkosh

Toponomastica di Oshkosh
Toponomastica di Oshkosh

La sensazione è quella di essere continuamente spiati da una telecamera di Hollywood. Questo lembo di Wisconsin alterna cittadine popolate da gente amichevole che parla come se masticasse a rarefazioni paesaggistiche spettrali. Provate ad arrivare a Watertown dopo le nove di sera (e per giunta in estate) e capirete molto del profondo Nord americano. La nostra esplorazione ha assunto caratteristiche estreme a causa di un curioso fenomeno che abbiamo chiamato “i turisti invisibili”. In tutto il Wisconsin trovare un posto libero in agosto è impresa assai ardua. Il quesito è: quando non dormono in hotel, dove si rintanano queste orde di turisti? Infatti difficilmente troverete una coda al ristorante o un ingorgo stradale, eppure in questo Stato e in questa stagione gli alberghi sono tutti pieni. La nostra salvezza coincide con qualche motel (come direbbe il nostro amico Giuseppe) che sta appena un gradino sopra il livello di civiltà: tanto che ogni volta che ti devi cimentare in un booking online, sei tentato di andare a cercare sul sito di Amnesty International.
Per questo parliamo di esplorazione.
Rimbalzando da un Super 8 a un Motel 6, la cui unica differenza può essere al limite trovata nella stazza delle receptionist, siamo allunati a Oshkosh, sul lago Winnebago. L’incanto del luogo è sublimato tutto in una domanda: quanti anni luce dista casa nostra? Ricorderemo Oshkosh, un tempo territorio di una tribù indiana dal nome impronunciabile, per due motivi. Il mercato del sabato dove in un ordinato bazar puoi passeggiare tra le marmellate degli Amish e il mais arrostito gentilmente proposto da un’etnia imprecisata, tra il brocantage spinto e il salutismo esasperato di un tale che ti misura la pressione e ti dice quando morirai. E l’aperitivo al tramonto al Fox River, un americanissimo luogo dove, eccezionalmente, americano è un estemporaneo sinonimo di delizioso: tavoli in riva al lago, avventori che approdano in motoscafo, e indimenticabili tacos con gamberi fritti in farina di mais. Unica nota stonata, e non è una trita metafora, anche stavolta, la musica: uno scellerato clone di James Blunt è riuscito a far convivere in modo criminale una voce fuori tono con una chitarra scordata. Per fortuna la birra è buona.

2 – continua