Ci diga ci diga

Poco meno di quarant’anni fa uno sfasciacarrozze aveva comprato i resti del DC9 precipitato in mare a pochi metri dall’aeroporto di Palermo, che allora si chiamava Aeroporto Punta Raisi. Nella televisione privata in cui lavoravo (TGS) si decise di mandare un cronista a intervistare il titolare dell’impresa di autodemolizione per capire che attrattiva potesse esercitare quel relitto.
Il cronista in questione era alle prime armi e – va detto – i suoi margini di miglioramento erano molto risicati (ovviamente finì professionista e per giunta di lungo corso).
Microfono in mano, partì con una sfilza di domande.

“Ci diga ci diga… chi è interessato all’aereo?”
E l’altro: “Mah, professionisti, curiosi…”.
“Ci diga ci diga, cosa comprano?”
“Mah, pezzi di strumentazione soprattutto…”
“Ci diga ci diga, pensa di guadagnarci?”
E qui un sospetto in noi, in sala di montaggio, si concretizzava.
“Mah, certo l’ho comprato per questo”
L’intervista evolveva pericolosamente verso il peggiore degli esiti. Che noi quasi stringendoci dietro i monitor ci dicevamo: “non glielo chiede, non glielo chiede, tranquilli non glielo può chiedere…”.
E invece glielo chiese.
“Ci diga ci diga, pensate di comprate altri?”
Risposta: “Mah, se cadono…”.

La storia, verissima, serve a ricordarci che c’è un enorme errore collettivo nel quale annegano responsabilità e visioni strategiche. E cioè che la crisi dei giornali sia frutto di una modernissima ignoranza, di un rigurgito di qualunquismo che viene su dalla gola dei social.
Non è così.
Se i giornali chiudono, se i lettori sono sempre più orgogliosamente ignoranti, la colpa è principalmente di chi doveva gestire i contenuti, di chi doveva dirigere il traffico di un barlume di sapienza, di chi non ha capito che per incatenare due parole hanno più muscoli due neuroni che due polpastrelli.
I giornali muoiono perché i giornalisti sono scarsi o perché si arrendono a quelli più scarsi di loro (che è peggio).
Fine della discussione.

L’anfetamina dei giornali

C’è un tema molto importante che riguarda l’innovazione nel mondo dell’editoria e nello specifico il rapporto tra lettore e contenuti online. Lo ha tirato fuori il direttore di Repubblica Maurizio Molinari in un’intervista su Prima Comunicazione che ha causato uno sciopero dei giornalisti del quotidiano.  
Dice Molinari parlando della riorganizzazione del lavoro che dovrebbe scattare già all’inizio del 2023:

“E’ prevista una continua indicizzazione dei contenuti, per intervenire rapidamente e costruire un’offerta informativa in linea con le preferenze dei lettori. Il nostro obiettivo è di intervenire in tempo reale, più volte al giorno, utilizzando i dati che raccogliamo sui nostri siti, sulle app, sui motori di ricerca e sui social. Se usi bene in tempo reale il seo, il giornale diventa responsive, dinamico”.

L’apparato digitale, insomma, monitora l’interesse dei lettori e propone contenuti in base alle loro scelte. È un metodo tipico del marketing digitale e soprattutto degli algoritmi dei social network.
In Italia già, ad esempio, il Corriere della Sera offre ai suoi abbonati una sezione chiamata “Le tue notizie” introdotta da questa frase:

“Ti diamo il benvenuto nella nuova sezione del Corriere che mostra le news che incontrano i tuoi interessi. Più navighi, più l’intelligenza artificiale di Corriere imparerà quali sono i temi più rilevanti, per proporre le notizie più affini a te”.

Riassumendo, i giornali online tendono ad assecondare il lettore nelle sue scelte: se quello chiede più cronaca nera gli si dà più cronaca nera, se chiede più tette gli si danno più tette, se chiede più politica estera gli si dà più politica estera. E non solo, l’indicizzazione dei contenuti è talmente raffinata che persino le categorie di cui sopra possono essere ulteriormente scremate: cronaca nera della provincia di Palermo, Bagheria esclusa; tette piccole e non medie né grandi; politica estera con risvolti rosa e sudamericani.
A parte la banalità degli esempi, c’è qualcosa che non vi torna?
Pensateci.
Sì, proprio quella cosa lì.

L’omologazione.

In questo modo avremo offerte giornalistiche sempre più omologate e omologanti con la nostra bolla di interessi, sapremo sempre di più di ciò che già in qualche modo conosciamo, e sempre più difficilmente ci imbatteremo in novità.
Molte aziende editoriali – penso al New Yorker negli Usa ma anche al Post in Italia – attuano procedure diverse, opposte direi. Scavano nelle pieghe di ciò che probabilmente non si sa, cercano di stupire il lettore, gli regalano punti di vista inaspettati, gli raccontano storie di mondi a lui lontani, e non solo geograficamente.
In poche parole: cercano di demolire le echo rooms dei social network e di bucare le bolle informative nelle quali si sono andati a cacciare.
Il giornale responsive, cioè a misura del lettore, non è la soluzione alla crisi mondiale dell’editoria, ma al contrario la sua droga. Un’anfetamina che fa finta di combattere la malattia del sistema bombardandolo con gli stessi virus che lo fiaccano. E illudendolo con nuovi sintomi, confusi e sparsi.
Lunga vita ai giornali in cui il seo non scalza le scelte di un caposervizio di esperienza, l’estro di un titolista, il coraggio di un direttore.

Gli spaventati del presepe

Non parliamo dei risultati elettorali. O meglio ne parliamo ma da un’altra angolazione. Cercando di spiegare come siamo arrivati a oggi. Niente politica, promesso. È una storia che mi è venuta in mente ieri, leggendo alcuni post su Facebook dove c’erano molte persone che si meravigliavano del fatto che tutta questa destra nelle loro timeline non l’avevano vista e che sospettavano che magari molti avessero votato di nascosto Meloni per poi far finta di nulla, fischiettando su Facebook.

È una storia che la dice lunga su quanto non sappiamo dei mezzi che usiamo, su quanto ci illudiamo di padroneggiare e su quanto dovremmo investire in conoscenza, studio e buona creanza, prima di meravigliarci per il poco di cui non c’è proprio nulla da meravigliarsi. Buon ascolto.

Qui tutti gli altri podcast.

Gery Palazzotto
Gery Palazzotto
Gli spaventati del presepe
Loading
/

La casetta di carta

La crisi dell’Espresso e le dimissioni del suo direttore sono solo la tappa intermedia di un disastro annunciato e ancora lontano dal suo fatale compimento. Quando nel 2008 mi dimisi dal giornale in cui lavoravo da vent’anni, la stragrande maggioranza dei miei colleghi mi prese per pazzo: non avevo una lira da parte e non ero ricco di famiglia. Però nel mio piccolo avevo un’intuizione, solo quella: il giornalismo italiano aveva imboccato una strada senza uscita. Per motivi che feci miei nelle scelte professionali che seguirono. Il rapporto col web me lo inventai fuori da quell’azienda che aveva addirittura spento il suo sito. Per il lavoro flessibile e delocalizzato non aspettai una pandemia. I podcast e la videocultura li capii allora lavorando come autore per committenti saggi, lungimiranti e ovviamente non siciliani (i grandi gruppi editoriali italiani i podcast li hanno scoperti e/o valorizzati solo da qualche mese). L’infotainment come stabilizzatore di ascolti cercai di portarlo in radio e nel web, ma poteva andare meglio se solo avessi trovato qualcuno un po’ più deciso su questa linea.Insomma oggi siamo dinanzi al disastro, che non è solo quello di una testata gloriosa come L’espresso. E se faccio la figura dello scassacazzi che ammonisce “io ve lo avevo detto”, mi prendo l’insulto ma sono onestamente a posto con la coscienza. Perché effettivamente lo avevo detto e scritto, a raffica, compulsivamente. Tipo stalker del giornalismo. Voci nel nulla, quasi fosse una mia paranoia. Oggi comunque abbraccio i miei colleghi in difficolta. Anche quelli che a quei tempi erano drogati da una sacralità del mestiere che li spingeva a snobbare le nuove tecnologie, a irrigidirsi in questioni sindacali assurde (tipo, premere un tasto in più necessita di un compenso straordinario). O più semplicemente erano talmente occupati a occuparsi del presente che si erano dimenticati che esiste un futuro. O dovrebbe esistere.

Cari futuri giornalisti…

Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti: cioè renderci conto delle nostre passioni, tenerci in guardia contro di esse e mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialità. L’imparzialità è un sogno, la probità è un dovere.

Cari ragazzi, futuri giornalisti, ogni volta che incontrerete un direttore che con la scusa dell’imparzialità si rifiuterà di pubblicare notizie, scambiando l’equilibrio con l’equilibrismo, rispondete con questa frase di Gaetano Salvemini. Poi cercatevi un altro giornale o un altro lavoro. Ve lo dice un esperto nel salto multiplo di occupazione.

I proprietari della Rai senza maglietta e senza tessere

GiornaliRisme

Un estratto dall’articolo di oggi su La Repubblica.

L’altro giorno al comizio di Matteo Renzi a Palermo, tra i contestatori c’erano per la prima volta dei giornalisti, giornalisti della Rai. Protestavano per il piano di tagli annunciato dal premier che vuole contenere gli sprechi nell’azienda radiotelevisiva pubblica italiana. “La Rai siamo noi” c’era scritto sulle magliette dei contestatori e mai senso di appartenenza fu più opportuno: perché quando la situazione è difficile, la chiarezza è come l’acqua santa sulla fronte dell’indemoniato, brucia ma serve.
Chiarezza quindi. E’ vero, molti giornalisti della Rai (…) hanno fatto anni e anni di gavetta e si battono per un’informazione equilibrata e non equilibrista. E’ vero, quando un governo mette mano a ristrutturazioni di aziende c’è sempre il rischio che nella foga ci vadano di mezzo i poveri lavoratori.
(…)
Ma è anche vero che, proprio quando si parla di informazione, non si può raffigurare una realtà piatta, bidimensionale. Negli anni passati alla Rai siciliana ci fu una memorabile tornata di assunzioni di giornalisti. Si entrava per segnalazione politica e non era un segreto. C’erano le quote: tot al liberali, tot ai repubblicani, tot alla Dc, tot al Pds, eccetera. Il primo degli sprechi è quello che incide sulla credibilità: per anni l’unico tesserino che alcuni colleghi hanno portato in tasca non è stato quello professionale ma quello di partito, e ciò ha finito per danneggiare il prodotto. Un prodotto che ha un involucro immenso e probabilmente sovradimensionato. Un prodotto fatto in un’Isola che stringe la cinghia e che non ne può più di disparità. “La Rai siamo noi” è quindi un ottimo slogan. Perché la Rai è di tutti, anche di quelli che non hanno quella maglietta.

Grillo, i soliti attacchi e i soliti sospetti

Italian showman Beppe Grillo gestures as

Solito format, soliti attacchi contro Napolitano, contro il presidente della Camera Boldrini, contro il Pd e Renzi, contro i sindacati e la politica, contro Berlusconi.

Così l’inviata del Tg1 ha riassunto oggi nell’edizione delle 13,30 gran parte della missione palermitana di Beppe Grillo che ieri sera ha parlato in piazza Politeama. Non ne faccio una questione politica – una volta ho votato per il Movimento 5 Stelle, molte altre volte ne ho scritto criticamente qui e sui giornali – ma prettamente giornalistica. Non c’è nulla di male nel descrivere sbrigativamente un comizio, basta avere la coscienza a posto. C’è invece qualcosa di irritante nel imporre il doppiopesismo di un’informazione che ha la memoria corta.
Mi spiego.
Negli ultimi vent’anni abbiamo avuto un tale al governo – o da quelle parti – che ripeteva ogni giorno la stessa solfa: contro i giudici, contro i comunisti, contro Napolitano o chi per lui. Mai che il Tg1 si sia limitato a una descrizione sbrigativa del verbo berlusconiano, mai che abbia riassunto il veleno del leader di Forza Italia come “il solito veleno”, o magari “il solito format”. Mai.
Ora, per quanto mi riguarda, Grillo può gridare e sbagliare quanto vuole, il mio compito di elettore è censire le buone proposte nel suo programma, se ce ne sono, e decidere di conseguenza. Ma la Rai e il Tg1, che negli ultimi decenni hanno dato prova di esibirsi come equilibristi su un filo di lana (quindi di sfidare le leggi della logica) quando si trattava di diffondere il verbo di uno che lanciava “soliti attacchi” contro tutti quelli che si mettevano in mezzo tra lui e il suo tornaconto, non può sbagliare. Da spettatore pagante oggi esigo la stessa minuziosa pelosità nel raccontare le gesta del potente di turno. Altrimenti sarò legittimato a pensare che è facile fare gli spiritosi con Grillo perché – con tutti i difetti che ha – non spartisce, non traccheggia, non lottizza, non corrompe: basta essere dei gran codardi.

Fermate le rotative

il piccolo

Grazie a Giuseppe Giglio.

Al cimitero non c’era anima viva

Ieri alcuni amici (e colleghi) mi interrogavano sulle bestialità che nella mia vita di giornalista mi è capitato di leggere. Nell’imbarazzo della scelta, ho comunque tirato dai cassetti della mia testa confusa cinque esempi che, a mio modesto parere, non possono rimanere patrimonio di pochi. Ve li propongo senza voler fare alcuna classifica, ma con l’unico obiettivo di consegnarli alla memoria collettiva.

 “Morti perché la pensavano alla stessa maniera”. Attacco di un pezzo su uno scontro frontale tra auto in provincia di Trapani.

 “Al cimitero mancano gli spazi vitali”. Invettiva di un corrispondente di Enna sul sovraffollamento del cimitero cittadino.

 “Al cimitero non c’era anima viva”. Variante dello stesso corrispondente sul medesimo argomento: una sua campagna personale.

 “Quando si dice gioventù bruciata”. Attacco di un pezzo su un incidente stradale in provincia di Agrigento in cui erano morti carbonizzati tre ragazzi.

 “Per fare un diamante ci vuole una salma”. Attacco di un pezzo su un tizio che ha usato le ceneri del cadavere del figlio per farsi un anello.

La voce del (fratello del) padrone

Senza titolo

Anche oggi l’home page del giornale.it fa un buon lavoro per il fratello del padrone.