Schettino e il naufragio dell’informazione

Il caso della gaffe di Televideo su “Io capitano” associato alla storia di Schettino e del naufragio della Concordia rimanda a due considerazioni, che vi porgo in modo spero agile (perché il discorso potrebbe essere complesso).

La prima riguarda il disagio dei giornalisti come categoria in un Paese (verrebbe da dire in un mondo, ma restiamo circoscritti) che legge sempre meno e che, soprattutto, è sempre meno interessato alla qualità della lettura. E lettori pessimi si accontentano di giornali pessimi. Lo dimostra il fatto che esistono ottimi prodotti editoriali che nessuno compra, perché si preferisce la spazzatura gratuita dei social o di bassa lega.
Le redazioni sono svuotate per motivi economici, il lavoro che veniva fatto da dieci persone è oggi fatto da due, il che alimenta l’offerta di informazione scadente. In più ci si mette l’uso folle dell’intelligenza artificiale, che pare aver un ruolo nell’incidente di Televideo.

La seconda considerazione è figlia della prima. Nei giornali che vogliono essere troppo nuovi le decisioni editoriali sono guidate da statistiche che, analizzando ciò che genera più traffico, decretano la morte dell’idea originale, del guizzo, della bracciata controcorrente. In un loop paradossale (di cui stiamo già pagando le conseguenze) gli algoritmi non riflettono solo le tendenze, ma addirittura le creano incrementando la popolarità di temi già popolari e determinando una polarizzazione dei lettori che non riflette gli equilibri reali. Insomma – come scrissi qui qualche tempo fa – se a nessuno viene mai spiegato che la musica elettronica o l’architettura postmoderna sono argomenti importanti, è molto difficile che qualcuno li tratti come tali.
La verità è una sola: il ruolo del giornale come arbitro si sta perdendo. Se i dati dicono che gli argomenti provinciali sono i più rilevanti, anche il giornale diventerà provinciale. Morale storta: cercando di essere più grandi, si rischia di diventare più piccoli.
Il bello, o meglio il brutto, è che colpevolmente quasi nessuno nelle aziende editoriali italiane (e non) è mai stato colpito dall’idea che bisogna cambiare radicalmente il modo di lavorare, di scegliere le notizie, persino di reclutare giornalisti. Ma questo è un problema di conoscenza e di coraggio. E il coraggio viene dopo.

Ci diga ci diga

Poco meno di quarant’anni fa uno sfasciacarrozze aveva comprato i resti del DC9 precipitato in mare a pochi metri dall’aeroporto di Palermo, che allora si chiamava Aeroporto Punta Raisi. Nella televisione privata in cui lavoravo (TGS) si decise di mandare un cronista a intervistare il titolare dell’impresa di autodemolizione per capire che attrattiva potesse esercitare quel relitto.
Il cronista in questione era alle prime armi e – va detto – i suoi margini di miglioramento erano molto risicati (ovviamente finì professionista e per giunta di lungo corso).
Microfono in mano, partì con una sfilza di domande.

“Ci diga ci diga… chi è interessato all’aereo?”
E l’altro: “Mah, professionisti, curiosi…”.
“Ci diga ci diga, cosa comprano?”
“Mah, pezzi di strumentazione soprattutto…”
“Ci diga ci diga, pensa di guadagnarci?”
E qui un sospetto in noi, in sala di montaggio, si concretizzava.
“Mah, certo l’ho comprato per questo”
L’intervista evolveva pericolosamente verso il peggiore degli esiti. Che noi quasi stringendoci dietro i monitor ci dicevamo: “non glielo chiede, non glielo chiede, tranquilli non glielo può chiedere…”.
E invece glielo chiese.
“Ci diga ci diga, pensate di comprate altri?”
Risposta: “Mah, se cadono…”.

La storia, verissima, serve a ricordarci che c’è un enorme errore collettivo nel quale annegano responsabilità e visioni strategiche. E cioè che la crisi dei giornali sia frutto di una modernissima ignoranza, di un rigurgito di qualunquismo che viene su dalla gola dei social.
Non è così.
Se i giornali chiudono, se i lettori sono sempre più orgogliosamente ignoranti, la colpa è principalmente di chi doveva gestire i contenuti, di chi doveva dirigere il traffico di un barlume di sapienza, di chi non ha capito che per incatenare due parole hanno più muscoli due neuroni che due polpastrelli.
I giornali muoiono perché i giornalisti sono scarsi o perché si arrendono a quelli più scarsi di loro (che è peggio).
Fine della discussione.

Purismi

Lavorando in un teatro d’opera, scrivendo per mestiere e invecchiando con allegra libertà sono sempre alle prese con le esigenze (altrui) di purismo. Avvertenza per il lettore: il concetto di purismo che qui affronto non ha nulla a che fare con lo storico movimento che tende(va) “a considerare la tradizione linguistica nazionale come qualcosa che deve essere mantenuto incontaminato da influenze lessicali, sintattiche, morfologiche e fonetiche straniere non solo per ragioni funzionali ma anche per ragioni affettive”. Il “mio” purismo ha più a che fare con una stretta osservanza della tradizione, con l’inchino nei confronti di ciò che è classico: diciamo che è qualcosa che sta sull’altra sponda rispetto all’innovazione; non distante, ma di fronte.
Questo tipo di atteggiamento conservatore non va deprecato, è legittimo e ha una sua utilità: i custodi dell’ortodossia servono sempre, sono depositari di una quota di memoria che non va usata come catalizzatore di nostalgie, bensì come perno sul quale far girare nuove idee.
In particolare mi interessa qui ribadire un antico concetto sulla modernità (e ci scappò l’ossimoro): il fatto che il futuro avanza inesorabile non vuol dire che il passato non serva più a nulla.

Negli ultimi mesi ho avuto a che fare con giovani e giovanissimi in università e scuole. Ho incontrato ragazzi in gamba e meno in gamba, autentici gioielli e figure opache. Ma tutti mi hanno scioccato su una cosa: non conoscono i giornali. Alla domanda “dimmi i nomi di almeno due giornali siciliani” praticamente nessuno di loro è stato in grado di darmi una risposta esaustiva.
Se avessi seguito la mia logica novecentesca avrei dovuto indignarmi, ma siccome occuparsi di futuro significa sforzarsi di galleggiarci dentro, ho tirato un sospiro e ho realizzato che quella è la loro ortodossia, è il principio della loro nuova memoria. I giornali sui quali siamo cresciuti, su quali ci siamo accapigliati non esistono più. Esistono altri prodotti, contaminati e un po’ emergenziali, che dovranno imparare a gestire uno dei beni più importanti per la crescita di una generazione: il sapere della cronaca.

Non voglio sbilanciarmi, ma credo che nelle aziende editoriali le idee non siano troppo chiare in tal senso. A ogni modo queste righe non servono per ispirare nuove fabbriche di news, ma per scavare sentieri per il nuovo pubblico: che sia giornale, teatro, cinema, libri, il sistema dell’apprendimento è un flusso che scorre tra due capi e se ne manca uno, non funziona un bel niente.
Il nuovo pubblico dobbiamo essere noi a plasmarlo, intercettando le sue inclinazioni ma mantenendo il nostro diritto a sperimentare. I successi di oggi non hanno nulla a che fare con quello che accadrà l’anno prossimo. La logica di un aureo mantenimento, come un salvagente per non annegare, è proprio quella perdente. Se c’è un momento in cui bisogna rischiare, credo che sia questo: sparigliando, scommettendo.
Il purismo crede di essere un baluardo della preservazione di un bene comune, mentre rischia di esserne il killer più spietato.

Serve coraggio per imbastire nuovi programmi che guardino a dopodomani, programmi che magari non ci risultino pienamente compiuti ma che ci creino suggestioni: il futuro inizia sempre con una sensazione vaga.
Serve la saggezza di dire “io questa cosa non la so fare quindi mi rivolgo a chi la sa fare”.
Serve soprattutto finirla di essere isole senza traghetto e cominciare a ordire trame a lungo termine, tutti insieme, senza preclusioni. E questo è il più difficile dei banchi di prova di chi amministra, di chi governa, di chi decide e sceglie con chi decidere.

Se ci fosse un partito per la cultura del sano stupore lo voterei immediatamente.  

Scopro le carte

Qualche giorno fa ho scritto sui miei ispiratori, persone e personaggi che in qualche modo mi hanno influenzato nella professione, nelle passioni, nello sport e in generale nella visione delle cose del mondo.
Non è una classifica, né una walk of fame. Non ci sono etica e rimbalzi sociali a condizionarmi. Non è una lista di buoni, di geni, di perfetti, di modelli: alcuni di loro lo sono innegabilmente, altri sono persone qualunque che hanno “funzionato” magari solo con me, a loro insaputa. Non è nemmeno una resa dei conti. Perché sono grato a ognuno di loro e se mai ci fosse da pagare un conto, dovrei essere io a mettere la mano al portafoglio.
Insomma completiamola, quest’opera. E spieghiamo. Spiegare non è mai superfluo. Magari provateci anche voi: a una certa età mettere nero su bianco le cose importanti fa sempre bene.

Donald Fagen è la mia musica con e senza gli Steely Dan, la mia vita si divide tra prima e dopo The Nightfly. (Lo sto ascoltando mentre scrivo queste righe)

Stephen King è il maestro anzi il Re. Non ho mai letto un suo libro distrattamente, neanche quelli che mi sono piaciuti meno.

Gino Vannelli è la colonna sonora delle mie imprese sciistiche. Ancora oggi quando ascolto Brother to Brother sento odore di sciolina nell’aria.

Phil Collins, perché non è ancora morto.

Sheila E., la vidi in concerto con Prince (di cui sotto) e capii che grazia e potenza e bellezza stavano tutte lì, davanti ai miei occhi stralunati.

Manolo l’ho frequentato da ex arrampicatore, da giornalista e poi da amico.

Toni Valeruz mi fece venire la più insana delle idee della mia vita: buttarmi con gli sci da una pietraia di Monte Pellegrino. Per fortuna ci ripensai, altrimenti non sarei qui. O ci sarei a rate.

Prince è stato il mio alfabeto musicale.

Clare H. Torry perché è la voce più bella della canzone più bella.

Nick Hornby scrive con la fluidità e la serena spensieratezza che vorrei avere io e che nessuno ha, a parte lui.

Ernest Shackleton è il mio eroe della più grande avventura cinematografica che non è mai stata un film.

Moana Pozzi, perché l’ho conosciuta e non dimenticherò mai che l’intelligenza è sexy.

Salvo Licata è stato il mio maestro di giornalismo e, diciamolo, di vita.

Wassily Kandinsky, perché i suoi colori visti all’Hermitage di San Pietroburgo li ho ancora negli occhi.

Italo Calvino, le “Lezioni Americane” è il libro che mi ha cambiato la vita. E che mi ha costretto a fare conferenze sui libri che cambiano la vita…

Claudio Magris, ovvero il Sommo Magris.

Roger “Verbal” Kint (attenzione spoiler!) è Keyser Söze, il protagonista del più bel giallo-thriller di tutti i tempi.

Oriana Fallaci, perché non essere d’accordo con lei era insostituibile spunto di arricchimento.

Graham Vick, un grande regista teatrale, uno dei giganti che ti metteva a tuo agio con idee di una genialità sconvolgente e che non ti guardava mai dall’alto in basso. Una volta con lui realizzammo un fotoromanzo…

Pat Metheny, la chitarra e il chitarrismo quando volevo essere un chitarrista.

Donna Summer, il primo turbamento sensuale per un sussurro che veniva fuori da un vinile.

Filippo Carollo, l’amico che mi manca ormai quasi da trent’anni. Un amico che non sono riuscito a salvare.

Peppino Sottile, il giornalista che mi ha dato fiducia nonostante la sua intransigente ferocia. Ancora oggi quando ci sentiamo cito a memoria le sue cazziate.

Guido e Maurizio De Angelis. Il primo 33 giri che ho consumato sino a piallarlo. Un The Best delle loro colonne sonore: da “Piedone lo sbirro” a “Altrimenti ci arrabbiamo”, da “Per grazia ricevuta” a “Orzowei”.

Niccolò Ammaniti perché “Ti prendo e ti porto via” è il mio romanzo d’amore.

Maria Cefalù è stata una regista della Rai siciliana che per prima mi ha affidato un programma radiofonico – avevo vent’anni – ed ebbe il coraggio di anticipare a mio padre che no, non sarei stato un medico.

Stanley Kubrick perché non conosco un regista che ha attraversato generi e scritture così diverse come ha fatto lui.

Olivia Newton John per la sua grazia eterna. Di grazia siamo affamati, ma non ce lo confessiamo.

P.S. La foto è di trent’anni fa – Val Thorens, 3.500 metri di quota, 26 gradi sotto zero – e ha dentro gran parte di ciò che ho scritto in queste righe. Basta guardarla con un pizzico di compassione ;)

La spesa gratis

Da (molti) anni c’è una tendenza molto social e molto trasversale a demolire i giornalisti e a ridicolizzare il loro lavoro. Chiunque, ma proprio chiunque, si sente legittimato a giudicare in pubblico una nostra scelta di argomento o una trattazione o un’opinione in modo preventivo. Mi è accaduto spesso quando nel passato annunciavo su Facebook un commento su “la Repubblica” del giorno dopo, di essere assalito da commenti molto aggressivi basati su un articolo che ancora nessuno, a parte me e il caporedattore o un collega incaricato, aveva letto.
Questo fenomeno va inquadrato in una più generale degenerazione del senso di allerta dinanzi all’attendibilità di una notizia. Che non è una cosa da addetti ai lavori, ma al contrario una sorta di diritto-dovere del lettore. Cioè chi legge non può sentirsi deresponsabilizzato su ciò che sceglie: se io leggo il Mein Kampf devo sapere chi lo ha scritto, quando e cosa ne è derivato. Così se mi documento sui canali social di Flavia Vento o di Red Ronnie devo sapere dinanzi a quale desco mi sto accomodando.
Detta in modo diverso, l’ignoranza del lettore ha dei limiti di colpevolezza sempre più ampi. Come quelli di chi per curare una malattia si rivolge al santone peruviano (mi perdonino i peruviani non santoni truffatori) o di chi compra i funghi dal raccoglitore improvvisato o di chi ancora chiede arte a chi non ha idee ma padrini.
Una delle obiezioni più frequenti quando per leggere una notizia online si deve pagare è: devo risparmiare (non vi dico quante persone mi scrivono privatamente per avere il pdf di questo o quell’articolo). Una delle obiezioni più frequenti a chi muove queste obiezioni più frequenti dovrebbe essere: quanti abbonamenti tv hai? Hai mai pensato di fare la spesa gratis? Il tuo smartphone di ultima generazione te lo hanno regalato?

La verità è che restare informati e coltivare un minimo di conoscenza costa. Costa in termini di attenzione da dedicare al lavoro altrui. Costa per l’umiltà di ammettere che “l’università della vita” non salva la vita. Costa perché ponderare è un’attività molto scomoda che richiede impegno. Costa perché nuotare contro il mainstream (e oggi sappiamo che il mainstream non abita più nei giornali) è faticoso. Insomma il risparmio economico è solo una scusa pigra, dagli effetti collaterali devastanti.

Segnatevelo per quando sarete inginocchiati davanti al mahatma Elon Musk e quando per cercare un’opposizione semiclandestina dovrete aggrapparvi alla giacca di Mark Zuckerberg: un mondo meno informato o peggio informato a cazzo di cane è un mondo che si consegna alla dittatura dell’ignoranza. Chi legge i giornali sa che i veri oligarchi, i giornali o se li comprano o li radono al suolo. E voi non leggendo rischiate di essere, nel migliore dei casi, servi sciocchi. Sciocchi e colpevoli.

L’anfetamina dei giornali

C’è un tema molto importante che riguarda l’innovazione nel mondo dell’editoria e nello specifico il rapporto tra lettore e contenuti online. Lo ha tirato fuori il direttore di Repubblica Maurizio Molinari in un’intervista su Prima Comunicazione che ha causato uno sciopero dei giornalisti del quotidiano.  
Dice Molinari parlando della riorganizzazione del lavoro che dovrebbe scattare già all’inizio del 2023:

“E’ prevista una continua indicizzazione dei contenuti, per intervenire rapidamente e costruire un’offerta informativa in linea con le preferenze dei lettori. Il nostro obiettivo è di intervenire in tempo reale, più volte al giorno, utilizzando i dati che raccogliamo sui nostri siti, sulle app, sui motori di ricerca e sui social. Se usi bene in tempo reale il seo, il giornale diventa responsive, dinamico”.

L’apparato digitale, insomma, monitora l’interesse dei lettori e propone contenuti in base alle loro scelte. È un metodo tipico del marketing digitale e soprattutto degli algoritmi dei social network.
In Italia già, ad esempio, il Corriere della Sera offre ai suoi abbonati una sezione chiamata “Le tue notizie” introdotta da questa frase:

“Ti diamo il benvenuto nella nuova sezione del Corriere che mostra le news che incontrano i tuoi interessi. Più navighi, più l’intelligenza artificiale di Corriere imparerà quali sono i temi più rilevanti, per proporre le notizie più affini a te”.

Riassumendo, i giornali online tendono ad assecondare il lettore nelle sue scelte: se quello chiede più cronaca nera gli si dà più cronaca nera, se chiede più tette gli si danno più tette, se chiede più politica estera gli si dà più politica estera. E non solo, l’indicizzazione dei contenuti è talmente raffinata che persino le categorie di cui sopra possono essere ulteriormente scremate: cronaca nera della provincia di Palermo, Bagheria esclusa; tette piccole e non medie né grandi; politica estera con risvolti rosa e sudamericani.
A parte la banalità degli esempi, c’è qualcosa che non vi torna?
Pensateci.
Sì, proprio quella cosa lì.

L’omologazione.

In questo modo avremo offerte giornalistiche sempre più omologate e omologanti con la nostra bolla di interessi, sapremo sempre di più di ciò che già in qualche modo conosciamo, e sempre più difficilmente ci imbatteremo in novità.
Molte aziende editoriali – penso al New Yorker negli Usa ma anche al Post in Italia – attuano procedure diverse, opposte direi. Scavano nelle pieghe di ciò che probabilmente non si sa, cercano di stupire il lettore, gli regalano punti di vista inaspettati, gli raccontano storie di mondi a lui lontani, e non solo geograficamente.
In poche parole: cercano di demolire le echo rooms dei social network e di bucare le bolle informative nelle quali si sono andati a cacciare.
Il giornale responsive, cioè a misura del lettore, non è la soluzione alla crisi mondiale dell’editoria, ma al contrario la sua droga. Un’anfetamina che fa finta di combattere la malattia del sistema bombardandolo con gli stessi virus che lo fiaccano. E illudendolo con nuovi sintomi, confusi e sparsi.
Lunga vita ai giornali in cui il seo non scalza le scelte di un caposervizio di esperienza, l’estro di un titolista, il coraggio di un direttore.

Pagine al vento

Le persone che seguono i tg, i giornali, non ne vogliono più sapere delle notizie. Lo dice uno studio molto serio, su scala mondiale. Tra le cause, da un lato c’è una convergenza sociale ed economica: i social, le bolle di disinformazione, i dilettanti allo sbaraglio, l’università della vita. Dall’altro, il fatto che noi giornalisti facciamo giornali fatti per noi, per una sorta di autoerotismo nel quale ci sono le notizie che ci piacciono e quelle che non ci piacciono.
Il podcast con un paio di storie personali.

Qui tutti gli altri podcast.

Gery Palazzotto
Gery Palazzotto
Pagine al vento
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La realtà è noiosa?

La realtà è diventata (più) noiosa? O siamo noi che siamo diventati più resistenti allo stupore?
Il tema è meno personale di quanto possa sembrare giacché la percezione della realtà non è soltanto qualcosa da relegare nell’angolo più remoto dei cazzi nostri, ma riguarda tutto il sistema sociale sul quale si basa la parte migliore della nostra vita: quello della relazione con altro e altri.

Esempio. Se io considero la realtà più noiosa – che è già una risposta alle prime due domande poiché la realtà di suo non è divertente o meno, ma sono io che le attribuisco un punteggio in termini di mio stupore – di conseguenza sono meno interessato a essa. Quindi: mi estraneo, vado meno al teatro, leggo meno libri, mi consolo coi social network, bevo di più, mi ingozzo di cibo spazzatura, fumo cento sigarette, indurisco il mio cuore, produco meno, mi drogo, ipotizzo stragi condominiali, divento terrapiattista (in ordine di gravità).
Mentre se reagisco alla resistenza che ho sviluppato allo stupore posso imparare a guardare  le cose con occhio diverso. Senza paura di ammettere che ho cambiato idea, senza l’ansia di dover indossare un abito nuovo. 

Per lungo tempo ho fatto lavori pressoché anonimi: molto ghostwriting (qui una cosa carina in proposito), molta cucina nei giornali. Ruoli che sembrano secondari ma che invece nascondono una fondamentale verità: ci sono mestieri in cui se non ti si vede/nota vuol dire che il lavoro è fatto bene. Non è stato facile, per uno con la mia autostima grottescamente strabordante, convivere con questo compromesso. Ma quello passava il convento e quello dovevo fare per campare. Tutto sommato era un bel mestiere e probabilmente era giusto così.
Ecco, allora ero nel limbo della “realtà noiosa”. Scrivevo per altri e col nome di altri, pensavo a come tirar su un reddito che mi consentisse una vita dignitosa (obiettivo sempre raggiunto perché oltretutto ho culo) e fumavo il fumabile.
Poi cominciai a capire che il problema non era della realtà, ma mio. E cominciai a cambiare le carte e il gioco. Nuotai controcorrente e, non essendo un campione, rischiai di andare a fondo un paio di volte, abbandonai compagni di viaggio che non meritavano la mia compagnia e finalmente scelsi in modo radicale.

Oggi sono un collezionista di errori, alcuni dei quali imperdonabili (ve ne ho parlato più volte). Ma ho imparato che, come sappiamo e come facciamo finta di non sapere, quando il mondo sembra avercela con te, sei tu il problema. E che non c’è vergogna a correggere il tiro senza per forza dare la colpa all’altro.
Ora non vi voglio mandare il messaggio di amore e fratellanza universale perché ci sono momenti in cui le budella si aggrovigliano e vorresti mandare a fare in culo l’universo mondo: ecco quelli sono momenti catartici, ma sono un’eccezione.
Invece voglio sommessamente suggerirvi che quando la realtà vi appare meravigliosa è molto probabile che siate fortunati, ma c’è anche una minima possibilità che vi siate addormentati sul divano.
E lì è sul risveglio che si gioca la partita della vostra storia.
Stupitevi almeno di voi stessi, che è un buon modo di ricominciare. Poi andate a dormire a letto, come dio comanda.           

La casetta di carta

La crisi dell’Espresso e le dimissioni del suo direttore sono solo la tappa intermedia di un disastro annunciato e ancora lontano dal suo fatale compimento. Quando nel 2008 mi dimisi dal giornale in cui lavoravo da vent’anni, la stragrande maggioranza dei miei colleghi mi prese per pazzo: non avevo una lira da parte e non ero ricco di famiglia. Però nel mio piccolo avevo un’intuizione, solo quella: il giornalismo italiano aveva imboccato una strada senza uscita. Per motivi che feci miei nelle scelte professionali che seguirono. Il rapporto col web me lo inventai fuori da quell’azienda che aveva addirittura spento il suo sito. Per il lavoro flessibile e delocalizzato non aspettai una pandemia. I podcast e la videocultura li capii allora lavorando come autore per committenti saggi, lungimiranti e ovviamente non siciliani (i grandi gruppi editoriali italiani i podcast li hanno scoperti e/o valorizzati solo da qualche mese). L’infotainment come stabilizzatore di ascolti cercai di portarlo in radio e nel web, ma poteva andare meglio se solo avessi trovato qualcuno un po’ più deciso su questa linea.Insomma oggi siamo dinanzi al disastro, che non è solo quello di una testata gloriosa come L’espresso. E se faccio la figura dello scassacazzi che ammonisce “io ve lo avevo detto”, mi prendo l’insulto ma sono onestamente a posto con la coscienza. Perché effettivamente lo avevo detto e scritto, a raffica, compulsivamente. Tipo stalker del giornalismo. Voci nel nulla, quasi fosse una mia paranoia. Oggi comunque abbraccio i miei colleghi in difficolta. Anche quelli che a quei tempi erano drogati da una sacralità del mestiere che li spingeva a snobbare le nuove tecnologie, a irrigidirsi in questioni sindacali assurde (tipo, premere un tasto in più necessita di un compenso straordinario). O più semplicemente erano talmente occupati a occuparsi del presente che si erano dimenticati che esiste un futuro. O dovrebbe esistere.

Secondo me

C’è un antico problema del giornalismo, diventato modernissimo per via dei negazionisti dell’ultima ora, no vax o no brain che siano. E cioè quello legato al valore della testimonianza. Un giornalista gode di un privilegio sin dai tempi in cui il giornalismo è nato: lui c’è, racconta, commenta laddove gli altri non ci sono, quindi non possono raccontare con facilità e di conseguenza non possono commentare con dovizia di particolari. È il fattore del “secondo me”. Un fattore cruciale ai giorni nostri. Non vi sfuggirà infatti che il “secondo me” rappresenta un vantaggio e al tempo stesso un handicap.

Il “secondo me” che conosciamo sino al pre-pandemia, anzi – diciamolo chiaramente – sino a prima dell’avvento del Movimento 5 stelle di Grillo e Casaleggio, era un vantaggio perlopiù professionale, un po’ come il poliziotto che arriva per primo sulla scena del delitto o il regista che conosce tutte le scene tagliate e i retroscena proibiti del suo film. Poi c’è stata l’ecatombe della ragione e il “secondo me” è diventato il vessillo del famigerato “uno vale uno”, la bandiera della cultura da smartphone (un tempo c’erano i Bignamini – e magari li rimpiangiamo – oggi c’è l’indice di Telegram), l’altare su cui immolare ogni certezza scientifica o peggio su cui bruciare ogni residuo di realtà.

È tutto in questo uno-due, in questo capovolgimento che pare istantaneo e che invece parte da lontano (ne abbiamo parlato qui a proposito di un modello comunicativo deviato e purtroppo di successo) gran parte dello sfacelo dei nostri giorni. Perché sino a quando la ragione aveva una sua cittadinanza, una testimonianza serviva per farsi un’idea, non per costruirne una completamente falsa.


E la “falsa idea” è il cancro sociale dei nostri giorni.

Oggi la Terra rotonda (e persino quella piatta) è popolata da persone che credono di aver razionalizzato un evento, con le sue cause e le sue conseguenze, e che costruiscono su questa illusione un abbecedario per il futuro. Però il futuro ha un cazzo di problema, è aperto a ciò che non esiste ma chiusissimo allo spaccio di verità false. Perché il futuro sbugiarda sempre, spesso con crudeltà estrema. Il futuro non fa sconti. Il futuro stupra i sui stupratori, senza pietà. Solo che, ontologicamente, lo fa coi suoi tempi, decimando i testimoni: la vita è una malattia mortale (cit).

Recuperare il valore della testimonianza è una cosa molto complicata poiché è un atto bilaterale, e gli atti bilaterali rompono i coglioni: non basta un mea culpa o un ripassino fatto bene, devi sempre trovare uno che controfirmi il tuo ravvedimento. Insomma, un vero casino. È così che sono morti gran parte dei giornali, non hanno saputo trovare credito per la controfirma, per il tacito contratto tra due parti che in fondo sono una sola.
Però una cosa la dobbiamo tenere a mente. Che la testimonianza è il primo motore immobile del tempo. Senza, non c’è futuro e manco presente.
Senza testimonianze non avremmo contezza di ciò che accade fuori dal nostro raggio visivo. Non sapremmo niente delle meraviglie che ci aspettano. Non pregusteremmo l’arte, la tecnologia, l’amore.

Viviamo biologicamente secondo le regole di quel genio trasversale di Dante, similitudine e contrappasso. Sentiamo più freddo di quella volta, vogliamo essere accarezzati come quell’altra volta, non intendiamo stare male come quella volta, confidiamo di scamparla meglio di quell’altra volta.  

Non so come recupereremo il valore della testimonianza, giornalisti e non. So solo che senza, non saremo migliori o peggiori, non saremo più o meno scaltri, non saremo in vantaggio o sconfitti. Semplicemente non saremo. Testimoni.