Sanremo, gewurztraminer e basta così

Non so se quest’anno guarderò il Festival di Sanremo. Andare appresso al mega spettacolo dell’Ariston, in un lontano passato, è stato anche il mio mestiere. Da critico musicale mi sono sorbito millenni di dirette televisive sino a tarda ora per consegnare il pezzo con tutte le sue ribattute in tempo per essere impaginato: ebbene sì, ci fu un tempo in cui esistevano i giornali, e soprattutto esistevano lettori che aspettavano l’indomani per leggerli. Più fortunato di me (ma se chiedete a lui negherà) è stato il mio amico Totò Rizzo, giornalista sopraffino e grande esperto di musica e teatro, che veniva inviato a Sanremo e se la spassava tra sala stampa e dietro le quinte, scrivendo cronache indimenticabili. Insomma io alla tv, lui nell’arena.
Ma non è di questo che volevo parlarvi.
Voglio tentare di spiegare il motivo per cui il Festival mi interessa poco, nonostante su questo blog ne abbia parlato un po’ nell’ultimo decennio e forse più.
Quel che conta, nel mio disamore, è la formula della competizione a rate, la finta sorpresa della finta sorpresa, e il gewurztraminer.

Ho maturato una vera allergia nei confronti di tutto ciò che è gara spalmata su maratone lunghe giorni. Un tempo, anche per ragioni sportive, tutto ciò mi avrebbe attratto: oggi invece mi deprime. Mi piacciono le prestazioni sul lungo termine, a patto che non siano parcellizzazione dell’audience, ma concatenazioni di esperienze. Non corro più le (mezze) maratone, ma preferisco il Cammino del Nord.

La finta sorpresa, poi, è il sintomo più fastidioso di un’epoca di rarefazione della verosimiglianza. La finta sorpresa di una finta sorpresa è l’annuncio di qualcosa che non dovrebbe accadere pur dovendo accadere, ma che ineluttabilmente accadrà perché se non accadesse nulla potrebbe accadere. Insomma una minchiata col botto. In epoca di binge watching centellinare le finte sorprese in estenuanti serate in diretta (con finte rivelazioni calibrate al TG1 delle 20) è come andare a cercare l’entusiasmo di un gruppo di animalisti trapiantati nel pubblico di una corrida.

Infine il gewurztraminer. Il passaggio più umanamente fallace di questo ragionamento, proprio perché forzatamente soggettivo. È un vino che ho amato, in altre circostanze, sotto altri cieli. Ma c’è un momento in cui le cose cambiano e se il corollario che le avvolge non le segue, diventano desuete, magari irritanti. Per me ci sono vini immortali e vini passeggeri. Musica immortale e musica passeggera. E non è colpa né dei vini né della musica. Ma di chi ascolta, beve, vive.
Insomma quest’anno non so se guarderò il Festival, di certo non berrò gewurztraminer.